di Nadia Caldieri
Nadia Caldieri racconta la sua prima visita a un carcere. Il suo scritto è apparso anche su "Ristretti orizzonti. Periodico di informazione e cultura dal carcere Due Palazzi di Padova" n. 1, gennaio-febbraio 2005, pp. 41-43, con il titolo Cronaca di un primo ingresso in carcere, e alcune varianti nel testo.
Ho chiesto di poter assistere alla presentazione di un libro da poco uscito sulle carceri femminili nell’Italia dell’Ottocento. Si tratta del volume di Simona Trombetta dal titolo Punizione e carità. Da tempo sto conducendo una ricerca sulle carceri femminili tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, e anche per questa ragione mi interessa partecipare all’incontro.
Ho dovuto comunicare con anticipo la mia presenza perché l’evento si svolge all’interno di un carcere, quello femminile della Giudecca a Venezia e qualche ufficio ministeriale deve fare controlli.
Sono quasi le tre del pomeriggio e cammino sulla fondamenta dell’isola della Giudecca. Non so dov’è il carcere, non ci sono mai stata. Non sono mai entrata in nessun carcere finora.
Prima di un ponte giro a sinistra e guardo, pensando che è inutile chiedere a qualche passante. Mi dico “un carcere si vede!”, ma non è così. Fermo un tizio sulla quarantina che mi suggerisce di seguirlo: “devo andarci anch’io” dice. Il penitenziario è a una cinquantina di metri, me lo indica. È un normale palazzo che si distingue da quelli intorno solo per una bandiera italiana issata su un’asta obliqua. Entro. Alla mia destra c’è una piccola stanza dove i visitatori, che io immagino siano per lo più i parenti delle detenute, devono fare anticamera, previo controllo di documenti e permessi. Nella stanza ci sono già altre persone e quando è il mio turno consegno la carta d’identità a un agente donna che si trova dall’altra parte del muro. Il muro ha una finestra, blindata immagino, che sul lato inferiore ha un aggeggio scorrevole che permette di far passare quasi solo carte. Il riquadro della finestra è dipinto di verde, sembra che il colore sia stato dato a mano, con un pennello e mi dà un’impressione di vecchiume. Di fronte a questa apertura, sulla parete opposta, c’è una finestra vera dalla quale si vede il palazzo di fronte e un pezzo di cielo. È alta e ha le inferriate. Sotto alla finestra, un vecchio tavolo quadrato forse di formica. È brutto, rovinato.
Nella stanza ci sono anche quattro sedie tutte di ferro e il colore scrostato fa affiorare in molti punti la ruggine. Sulla parete di fronte alla porta d‘ingresso, è ritagliata un’altra porta attraverso la quale si accede a un bagno. Una volta entrata scopro che non c’è la chiave. Di carta igienica nessuna traccia.
Sulla parete col riquadro verde che incornicia il volto dell’agente di turno, c’è una bacheca e, appesi, alcuni avvisi tutti destinati ai parenti. Uno datato 28-12-96 recita “Si ricorda ai Sig. Parenti che dal primo gennaio 1997 verranno accettate come documenti solo le carte d’identità (né passaporto, né patente)”. Mi lascia perplessa l’impossibilità di usare il passaporto. Mi chiedo perché.
Appesi alla bacheca ci sono poi altri due fogli, molto grandi. Si tratta di lunghe tabelle. La prima porta il titolo “Istituti penali femminili. Tabella n. 1 Generi vittuari e di vestiario consentiti”. La seconda invece “Istituiti penali femminili. Tabella n. 2 Generi vittuari non consentiti”. Mi metto a leggere e la stranezza di quegli elenchi mi convince a prendere qualche appunto.
Nei pacchi che i familiari possono far giungere alle loro congiunte recluse, la frutta secca e la frutta esotica sono tabù così come “tutta la frutta non inclusa nei generi consentiti”. Cerco allora nella tabella n. 1, quella appunto dei generi consentiti, e leggo che solo mele e pere vanno bene. Fra i generi non consentiti poi ci sono “dolci, torte, panettoni farciti e no”. Niente panettoni, anche quelli senza uvetta e canditi, ma sono concessi i pandori.
Nemmeno il pane, i pomodori, la cipolla e l’aglio possono entrare così come il sale, le olive e la sardine salate. Nessuna bibita alcolica o analcolica. No ai succhi di frutta, ai biscotti, al caffè, allo zucchero. Mentre posso intuire la ragione per cui “cibi conservati in vasetti di vetro e/o di metallo” sono vietati, e dunque anche “marmellata, mostarda e nutella”, mi è più difficile comprendere perché il divieto sia esteso anche agli “alimenti integrali in genere”.
