di Giacomo Corazzol, illustrazioni di Rosario Morra
I nostri amici Giacomo Corazzol e Rosario Morra ci fanno un regalo. A marzo è stato stampato, a cura di Gianni Biolcati, un opuscolo con le pagine che Carlo Collodi dedicò a Venezia nel suo Viaggio per l’Italia di Giannettino (I, 1880). Per loro gentile concessione, pubblichiamo qui di seguito la prefazione di Giacomo Corazzol, illustrata da alcune tavole di Rosario Morra.
I think there is a fatality in it—I seldom go to the place I set out for.
Laurence Sterne, A Sentimental Journey
1. In varie forme e con diversi intenti, l’espediente narrativo del viaggio attraversa l’intera produzione letteraria di Carlo Lorenzini (1826-1890) – a partire dal 1856 più noto al pubblico come Carlo Collodi. L’ammirazione del Lorenzini nonché di tanti altri letterati italiani dell’Ottocento per Sterne e, in particolar modo, per il suo A sentimental journey, è risaputa.
La prima opera collodiana di ampio respiro, Un romanzo in vapore, era stato un viaggio da Firenze a Livorno, tutto disseminato di notizie storiche, incidenti, impressioni e divagazioni, scritto nel 1856 su commissione dell’editore Riva, il quale, stampando l’Orario della strada ferrata, voleva – come avrebbe ricordato Yorick (pseudonimo di Pietro Coccoluto Ferrigni) nel suo necrologio del Lorenzini – “un libretto da vendersi nelle stazioni, per leggere in treno, che potesse divertire servendo nel tempo stesso da Guida in viaggio, e illustrando le città dove la locomotiva faceva sosta o le campagne e i villaggi che si potevano vedere dal finestrino del vagone”1.
2. Erano quelli ancora gli anni in cui Lorenzini, dopo essersi impiegato presso la libreria Piatti e dopo aver partecipato da volontario alla Prima Guerra d’Indipendenza, iniziava a muoversi nel mondo letterario fiorentino, facendosi conoscere via via come notista politico di convinzioni democratiche e anticlericali, critico teatrale, musicale e di costume, umorista, romanziere e commediografo2 – insomma non ancora l’autore di testi per ragazzi a cui la sua figura è comunemente associata. La svolta avvenne solo nel 1875, quando l’editore fiorentino Felice Paggi gli commissionò una traduzione delle nove fiabe dell’Histoire ou contes du temps passé (1697) di Charles Perrault e di una scelta delle fiabe della baronessa Marie-Catherine d’Aulnoy e di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont. Le versioni, non prive di “leggerissime varianti” dichiarate e di veri e propri, ma taciti, rimaneggiamenti d’autore (arguzie, attualizzazioni, riformulazione delle morali, condite ora di ironico buon senso ora di osservazioni sarcastiche), apparvero nel 1876 con il titolo I racconti delle fate3.
Fu così che Collodi approdò alla letteratura per ragazzi e a un’impresa che si poneva nel solco tracciato dalla relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868), in cui il Manzoni aveva esortato alla stesura di “abbecedari, catechismi e primi libri di lettura […] scritti o almeno riveduti da Toscani”4 in quel fiorentino vivo, vicino ai modi dell’oralità ed estraneo a toni eccessivamente letterari e al purismo esasperato dei cultori dell’antico, che era stato l’esito stilistico dei Promessi sposi nella loro definitiva redazione (la cosiddetta Quarantana), e di cui Collodi era riconosciuto maestro.
