di Lucio Sponza
Sarà Lucio Sponza ad animare il secondo “spunti-no” storico: appuntamento giovedì 24 maggio, alle 17,30 presso la sede del Centro di documentazione sulla città contemporanea. Si partirà da un diario scolastico tenuto nella Venezia degli anni Venti. Per altre informazioni, cliccare qui. Insieme a questo promemoria, vi proponiamo alcuni brani di un altro studio sulla Venezia di quegli anni che Sponza ha pubblicato nei nostri “Quaderni” nel 2009: L’onore e la legge. Un dramma d’amore a Venezia (1924).
L’onore e la legge
A questo occhiello seguivano titolo e sottotitoli: «UCCIDE A COLPI DI PUGNALE IL FIDANZATO – La vendetta di una perlaia sedotta – Tragico risveglio – La fulminea scena di sangue sotto gli occhi delle madri». Così l’edizione del pomeriggio della Gazzetta di Venezia di sabato 2 febbraio 1924 dava notizia di ciò che era successo la mattina dello stesso giorno, nel cuore del popolare sestiere di Castello. L’articolo si estendeva su tre fitte colonne della prima pagina, con questo prologo:
In un angolo remoto della città nella calle S. Giovanni alla parrocchia di S. Gioacchino [in realtà, parrocchia di San Pietro], al n. 380, un oscuro tugurio, è avvenuto un orribile fatto di sangue i cui protagonisti sono anche questa volta due esseri a cui l’amore, dopo le gioie troppo brevi, aveva donato un odio sordo che culminò con il tragico fatto che stiamo per narrare.
Lei era Elena Scarpa, di 19 anni; lui, Ciro De Lorenzi di 24. Erano fidanzati da due anni e pensavano al matrimonio, quando le cose precipitarono: Ciro sembrava voler abbandonare Elena; seguirono litigi, rancori e minacce, finché si giunse alla tragica conclusione. La vicenda suscitò enorme impressione fra gli abitanti di quella zona e grande eccitazione accompagnò le giornate del processo, che ebbe luogo nel dicembre di quello stesso anno presso la Corte d’Assise di Venezia. Elena fu assolta «per totale infermità mentale», e subito rimessa in libertà.
È una storia che merita di essere raccontata per esteso perché ci offre lo spaccato di una Venezia povera e prostrata, dove anche i rapporti umani più semplici erano viziati dalla durezza del vivere, dai pregiudizi, dalle consorterie e dai turbamenti particolari di quegli anni. E vale la pena che sia raccontata ricorrendo a citazioni dagli articoli di cronaca della Gazzetta di Venezia (GV) e del Gazzettino (G): prima di tutto perché è interessante osservare lo stile enfatico di questi cronisti, riflesso – ma in parte anche istigazione – di vivaci emozioni. Poco contava, in questo, il diverso orientamento dei due quotidiani: la Gazzetta, diretta da Gino Damerini, si rivolgeva a lettori di ceto sociale più elevato e di opinioni conservatrici; il Gazzettino, diretto dal suo fondatore, Giampietro Talamini, mirava a un pubblico più popolare. In secondo luogo, il ricorso al linguaggio passionale dei giornali è utile perché rivela più chiaramente giudizi di valore, moralismi ed espressioni di sussiego da parte dei cronisti (uomini) nei confronti dei «popolani»; altri giudizi di valore e moralismi, peraltro, erano ben presenti anche nei «popolani», e quindi negli stessi personaggi della vicenda, sia nei due protagonisti che nelle cerchie famigliari, amicali e di vicinato – vero «coro», quest’ultimo, della tragica storia.
Una storia di amore difficile
Ciro De Lorenzi era carpentiere in ferro, ma da quando era stato congedato dal servizio militare con la Regia Marina, agli inizi del 1921, non era riuscito a trovare un posto sicuro e passava da un lavoro all’altro come manovale a giornata. Era perciò felice quando fu assunto all’Arsenale, anche perché finalmente gli si offriva la possibilità di praticare il suo mestiere; ma durò poco: ci fu un’ondata di licenziamenti e gli ultimi a essere assunti furono i primi a essere allontanati. Ciro abitava con la famiglia in un pianoterra buio di due stanze, oltre a un cucinino, in fondo a Calle San Giovanni in Riello (presso il Campo Ruga). Il padre era sarto, con una piccola bottega vicino all’abitazione; aveva 65 anni e fu descritto come «un vecchietto un po’ gibboso, alto poco più d’un metro» (G, 4 febbraio). La madre, Emma Boatello (49 anni), era analfabeta. Con Ciro e i genitori vivevano la sorella maggiore, Rina (Alessandrina, 33 anni), che faceva la sarta (probabilmente nella bottega del padre) e i due figlioli di lei, Luigi (14 anni) e Roberto (11 anni). Di Rina i cronisti dicevano che fosse vedova, ma era in realtà divisa dal marito[*]. I De Lorenzi, padre e figli, erano nati a Padova; la madre era di Lonigo.