Per completare l’elenco, sono vietate “creme, salse, minestre preparate”, “mais e cibi liofilizzati” (perché il mais?), “cibi in polvere o in buste sigillate”, “pasta cruda, riso cotto e non”, “tutti i tipi di formaggio molle comprese le sottilette”, “molluschi, frutti di mare, lumache di mare, gamberetti, polpa di granchio”, e poi uova e funghi siano essi cotti o crudi.
Mi è mancato il tempo per annotare i generi vittuari e di vestiario consentiti. Qualcosa però me lo ricordo: la carne cotta può entrare e così gli affettati. Dei vestiti ricordo solo che è consentito l’accappatoio però senza cintura, mentre le scarpe devono essere senza lacci e se invece ne sono dotate debbono però essere molto corti.
Ci chiamano, è ora di entrare. Lascio la sala d’attesa che mi è apparsa squallida, sciatta. I muri, che dovrebbero essere bianchi, sono a metà fra il grigio e il giallo sporco, qua e là qualche frase incisa forse con una chiave. Ho l’impressione che da qualche anno le pareti non siano ridipinte. E a dare un senso di trascuratezza all’ambiente ci si aggiunge anche una decina di scatoloni impilati in due angoli della stanza.
Siamo forse venti, venticinque a voler entrare per assistere alla presentazione del libro. Si apre il cancello blindato e facciamo ingresso in una stanza che fa fatica a contenerci tutti. Siamo costretti a sostare lì, tutti insieme, perché dobbiamo riporre le nostre cose (ad eccezione di libri, quaderni e penne) all’interno di alcuni armadietti. Nessuno ci perquisisce e non ci controllano nemmeno col metal detector, ma due agenti ci ripetono in continuazione di non portarci appresso i telefonini.
Mentre attendiamo di avviarci verso la sala predisposta all’incontro, sento una donna che, osservando il giardino interno all’istituto di pena attraverso una finestra, dice ad altre due “è emozionante entrare in questo carcere”. È una frase che mi mette a disagio.
Una agente ci fa strada. Si apre un altro cancello automatico oltrepassato il quale, dopo due o tre metri, giriamo a destra e saliamo una rampa di scale dalle pareti tutte scrostate. Si sente un fastidioso odore di zolfo. Giungiamo a un corridoio e, attraversatolo in larghezza, di fronte a noi si apre una sala conferenze. È lunga, piena di sedie rosse da regista. Fuori dalla porta restano quattro o cinque agenti.
Mi metto seduta ad una estremità della quinta o sesta fila che è completamente vuota. Dopo cinque minuti arrivano alcune detenute (altre erano già presenti in sala al momento del mio ingresso). Sono giovanissime, suoi vent’anni. Una si infila vicino a me lasciando però fra noi una sedia vuota. Le sue compagne non ci stanno tutte e le dicono di scalare di un posto. Lei tergiversa per qualche secondo e ho la sensazione che avvicinarsi a me la imbarazzi. Poi lo fa, io le sorrido, lei ricambia ma abbassa lo sguardo. Adesso sono io a sentirmi in imbarazzo. Per tutto il tempo della presentazione del libro non scambiamo parola e lei resta seduta di sbieco, rivolta verso le sue compagne e dandomi in parte la schiena.
Tutte le ragazze che si sono sedute nella mia fila – e qualche altra detenuta seduta nei posti che mi stanno davanti – indossano delle tute da ginnastica. Qualche altra invece, di quelle più vecchie (quaranta, cinquant’anni), sono tiratissime: gonne, camicette o maglie eleganti, così come le scarpe.
La gran parte delle donne recluse io le vedo da dietro e rimango colpita dalle loro acconciature. Molte sembrano appena uscite dal parrucchiere. I colori dei capelli sono brillanti, è evidente che la gran parte si fa la tinta. I tagli sono ben fatti e le pettinature anche. Penso che forse in galera non c’è molto da fare, il tempo da dedicare a se stesse lo si trova e la cura della propria persona è fondamentale, un modo di “tenere” e di “tenersi” insieme, di resistere quindi.