Nel 1877 appare dunque il Giannettino, testo accolto da immediato successo, in cui compaiono tutti i personaggi che si incontreranno poi nei libri successivi della serie: Giannettino, “un bel giovinetto, sano e svelto della persona, con un paio di occhi celesti e anche un tantino birichini, e con un gran ciuffo di capelli rossi, che a guisa di ricciolo gli ricascava giù a mezzo la fronte”; il dottor Boccadoro, “un bel vecchietto asciutto e nervoso, lindo negli abiti e nella persona, il quale era conosciutissimo per la sua bella virtù di parlar chiaro e di dire a tutti la verità, anche a costo di passare qualche volta per un po’ troppo lesto di lingua”; Minuzzolo, “alto, come suol dirsi, quanto un soldo di cacio” e “biondo come una spiga di grano maturo, con un viso bianco e rosso come una melarosa, colla bocca sempre mezz’aperta a secchiolino e sempre ridente, e con due labbra fresche e vermiglie, che sembravano due fragole colte allora allora e messe l’una sull’altra”5; e i fratelli di Minuzzolo: Ernesto, Gigetto e Adolfo. Esce poi il Minuzzolo (1878), in cui, in seguito alla partenza di Giannettino per un lungo viaggio, Minuzzolo guadagna il centro della scena. Nel 1880 è la volta del primo volume, dedicato all’“Italia superiore”, de Il viaggio per l’Italia di Giannettino (gli altri due volumi compariranno rispettivamente nel 1883 e nel 1886), che si apre con il ritorno di Giannettino tredicenne dal suo viaggio. Echi sterniani sono udibili anche in quest’opera: nel ritratto dei “brontoloni perpetui, che ogni volta che si allontanano un cento di chilometri dalla loro casa, trovano tutto mal fatto, tutto scomodo, tutto nojoso”6 è ravvisabile una versione aggiornata di quel Tobias Smollett, autore dei Travels through France and Italy (1766), sbeffeggiato da Yorick/Sterne sotto le spoglie di Smelfungus, viaggiatore ipocondriaco “who can travel from Dan to Beersheba” – cioè da un estremo all’altro della Palestina – “and cry: ’Tis all barren!”7. Ma nel Viaggio di Giannettino dove si è stabilito di andare si va, gli unici interludi nel rigido itinerario essendo scenette urbane, brevi apologhi e raccontini di carattere educativo, abbozzi di commedia e momenti di commozione (il pianto di Giannettino a Montanara).
La narrazione si articola su due piani: 1. la cronaca, condotta da un narratore esterno, degli incontri di Giannettino coi suoi amici e delle loro conversazioni; 2. la relazione di Giannettino agli amici del viaggio da lui compiuto in compagnia del dottor Boccadoro, dei dialoghi intercorsi tra loro e di quelli a cui hanno partecipato o assistito. Come e ancor più del Giannettino, il Viaggio è steso in massima parte in forma dialogo e in ciò si discosta nettamente dal Giannetto (1837) di Luigi Parravicini, che pure del Giannettino era stato il modello: attraverso questa ‘presa dal vivo’ Collodi riesce non solo ad animare la altrimenti piatta distesa di monumenti e notizie, ma anche a giustificare il tono piano e bonario della narrazione.
Quanto alle fonti utilizzate per la stesura del Viaggio, lo stesso Collodi, in una lettera a Ferdinando Martini, confessava di essersi tanto attenuto al Baedeker da temere delle critiche. Perché? Se prendiamo il caso di Venezia (ma una città vale l’altra: persino Firenze, patria di Collodi, che lì trascorse la maggior parte della vita) l’influenza del Baedeker è evidente già nella disposizione della materia: pur con gli inevitabili aggiustamenti, l’ordine seguito negli itinerari e la successione delle visite segue la falsariga della guida rossa: 1. da Piazza San Marco all’Arsenale; 2. il Canal Grande; 3. chiese e altre cose notevoli; 4. le isole. Giannettino e il dottore diventano così incarnazione del turista immaginato dalla guida. La stessa scelta di far iniziare la visita con un’escursione a piedi ricalca la nota apposta dal Baedeker al primo itinerario: “La description suivante est faite de façon qu’on peut visiter une grande partie des curiosités à pied”. Si sa però che a Venezia le calli “forment un labyrinthe au milieu duquel l’étranger ne se retrouve qu’avec peine” o, in altre parole, “formano un tal laberinto, che, a non averci pratica, è difficile raccapezzarsi”. Ma niente paura, “dès qu’on ne sera pas sûr de son chemin, on interrogera le premier enfant venu (5 à 10 c.)”8. Così, a Minuzzolo stupito che i due abbiano potuto orientarsi nel dedalo Giannettino spiega: “Prima di tutto il Dottore era pratico della città;” – ché altrimenti non sarebbe Dottore – “e se qualche volta perdeva la tramontana, si voltava a qualcuno domandandogli: «Scusi, di dove si prende per andar qui, o per andar là?» e tutti gli rispondevano subito, perché i Veneziani sono garbatissimi, segnatamente coi forestieri”9. Non serve neanche la mancia.
