di Luca Pes
In occasione della presentazione del Quaderno 12 del 7 aprile 2014, riprendiamo alcune pagine del saggio di Luca Pes che chiude il libro: Venezia salvata da due ungaro-austriaci? Il Quarantotto tra ammutinamento e resa. Nel suo saggio, Pes riflette sulle scelte compiute dai protagonisti austriaci degli eventi del marzo 1848, in particolare quelle del governatore militare Zichy, che accettò di ritirare le truppe e per questo in seguito sarebbe stato accusato e condannato per tradimento. Le testimonianze di parte austriaca lasciate da Anton von Steinbüchel, Georges de Pimodan e dal tenente Gustav citate da Pes sono pubblicate (in traduzione italiana) nel Quaderno stesso. Già nel marzo 2012 avevamo presentato sul nostro sito alcune pagine del Quaderno, che si possono vedere cliccando qui.
In questo saggio, tentiamo di costruire un racconto della rivoluzione veneziana da un punto di vista austriaco. È una storia di marinai, arsenalotti, soldati, principesse, governatori e comandanti. A questi ultimi, in genere, viene attribuito un ruolo importante, ma più per la facilità con cui hanno ceduto, spiegata in termini di debolezza, fungendo spesso solo da contraltare all’abilità di iniziativa dei rivoluzionari italiani. Qui, invece, abbiamo cercato di restituire a questi personaggi capacità di visione e di scelta, all’interno delle contraddizioni dell’impero di allora, travolto da eventi straordinari. I due governatori, Alois Palffy e Ferdinand Zichy, austriaci di nazionalità ungherese, diventano protagonisti nel salvare Venezia dai bombardamenti e dalla repressione militare che la logica alla Joseph Radetzky avrebbe voluto imporre. […]
Punti di vista
L’immagine di Venezia che gira in Europa per tutta la prima metà dell’Ottocento parla di gente sudicia e spensierata; di canali puzzolenti e palazzi di una bellezza grandiosa; di una città addormentata da una «una maligna pozione magica», soggetto di lezioni di morale e di decadenza, teatro di poesia e romanzi storici, luogo di sogno e di piacere. Ma non prevede scenari dove si costruisce il futuro e si fa la storia del presente.
Questo è il contesto nel quale entra in scena il marchese Georges de Pimodan, sottotenente della cavalleria austriaca, la mattina del 23 marzo 1848: la prima cosa che fa, arrivando con il piroscafo nel porto, è «ammirare il magnifico colpo d’occhio». Quando viene interrotto bruscamente dalle grida «fora la bandiera», pensa sia una regolare formalità. Poi vede una grandissima folla e sente le urla: «viva San Marco! viva la repubblica! viva l’Italia». Così si accorge di essere entrato in piena rivoluzione.
La notizia dei fatti veneziani viene accolta con stupore e diffidenza, anche da parte rivoluzionaria. Molti pensano a una ridicola risurrezione del vecchio regime aristocratico e il fatto che si inneggi a San Marco e alla Repubblica sembra avvalorarlo. È questo che Cristina di Belgioioso tenta di smentire, quando scrive sui fatti di Venezia, cercando di convincere i lettori della Revue des Deux Mondes che si tratta di una moderna rivoluzione, italiana e costituzionale.
Quello che ci si trova davanti nei giorni di marzo – spiega George Trevelyan – è «una nuova Venezia, sconosciuta a Goldoni, Buonaparte o Byron». Se il primo segnale di questa trasformazione è stata la ferrovia, ora è il Quarantotto. Venezia diventerà il centro rivoluzionario europeo che resisterà più a lungo, con un governo relativamente stabile dal marzo 1848 all’agosto 1849, nelle mani di rivoluzionari democratici tutto sommato moderati, tanto che qualcuno ha voluto parlare di Model Republic.
Gli elementi che più sorprendono sono la rapidità degli eventi, non anticipati da sommosse o manifestazioni di dissenso politico diffuso, e soprattutto il poco spargimento di sangue. Il confronto con Milano è significativo: a Venezia, città ritenuta tranquilla, ci sono 10 morti e gli austriaci vengono “cacciati” senza quasi sparare un colpo; nella città lombarda, dove c’erano già stati veri e propri scontri, l’esercito interviene subito e si combatte per cinque giorni tra le barricate. Esito: oltre 600 morti, tra civili e militari, secondo le stime più affidabili, ma qualcuno parla di oltre 1.500, senza contare i caduti di parte austriaca.
