di Maria Luciana Granzotto
Quando i giorni scorsi pensavo alla manifestazione del 17 febbraio mi veniva in mente in modo un po’ ossessivo l’adagio che aveva caratterizzato uno spettacolo di Paolini di qualche anno fa: Ni savea parchè ma tutti ‘ndava a Vicensa. C’è il sole e un sacco di gente in stazione a Mestre che cammina in fretta. Lunga fila in biglietteria, ma sono quelli che vanno a Venezia per il Carnevale. L’effetto è estraniante, niente striscioni, né bandiere, niente gruppi festanti in partenza, solo mascherine e viaggiatori con valige e trolley. Forse il grosso dei manifestanti se n’è andato col treno speciale delle 11, almeno lo spero. Mi guardo intorno, vedo due, tre persone che conosco, magari vanno a Vicenza.
Il treno mezzo vuoto si riempie a Padova, a Grisignano tutto il corridoio è occupato, a Lerino non entra più nessuno. Nel vagone open-space si parla ad alta voce al cellulare: il corteo è già partito perché è così tanta la gente che continua ad arrivare che è meglio mandare avanti.
Arrivo con banda musicale, verrebbe voglia di ballare ma siamo stipati come sardine. Sul piazzale della stazione un muro di persone, mi sento inghiottita, fagocitata, cerco gli altri, ho paura di perderli e di perdermi, intorno c’è un clima di festa. Si suona Bella ciao nuova versione, a metà tra la banda popolare e la musica balcanica. La prima scommessa, la partecipazione, capisco che è vinta.
Cerco al telefono un amico di Vicenza ma in mezzo al frastuono mi dice che lui è già nel corteo ma è fermo, bloccato, e non può raggiungerci.
Cominciamo a camminare veloci, ci inoltriamo nella manifestazione, dove andiamo con questa fretta non lo so, forse vogliamo vedere tutto, forse cerchiamo un buon posto dove tirare fuori i nostri striscioni autogestiti. Saluto in lontananza due amici, mi sarei fermata volentieri a fare due chiacchiere con loro ma rischio di perdermi e mi sembra troppo presto per farlo, siamo solo all’inizio del pomeriggio.
Incrociamo uno che si è messo a vendere bottigliette di acqua minerale sotto a un ombrellone, chissà quanto le farà pagare. Più avanti, sotto a degli alberi, un autentico “vespasiano” in cemento. Incredibile che sia sfuggito alla crociata per la pubblica decenza.
Vedo gente dappertutto, non ci sono spettatori fermi che guardano, o i vicentini hanno avuto paura dell’annuncio dei disordini e stanno chiusi in casa o sono tutti qui, con noi. La paura: è una settimana che viene distillata sui giornali e in ogni servizio televisivo su Vicenza. La parte del leone l’ha fatta l’informazione regionale, dove ogni giorno c’è il giro di interviste “mordi e fuggi” ai vicentini per strada: c’è la signora preoccupata, il negoziante che dice che sabato chiuderà, ne piazzano sempre uno che dice laconicamente “Che schifo!” e “Vergogna!”.
Sulle nostra testa gli elicotteri della polizia continuano a girare sopra al corteo. Mi ricorda l’attacco di Speak to me dei Pink Floyd, nell’ellepi The dark side on the moon.
Passiamo e sorpassiamo pezzi di corteo, qualche amico lo abbiamo già perso. Guardo con meraviglia i tanti, tantissimi giovani tra le bandiere, gli striscioni.
Se dovessi dire quali sono le bandiere più numerose, fare cioè una specie di classifica, metterei in testa Rifondazione e, di seguito, gli anarchici (mai viste tante bandiere rosse e nere, mai visto tante tutte insieme), i Cobas, i Comunisti italiani. La CGIL non l’ho vista, deve essere da un’altra parte del corteo.
Su quali sono gli striscioni più belli, non avrei dubbi, quelli dei Centri sociali, sono caricaturali, grotteschi, colorati e originali. Siamo dietro a loro, ci sparano musica a tutto volume e scarico libero di un diesel puzzolente.
Camminiamo oltre, qui il corteo è un po’ sfrangiato, ci si muove bene. Dietro, un po’ flebile, sento suonare Blowning in the wind, mi fa pensare al parallelo America Iraq nuovo Viet-nam.
Abbiamo sfilato sempre fuori del centro di Vicenza, siamo in una specie di corridoio, da una parte le vecchie mura, dall’altro lato condomini popolari anni Settanta, tristi e grigi, tipologia realismo socialista dei paesi dell’est europeo. I poggioli sono vuoti di persone e di bandiere, nessun cartello. Mi sarebbe piaciuto passare tra festoni arcobaleno. Scopro una città se non ostile, chiusa. Non so bene perché ma ho un corto circuito geografico, mi sembra di essere in un altro posto, a Treviso per esempio.
Polizia non se ne vede, ci sono i vigili urbani, discretamente stanno ai margini del corteo, presidiano, insieme ai volontari della protezione civile con casacca arancione le strade che portano dentro città. Ormai le manifestazioni sfilano sempre fuori dai centri cittadini, sono espulse come un corpo estraneo. Le fanno camminare per le tangenziali, per le bretelle esterne, quelle da traffico pesante e di passaggio. Si blocca la circolazione sì, ma dai fastidio, gli automobilisti ti mandano in malora, tu e la tua protesta. Anche a Mestre succede così, mesi fa gli operai preoccupati per la dismissione della chimica a Marghera hanno protestato e li hanno fatti camminare sulla camionabile che porta in Romea.
Vedo il primo bar aperto, un sacco di gente dentro e fuori. Anch’io berrei volentieri un caffè.
Due ragazzine tengono in mano uno scatolone, quelli da cinque risme di carta da fotocopie, con una fessura a salvadanio. Li scuotono e fanno tintinnare le monete che ci sono dentro, sono i soldi per il presidio permanente del “No Dal Molin”. C’è anche l’indicazione del conto corrente postale. Per resistere serve denaro. Mi ricorda il racconto di una donna comunista che, negli anni Cinquanta, con un carretto girava per i paesi della Riviera del Brenta a raccogliere roba da mangiare da dare agli operai che occupavano una fabbrica a Porto Marghera, e alle loro famiglie senza stipendio.
Appoggiati a delle recinzioni ci sono cartelli in inglese con la bandiera a stelle e a strisce. Sono i pacifisti americani che portano la loro solidarietà, ci guardano sorridendo con l’aria un po’ stranita.
Un gruppetto circola con lo scolapasta in testa, qualcuno è di plastica colorata, qualcun altro in acciaio. Una donna ci ha inserito un piccolo fiore rosso di stoffa.
Curviamo davanti all’ospedale, si serrano i ranghi, la strada si restringe. Provano a leggere il nostro striscione colorato, “basi no fa busi, ma ‘sta base ghe ne fa”, lo vorrebbero anche fotografare, non lo capiscono e procedono oltre. Viene proposto un testo semplice e incisivo per uno striscione: “Bush va in mona!”. Verrà buono un’altra volta.
In alto sul bastione, da una finestra si sporge una ragazza bella e sorridente con un gran fiore rosso all’orecchio, batte la pentola con un mestolo. Scattano in successione le macchine fotografiche. Dall’alto vediamo un lungo fiume colorato di persone, stiamo raggiungendo Campo Marzo, capolinea del corteo, qui c’è il palco e Dario Fo. C’è anche una postazione di pronto intervento medico, tante tende a igloo grigie, sembra un campo militare. Ma cosa pensavano succedesse?
Noi viriamo verso la stazione e torniamo a Mestre.