Se, come prevedibile, Collodi attinge a piene mani dalle notizie storico-artistiche contenute nel Baedeker, può tuttavia stupire che lo stesso discorso valga anche per passi dal tono maggiormente lirico:
“Da Padova in là, era tanto lo struggimento mio di veder Venezia, che non mi staccai un minuto solo dalla finestra del vagone: finché, passate le stazioni di Mirano e di Mestre, cominciai a veder baluginare, lontana lontana, una lunga striscia nebbiosa e fantastica di torri, di cupole e di punte di campanili, che pareva galleggiassero sull’acqua del mare.
– Quella là è Venezia! – mi disse il Dottore.
Intanto il treno passò presso il Forte di Marghera, e dopo poco entrò su quel gran ponte, che riunisce la città di Venezia alla terraferma.
– È grande dimolto questo ponte?
– È il più gran ponte del mondo. Figuratevi che è lungo 3600 metri, ed ha nientemeno che 222 archi. Il treno ci mette otto minuti per traversarlo tutto”.
Prendiamo l’ottava edizione del Baedeker:
“Peu à peu s’élève de la mer une ligne bleue de tours et d’églises; c’est Venise. Ses îles couvertes de maisons semblent nager à la surface des flots. Le train passe ensuite près Fort de Malghera […] et atteint le pont gigantesque, un des plus grands ponts du monde, qui relie Venise à la terre ferme. Il a 3,601 m. de long […] et repose sur 222 arches de 10 m. d’ouverture. Le train met 8 min. à le franchir et entre en gare après avoir traversé les lagunes”10.
Un raffronto dei due passi consente di cogliere i tratti fondamentali dell’elaborazione a cui Collodi sottopone la sua fonte: 1. drammatizzazione (l’ansia di Giannettino di giungere a Venezia); 2. sceneggiatura del testo (la descrizione del primo apparire di Venezia è affidata alla voce di Giannettino; “c’est Venise” diventa invece una battuta del dottore); 3. scansione del testo in una serie di domande e risposte. Inoltre, poiché i destinatari dell’opera non sono turisti che si muovono fra palazzi e monumenti ma ragazzi che, quelle meraviglie, saranno costretti a vederle o con l’occhio della fantasia o attraverso le illustrazioni intercalate nel testo, un ulteriore sforzo messo in atto da Collodi è quello di conferire evidenza visiva alle descrizioni: a questo proposito si pensi all’immagine del “nuvolo di piccioni” inserita nel racconto a proposito dell’origine dell’usanza per cui la municipalità provvedeva a sfamare i piccioni di San Marco – aneddoto che, narrato dal Baedeker, Collodi abilmente sceneggia, appropriandosi perfino delle note scherzose11. Ma come è che “un des plus grands [ponts] du monde” diventa “il più gran ponte del mondo”? È che, attribuendo indebitamente a Collodi la smania di rifarsi alla versione più aggiornata, supponevo avesse sott’occhio l’edizione del 1878, quando invece si faceva bastare il Baedeker che era riuscito a procurarsi. Ancora nella terza edizione (1865) si leggeva: “le plus grand du monde”12.