Le detenute parlano fra loro e io mi chiedo se è concesso a noi visitatori scambiare con loro parole. Ad un certo punto sento il pianto di un bimbo in sala, mi volto e vedo che qualche fila dietro di me è seduta una giovane zingara che tiene in braccio un bimbetto di un anno circa. Per tutta la durata della presentazione del libro resterà in sala rumoreggiando ogni tanto, e a me viene da ridere perché qualche volta le relatrici devono alzare il tono della voce per superare i vocalizzi di protesta del bebè.
Il dibattito inizia. Introduce la direttrice e, a seguire, si succedono gli interventi del professor Paolo Macrì, della professoressa Lucetta Scaraffia, e della dottoressa Simonetta Matone, sostituto procuratore presso il Tribunale dei minorenni. Si parla del libro, del suo contenuto ma se ne elogia molto anche la scrittura. Il libro è da leggere perché restituisce, ricostruendo anche alcune situazioni particolari, le dinamiche attraverso le quali si sono formate in Italia le prime carceri femminili. Le suore, unico personale femminile a cui lo stato italiano delega la custodia delle detenute, occupano lo spazio centrale del racconto. A parte il professor Macrì, le altre relatrici si soffermano molto sul ruolo svolto da questo personale religioso. Ci sono tre suore sedute quasi alla fine della sala e spesso, quando si parla delle loro antiche consorelle, le relatrici rivolgono a loro lo sguardo. Questo elogio, talvolta davvero sperticato, della loro funzione mi lascia perplessa. Personalmente ho raccolto testimonianze diverse nell’ambito delle mie ricerche. Suore dure, ligie ai regolamenti, figure di potere e suore “disubbidienti”, elastiche e solidali.
L’autrice decide di intervenire solo alla fine lasciando che le persone del pubblico formulino qualche domanda. Gli interventi sono pochissimi. Interviene per prima una giornalista della redazione di “Ristretti orizzonti”. Anche a lei la sottolineatura tutta in positivo della funzione delle suore suona male e si chiede se non si debba riflettere anche sugli effetti negativi di questa presenza. Si chiede: se a differenza che in altri paesi europei, non si è finora permesso in Italia ai detenuti e alle detenute di vivere la propria affettività e sessualità in carcere, prevedendo momenti e luoghi di incontro da cui siano assenti gli sguardi indiscreti dei controllori, non è forse perché la presenza del personale religioso è stata così importante?
Interviene poi una donna che non so se è ancora detenuta. È italiana e parla della sua esperienza carceraria in Germania. Contesta che oggi il carcere, e in generale il sistema penale, nei confronti delle donne sia meno punitivo, come invece pare essere stato nel corso dell’Ottocento quando l’idea che la donna fosse inferiore all’uomo paradossalmente aveva suggerito una sua minore imputabilità.
L’autrice del libro abbozza alcune risposte, ammettendo onestamente di sapere abbastanza sulle carceri dell’Ottocento ma ben poco sulla situazione del presente o del recente passato.
Il dibattito finisce con applausi. Le detenute non hanno parlato. Hanno ascoltato, battuto le mani, hanno riso a qualche battuta dei relatori e qualche volta hanno borbottato.
Mi alzo dalla sedia e ripercorro la strada verso l’uscita.
Sono un po’ stranita. Per un’ora e mezza forse più si è di carceri ottocentesche, di suore, di congregazioni, di concezioni della pena consacrate da Lombroso e penso che forse alle detenute presenti sarebbe interessato parlare del loro carcere, della pena che devono scontare oggi e non è un caso che mormorii e battute di mano scattassero quando la discussione coglieva aspetti legati al presente. Ho avvertito una sorta di scollamento dentro/fuori, fra chi in carcere è costretto a vivere e chi invece sceglie di entrarci per qualche ragione. Linguaggi diversi, abbigliamenti diversi, sguardi diversi. Ma era la mia prima volta e forse molte cose non le ho capite.
Restituisco la chiave dell’armadietto dopo aver ritirato la mia borsa, mi viene riconsegnata la carta d’identità e aperto il blindato. Oltrepasso il portone. Sono libera.
Venezia – Carcere femminile della Giudecca, Venerdì, 29 ottobre 2004
Richard dice
Ciao ai fatto na "aventura", nn e' bello dirlo ma cmq le carcere sn brutte. sei stata brava e fare questa cosa ai fatto una nuova esperienza complimenti ai visto cn tuoi occhi cm e' dentro sei dovessi. Andare dentro mi amassi x davvero xrche nn ci riescono a stare dentro rinchiuso tra le quattro mure!!!