I resoconti italiani sottolineano i meriti e l’incontenibilità della rivoluzione. I veri eroi però non sono tanto popolani morti in piazza (dei quali non sapremo per lungo tempo il numero preciso né i nomi), ma i tre avvocati, Daniele Manin, Angelo Mengaldo e Gian Francesco Avesani, che nei giorni di marzo hanno saputo determinare e controllare gli eventi con intelligenza, contribuendo in modi diversi ai momenti chiave: l’istituzione della Guardia civica, la presa dell’Arsenale, la capitolazione degli austriaci e la dichiarazione della repubblica. «Così – riassume per esempio Carlo Alberto Radaelli – con poco sangue versato, pel mirabile accorgimento di chi diresse il movimento popolare, si compieva una memorabile rivoluzione che rivendicava l’onore della città delle lagune, compromesso dai degeneri patrizi nel 1797».
Da parte austriaca e filo-austriaca, ci si misura invece con le concessioni fatte dai governatori imperiali, davanti a «facce da far paura, come da tempo non se ne vedevano», «ceffi con i loro ghigni selvaggi e feroci, e deformati in modo ributtante da una rabbia innaturale»; «alla peggiore plebaglia a piedi nudi […] vestita di luridi cenci» e di fronte a Manin, «un ometto sulla cinquantina […] con lo sguardo spento» [così l’austriaco Anton von Steinbüchel e il già citato Georges de Pimodan, francese al servizio dell’impero]. Un’arrendevolezza che porta all’umiliazione del governatore militare, il conte Ferdinand Zichy, il quale si lascia tenere in ostaggio da «uomini sconosciuti» e avvocati impertinenti e arroganti che vestono coccarde tricolori. Dopo questo «cambiamento mostruoso, incomprensibile e repentino», scrive il tenente austriaco Gustav, non ci si può che sentire vecchi, cioè parte di un mondo che non c’è più.
In queste testimonianze (scritte da militari, nobili e borghesi fedeli all’impero) ci si interroga sulle ragioni di un collasso istituzionale che consente una sovversione dei ranghi e un disordine plebeo. I riflettori sono sull’ammutinamento dei soldati e della marina e sull’inadeguatezza dei funzionari militari e civili, nel quadro di un fatto percepito come davvero epocale per l’impero. Ancora Gustav scrive: «la storia di nessuna epoca ha da vantare una rivoluzione così incruenta con risultati così enormi»; «per quanto i veneziani si vantino di questa impresa eroica senza spargimento di sangue, dovrebbero nondimeno capire che senza il disonorevole tradimento della Marina e delle truppe italiane non sarebbe mai venuta loro l’idea di impossessarsi di Venezia». E Anton Steinbüchel: «gli austriaci non erano ancora abituati a una così dissennata condotta militare, come l’abbandono delle armi davanti ad autorità civili». […]
La “debolezza” come categoria interpretativa
La storiografia ha attribuito un’importanza decisiva alla diserzione e all’arrendevolezza nel determinare la caduta degli austriaci. Per esempio Vincenzo Marchesi considera la «debolezza della marina» come la causa principale; Paul Ginsborg vede come «momento cruciale» il rifiuto dei fanti di marina e dei soldati del battaglione Wimpffen di sparare, perché la Guardia civica e gli arsenalotti da soli non sarebbero riusciti a tenere l’Arsenale il 22 marzo; Roberto Cessi individua la concessione di Palffy per il rilascio di Manin e Tommaseo il 17 marzo come «il primo atto di capitolazione, che sottolineava non solo l’inettitudine degli uomini incaricati dell’esercizio del potere, ma la loro impotenza e la rassegnazione a subire il comando di una nuova podestà: la sovranità popolare». Comunque, se la diserzione è un atto coraggioso per gli italiani e vile per gli austriaci, si tratta pur sempre di una scelta forte. L’arrendevolezza, la cedevolezza, attribuita a impotenza, paura, debolezza, indecisione, non essere all’altezza, è invece un piegarsi alla volontà altrui. Attribuendo queste qualità alle autorità austriache si nega che, in quella situazione, abbiano espresso una capacita di scelta e che le loro azioni fossero frutto di una strategia consapevole. […]
La tragicità della figura di Zichy e il dono della libertà
[…] Possiamo immaginare anche Zichy sottoposto a una tremenda pressione, tra la sua cultura militare austriaca e la sua umanità più cosmopolita, intrappolato tra due opzioni, entrambe fatali per lui: o rifiutare le richieste, salvando l’onore, ma provocando l’intervento armato delle truppe fedeli, morti tra i militari e i civili, con la sconfitta umiliante che lui riteneva certa, le accuse che sarebbero seguite di essere responsabile di una strage inutile e del bombardamento di Venezia, mettendo fra l’altro a rischio la vita sua e delle persone care; oppure accettarle, salvando la città, vite umane e le persone care, ma rischiando di perdere l’onore militare e avviandosi a sottostare a un sicuro processo a Vienna e forse alla condanna a morte.