Se pure il Baedeker costituisce per Collodi una fonte costante di notizie e di ispirazione, nel Viaggio non mancano tuttavia pagine e chiose del tutto originali. E qui basti citare la scena ai giardini pubblici, dove Giannettino incontra un cavallo “inaspettato”13. Inoltre, in tutte le descrizioni delle grandi città è presente un capitolo dedicato al dialetto locale. Rappresentando in maniera vivace e pittoresca i vari dialetti parlati nella penisola e le loro astrusità, Collodi intendeva probabilmente rendere omaggio al patrimonio storico e linguistico peculiare di ciascuna regione d’Italia per meglio sottolineare la necessità di una lingua comune e condivisa che consentisse di comunicare dalle Alpi alla Sicilia.
In sintesi, in maniera simile al trattamento riservato ai testi tradotti o elaborati ne I racconti delle fate, nel Giannetto e nel Minuzzolo, Collodi propone nel Viaggio una versione dialogizzata e variamente arricchita del Baedeker, di cui non si appropria in maniera pedestre, ma che, con mano sicura e sapienza editoriale, rimaneggia e adatta all’impianto e alle finalità del testo: dare alle giovani generazioni un’immagine complessiva dell’Italia unita nella lingua della allora neonata nazione.
3. Al periodo della stesura del Viaggio risalgono anche Le avventure di Pinocchio, scritte e pubblicate tra il 1881 e il 1883, storia (tra l’altro) di un viaggio – viaggio sempre ripreso daccapo, sempre interrotto e sviato dalla mèta, di un burattino restio a seguire i consigli altrui e apparentemente destinato a non raggiungere mai il luogo in cui si è proposto di andare – verso la capacità di crescere e ‘individuarsi’. Il paradigma sterniano e l’intento pedagogico si combinano qui in un messaggio etico e politico: già Alfonso Berardinelli aveva visto in Pinocchio condotto al Paese dei balocchi dall’Omino di burro “il Popolo Italiano” e nelle Avventure “[il] padre e [la] madre di tutte le favole che si sono viste nel nostro così amato Paese”14. Non che Pinocchio sia il popolo italiano o che l’intero libro vada letto come una parabola e un apologo sul destino della nazione, ma la vitalità e l’ambiguità di Pinocchio sono tali in quanto nella figura di quest’ultimo Collodi doveva condensare ed elaborare pulsioni, umori e pensieri vari e contraddittori – e dunque anche le delusioni e le constatazioni che, in un articolo dal titolo L’onorevole Cenè Tanti, apparso sul «Fanfulla» del 22 dicembre 1882, aveva espresso così:
“Perché è bene ricordarselo: l’Italia è la Terra promessa della fiaccona. Qui non germogliano le salde energie, le volontà tenaci e le coscienze duramente temperate all’adempimento del proprio dovere.
In questa terra benedetta da Dio fioriscono più che altro le piccole vanità, le buone intenzioni e le arance di Palermo: e se queste tre cose bastassero da sé sole a fare la grandezza di un paese, l’Italia, lo dico con nobile orgoglio, sarebbe da molti anni il primo paese del mondo”15.
Lo stesso finale delle Avventure è lontano dall’essere sereno o conciliatorio. Pinocchio è diventato un bambino in carne e ossa. Sarà un bene? Sì, ma è solo l’inizio. Sta a lui, ora, crescere e diventare uomo – non tradire più la fiducia di chi l’ha fatto o si è sforzato di educarlo; non seguire ciecamente ogni impulso, ogni distrazione e cattiva compagnia, abbandonandosi ora all’illusione di una ricchezza immediata (gli zecchini piantati nel Campo dei miracoli) ora a quella di una vita tutta piaceri e zero preoccupazioni (il Paese dei balocchi). Il ravvedimento avviene solo dopo la catastrofe in mare (il capitolo del Pesce-cane), avvertimento divino al Pinocchio-Giona che ha cercato di sfuggire alla propria missione. La metamorfosi in bambino non è di per sé uscita dallo stato di minorità, ne è solo una condizione: Pinocchio è finalmente soggetto al tempo, nel bene e nel male, libero di far suo oppure no l’insegnamento impartitogli dal Grillo-parlante – e cioè che bisogna “mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo esser ricambiati nei giorni del bisogno” (in quel futuro che per il burattino Pinocchio era inconcepibile); o magari, senza spingersi a tanto, osservare quello che nel mondo anglosassone è chiamato the golden rule, “il divino precetto che dice: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”16.