Elena abitava con i genitori, una sorella, un fratello e due zii paterni in cinque modeste stanze di primo piano, in Calle Pietro da Lesina (Seco Marina, parrocchia di San Giuseppe – o San Isepo), a circa cinque minuti a piedi dall’abitazione di Ciro. Gli Scarpa erano tutti nati a Venezia. Il padre, Domenico, già carpentiere in ferro e – secondo la scheda censuaria del 1921 – «incapace di leggere», era pensionato dell’Arsenale; il fratello (Angelo) era anche lui carpentiere in ferro, e come Ciro era anche disoccupato; la sorella («Giulia», ma Iolanda all’anagrafe) era stata sarta, ma ora faceva la perlaia presso la ditta Biso-Rossi, in Fondamenta dell’Osmarin. Un altro fratello, Giovanni (anche lui «carpentiere in ferro»), viveva altrove con una sua propria famiglia. Elena era stata assunta da poco come perlaia alla stessa Biso-Rossi: voleva lavorare per fare dei risparmi in vista del matrimonio, non essendo Ciro in grado di provvedere con continuità. Guadagnava 7 lire al giorno, che era meno della metà di quanto prendeva un manovale nell’industria: 15 lire al giorno, ma era meglio che niente.
I due giovani si conoscevano da quando erano adolescenti, ma fu nell’estate del 1921 che una gita in barca al Lido con amici suscitò in loro il desiderio di frequentarsi. Ciro compiva 22 anni a fine agosto, Elena ne aveva compiuti 16 a metà marzo. […]
Di progetti di fidanzamento e di matrimonio Ciro ed Elena parlarono quasi subito. Anche dei rapporti intimi che c’erano stati fra di loro, Elena non aveva fatto mistero a sua madre e a sua sorella. E ne aveva addirittura parlato «con qualcuno della famiglia di lui … non perché pentita, ma perché decisa a farsi un’arma dei propri diritti»(G, 3 febbraio). Che i due giovani avessero propositi seri era testimoniato dagli acquisti che a poco a poco avevano fatto, e che erano tenuti intanto presso la famiglia di lei. «L’Elena aveva provveduto già all’acquisto della camera da letto, mentre lui aveva pensato, come è abitudine presso il nostro popolo, ai materassi e alla cucina» (GV, 2 febbraio).
Le famiglie erano angustiate per l’incertezza che pesava sui due giovani, causata sia dalla persistente disoccupazione di Ciro che dalla difficoltà a metter su casa per la grave crisi degli alloggi che infieriva a Venezia. Anche quando il matrimonio pareva prossimo si doveva rinviarlo. Durante il processo, quando difesa e accusa cercheranno di gettare la peggior luce sulla parte avversaria, Ciro sarà presentato come giovane infedele e violento, Elena come ragazza civettuola, fredda ed esigente. Ma all’origine dei «gravi e decisivi dissapori» ai quali accennava il cronista del Gazzettino dovevano piuttosto essere quei due ostacoli oggettivi e frustranti. Forse non c’era in Ciro saldezza di sentimenti, ma la mortificazione a non poter provvedere, sia pure modestamente, al futuro con Elena, doveva erodere la fiducia nelle proprie capacità e ferire il suo orgoglio. Tanto più che sia la propria famiglia che quella di Elena non mancavano di sollecitare la sua piena assunzione di responsabilità nei confronti della fidanzata. E proprio perché il matrimonio pareva imminente, gli era stato concesso di trasferirsi a vivere nella abitazione meno sovraffollata dei futuri suoceri.