La scelta la prende da solo, in tempo breve, senza consultarsi con nessuno, assumendo su di sé tutto il peso. È una decisione difficilissima e combattuta, anche se, alla fine, fatalmente, prevale la scelta più “umana”. Questo spiega sia il meccanismo della trattativa con Avesani, nella quale a un iniziale secco rifiuto segue sempre un assenso totale; che i cambiamenti di umore tra il 22 e il 23 marzo, come emerge nei resoconti di Avesani, Tommaseo, Culoz e Pimodan.
Il passaggio di poteri da Palffy a Zichy avviene in modo anomalo e rocambolesco durante la trattativa con la delegazione della municipalità. Secondo la ricostruzione “a caldo” di Avesani, Zichy, nel momento in cui Palffy annuncia le dimissioni, e in un’altra stanza. Avesani che lo aveva visto chiede a Palffy di chiamarlo. Palffy lo chiama e gli spiega la situazione, pregandolo di «risparmiare il più possibile questa bella e monumentale citta». Zichy si meraviglia della richiesta della delegazione, dicendo di non poterla esaudire: anche lui ama la città, nella quale abita da molti anni, ma il «dovere» viene prima delle «affezioni» e lui «rigorosamente» avrebbe fatto il «dover suo». Avesani dice: vado a dirlo al popolo e lei sarà il responsabile della «strage imminente». Zichy ci ripensa, lo trattiene e lo esorta a moderarsi. Avesani chiede allora che le truppe tedesche e non-italiane partano e quelle italiane restino. Zichy dice: «impossibile […] ci batteremo». Avesani risponde «ebbene ci batteremo» e fa per andarsene. Zichy lo trattiene di nuovo per farlo ragionare, chiedendo di mettersi nei suoi panni, che ne va della sua testa. Avesani risponde che ne va della testa di tutti. Zichy dice che se anche concedesse il ritiro, non può fare distinzioni sulla base della nazionalità dei soldati. Avesani risponde che «portare al popolo» concessioni a metà non ha senso e che per evitare la strage, bisogna arrivare «al tutto e a più che tutto». Zichy concede. Avesani chiede che le truppe siano trasferite per mare a Trieste. Zichy rifiuta. Avesani spiega che i veneziani non vogliono che le truppe ritirate da Venezia possano venire subito impiegate in Terraferma. Zichy concede. E così via, Avesani incalza punto per punto Zichy che prima rifiuta e poi concede.
Se nel comportamento di Zichy si è vista “debolezza” è perché gli si attribuisce di aver preferito i sentimenti alla ragion di stato. Nella nostra prospettiva, appare più corretto parlare di valori: da un lato l’onore come istituzione storicamente formata, la potenza e la ragion di stato; dall’altra le vite umane, la cultura e le libertà. Come se Zichy in un momento in cui è libero dalle procedure, non ha ordini chiari e non può riferirsi a dei superiori, abbia scelto di non comportarsi come Radetzky o Marinovich, ma come un generale-gentiluomo, fuori dagli schemi dell’esercito austriaco, forse persino volendo dare uno schiaffo a Radetzky. In quei giorni e stato, in un certo senso, un anti-Radetzky e un anti-Marinovich, un militare non militarista. Molto probabilmente sarà proprio Radetzky a far di tutto perché, dopo una parziale assoluzione davanti alla corte marziale, fosse condannato più duramente.