Tratto da: Carlo Collodi, Venezia, prefazione di Giacomo Corazzol, illustrazioni di Rosario Morra, Milano 2011 (edizione di 300 esemplari, a cura di Gianni Biolcati).
- Il necrologio di Yorick del Lorenzini apparve su «La Domenica fiorentina» del 2 novembre 1890. Il testo è parzialmente riportato in C. Collodi, Un romanzo in vapore, Campagnola Emilia, Aliberti Editore, 2002, p. VII. [↩]
- Gran parte delle notizie biografiche riportate in queste pagine sono tratte dalla dettagliata Cronologia inclusa in C. Collodi, Opere, a cura di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori, 1995, pp. LXVII-CXXIV. [↩]
- A questo proposito si veda la Prefazione di Giuseppe Pontiggia a C. Collodi, I racconti delle fate, Milano, Adelphi, 1976. [↩]
- A. Manzoni, Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla: relazione al Ministro della Pubblica Istruzione, in Idem, Tutte le opere, Vol. V: Scritti linguistici e letterari. Tomo secondo, Milano, Mondadori, 1990, pp. 605-625: p. 624. [↩]
- Alla prima edizione del Giannettino, stampata a Firenze da Paggi nel 1877, seguirono numerosissime ristampe. Faccio riferimento a C. Collodi, Giannettino, Milano, Lucchi, 1953, pp. 5, 6 e 12. [↩]
- C. Collodi, Il viaggio per l’Italia di Giannettino. Parte prima: l’Italia superiore, Firenze, Felice Paggi libraio editore, 1880 [rist. anast. Bergamo, Leading Edizioni, 2006], p. 11. [↩]
- L. Sterne, A Sentimental Journey and Other Writings, Oxford, Oxford University Press, 2003, p. 24. Trad.: “Capace di andare da Dan a Beer Sheva e gridare: È un’unica grande desolazione!”. [↩]
- Per le tre citazioni vedi K. Baedeker, Italie. Manuel du Voyageur. Ière partie: Italie Septentrionale, Leipzig, Karl Baedeker, 1878 (ottava ed.), p. 198. [↩]
- Per le tre citazioni vedi C. Collodi, Il viaggio per l’Italia di Giannettino. Parte prima, cit., pp. 251-52. [↩]
- K. Baedeker, Italie. Manuel du Voyageur. Ière partie: Italie Septentrionale, cit., p. 183. [↩]
- Ivi, p. 199: “Une multitude de pigeons reçoivent ici leur nourriture à 2 h. de l’après-midi, aux frais de la ville. La tradition rapporte à ce sujet que l’amiral Dandolo, assiégeant Candie, au commencement du XIIIe s., reçut des dépêches importantes par des pigeons, et que ces nouvelles contribuèrent pour beaucoup à la conquête de l’île. Dandolo envoya ces oiseaux à Venise, en même temps que la nouvelle de la prise de Candie, et leurs descendants sont encore aujourd’hui nourris et vénérés par le peuple”; C. Collodi, Il viaggio per l’Italia di Giannettino. Parte prima, cit., p. 258. [↩]
- K. Baedeker, Italie. Manuel du Voyageur. Ière partie: Italie Septentrionale, Coblenz, Karl Baedeker 1865 (terza ed.), p. 246. [↩]
- C. Collodi, Il viaggio per l’Italia di Giannettino. Parte prima, cit., p. 255. [↩]
- A. Berardinelli, Nel paese dei balocchi: la politica vista da chi non la fa, Roma, Donzelli, 2001, p. 116. [↩]
- C. Collodi, Opere, cit., p. 358. [↩]
- C. Collodi, La protesta d’un abatino di Duomo, «Fanfulla», 7 luglio 1871; Idem, Opere, cit., p. 779. [↩]