Se si guarda Zichy come a una persona divisa tra due ordini di valori e due mondi, si capisce anche appieno la tragicità della sua vicenda che ricorda, per alcuni aspetti, quella di Jaffier, personaggio della Conjuration des Espagnols contre la république de Venise dell’abate Saint-Real, più nella versione che ne dà Simone Weil nel suo Venise sauvée1. Anche questa storia forse non a caso è ambientata a Venezia, simbolo letterario dell’umanesimo universale, nel contesto di un conflitto contro gli Asburgo che allora governavano anche la Spagna, e anche qui decisivi sono il controllo dell’Arsenale e di piazza San Marco per il controllo di tutta la citta. L’originale è scritto nel Seicento, per mettere in cattiva luce la casa d’Austria e, sebbene pretenda di raccontare un fatto vero, non ha convincenti riscontri documentari. La storia tratta del tentativo da parte dell’ambasciatore spagnolo di far saltare la pace tra Spagna e Venezia, conquistando la città con un colpo di mano notturno, con la connivenza segreta del segretario di stato spagnolo. Jaffier è un francese, uno dei congiurati, stimato capitano di vascello. Quando capisce che il successo dell’impresa avrebbe comportato massacri, saccheggi e distruzioni, rimane sconvolto e diviso tra la fedeltà ai compagni e il desiderio di salvare la città. Alla fine denuncerà la congiura al Consiglio dei Dieci, dopo aver ricevuto la promessa che sia risparmiata la vita dei suoi amici. I veneziani però non mantengono la promessa, così Jaffier è causa della loro morte. Si sente e viene visto come un traditore, disprezzato dagli uni e dagli altri. Cerca morte in battaglia per ritrovare l’onore perduto.
La Weil vede nella storia una contrapposizione tra sogno di conquista (obbligare con la forza gli altri a sognare il tuo sogno) e la capacità di vedere la realtà (la città, «un ambiente umano del quale non si ha maggior coscienza dell’aria che si respira. […]»). Questa capacità è resa possibile in Jaffier, per l’amore che prova per una veneziana. La situazione di Zichy è ovviamente tutt’altra: salva Venezia e le sue truppe; non si sente un “traditore”, reclama di aver agito da buon generale. Però anche nella sua vicenda c’è l’amore per una donna e anche lui finisce senza la gratitudine della città salvata (con l’eccezione del tardo riconoscimento da parte di Tommaseo), universalmente accusato di debolezza o codardia e processato dai suoi. Anche a lui può essere attribuita la capacità di avere riconosciuto e rispettato “la realtà”, non considerando la città «come un balocco che si può buttare dove si vuole, che si può fare a pezzi», uscendo dalle logiche brutali di guerra.
Le due posizioni – quella della ragion di stato e quella umanitaria – sono espresse bene da due storici francesi, Le Masson e Martin. Avverte Le Masson, riferendosi a Zichy: «in alcune circostanze e di assoluta necessita il saper soffocare qualunque sentimento di umanità per difendere fino all’ultimo sangue e senza alcun riguardo l’autorità e il posto di cui si è insigniti. È questo il primo obbligo di qualsiasi magistrato; egli deve esser martire del suo dovere e della posizione in cui può trovarsi, altrimenti si disonora e tradisce il governo a cui serve». Scrive invece Martin: «L’ungherese Zichy era un uomo illuminato e umano, e i suoi affetti privati più cari l’avevano reso italiano: capiva che rischiava la vita non difendendosi, ma che difendendosi avrebbe commesso un crimine contro la civiltà; che una guerra fino alla morte in questa città piena di tesori d’arte, avrebbe provocato disgrazie irreparabili, e che questa guerra non poteva vincerla. Le truppe italiane o semi-italiane gli si sarebbero squagliate in mano, e che con due battaglioni di Croati e un po’ d’artiglieria tedesca (meno di 2.500 uomini), non avrebbe riconquistato Venezia! Firmò la capitolazione che gli sarebbe costata così cara: la storia, almeno, gli faccia giustizia, sollevandolo dalle accuse di viltà o di debolezza!». Non serve dire da che parte stiamo.
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Tratto da Luca Pes, Venezia salvata da due ungaro-austriaci? Il Quarantotto tra ammutinamento e resa, in Rivolta e tradimento. Sudditi fedeli all’imperatore raccontano il Quarantotto veneziano, a cura di Piero Brunello, con un saggio di Luca Pes, storiAmestre (Quaderni, 12), Mestre 2012, pp. 97-144 (le citazioni pp. 97-101, 116, 140-144; abbiamo omesso le note, tranne una).
- Faccio riferimento alle edizioni: C. de Saint-Réal, Conjuration des Espagnols contre la république de Venise [1674], Éditions Ombres, Toulouse 1999 e S. Weil, Venezia salva [1955], Adelphi, Milano 2003 [prima ed. it. Morcelliana, Brescia 1963, poi Adelphi, Milano 1987] [↩]