A fare precipitare le cose fu la circostanza che avrebbe dovuto risolvere il problema principale. A Ciro fu trovato un lavoro da cameriere presso una trattoria di parenti degli Scarpa, in Rio Terà de la Madalena (per 50 lire alla settimana, più il vitto e le mance. Le 15 lire giornaliere pagate ai manovali meccanici ammontavano a 90 lire la settimana). Assidua cliente, assieme ad alcune amiche, era la ventiseienne Elisa Fabris, che avrebbe presto suscitato le attenzioni di Ciro – il quale la corteggiò e le faceva spesso visite in casa. Altre amiche, quelle di Elena, vennero a sapere della presunta infedeltà di Ciro e gliene parlarono. Il fratello di lei, Angelo, si appostò per verificare se si trattava di diceria e vide Ciro entrare nella casa di Elisa: il sospetto era dunque fondato! Elena decise di agire. Qualche giorno dopo, a metà gennaio, accompagnata dalla sorella Giulia, si recò nei paraggi della trattoria dei parenti, scorse Ciro in compagnia di Elisa in Rio Terà San Leonardo e affrontò la rivale causando una gran zuffa. Ciro prese le difese di Elisa e ingiuriò Elena, dicendole: «Va via, roba da marineri» (GV, 2 febbraio). Elena fu sconvolta, mentre a Ciro andò il sangue alla testa:
La stessa sera della scenata in Rio Terà [Ciro] si presentò, in compagnia di amici, armato di un lungo chiodo, in casa della Scarpa, profferendo minacce verso l’Angelo, ch’egli riteneva l’informatore della sorella […]. L’Angelo era assente; e anzi, informato dal vicinato di quanto stava accadendo, ricorreva ai carabinieri per avere protezione[**]. (G, 3 febbraio)
Quando Angelo con la sua scorta giunse a casa, Ciro se n’era andato e quella giornata tumultuosa finì senza ulteriori incidenti. Ma da allora la famiglia di Elena non volle più sapere di avere in casa quel suo fidanzato. I rapporti fra i due giovani si fecero tesi, tuttavia non c’era definitiva rottura:
I due amanti continuavano a vedersi, ma si scambiavano parole aspre, più che tenerezze. Poi, di quando in quando, un raggio di sole veniva a illuminare le loro anime in burrasca. Egli le diceva di amarla sempre e le assicurava che si sarebbero sposati presto; lei rispondeva che tutta la vita, ormai, era nelle sue mani. (G, 3 febbraio)
A complicare le cose arrivarono il licenziamento di Ciro anche dalla trattoria e il suo convincimento che dietro ci fosse l’intervento di Elena, gelosa. Solo al processo si verrà a sapere, per testimonianza del proprietario del locale, che Ciro era stato allontanato perché «alterava i prezzi» (G, 19 dicembre) che chiedeva ai clienti di pagare – presumibilmente intascandone la differenza (ma la sorella di Ciro, sempre al processo, sostenne che era stato lo stesso proprietario a suggerire al fratello di imbrogliare i «foresti»).
Domenica 20 gennaio, una settimana dopo la zuffa in Rio Terà San Leonardo, si dava un festino in casa di Rita Varagnolo per l’imminente partenza del figlio, che andava a compiere il servizio militare. La Varagnolo era una vicina degli Scarpa, ma conosceva anche i De Lorenzi e probabilmente ritenne di cogliere l’occasione per tentare una rappacificazione tra le due famiglie. Furono invitate sia Elena che Rina (la sorella di Ciro), e anche i genitori di quest’ultima. Tutto sembrava procedere bene, «in un ambiente di onesta e semplice allegria» (G, 3 febbraio), quando – verso le 10 di sera – Ciro chiamò Elena per dirle che era ora che ritornasse a casa; lei rispose che rimaneva a ballare ancora un po’, e lui si allontanò
Il giovane cominciò a pensare che la fidanzata avesse ripreso ad amoreggiare con un suo precedente moroso; ma Angelo ritenne che questo sospetto, del tutto infondato, servisse a Ciro da pretesto per il definitivo abbandono di Elena. A questa conclusione Angelo era anche indotto dalle ripetute richieste di Ciro che gli fossero restituiti gli acquisti fatti in vista del matrimonio, e che si trovavano a casa degli Scarpa. Angelo era perciò sempre più preoccupato per le sorti e per la reputazione della sorella. Nei due giovanotti, per i quali la vicenda era diventata una questione d’onore, la tensione si manifestava con crescente intensità di parole e di antagonismo fisico. Trovavano anche sostegno dagli amici; sostegno che poteva diventare una forma di pressione perché davanti a loro i due giovani non potevano dare l’impressione di cedevolezza – e chissà se da qualcuno di quegli amici Ciro e Angelo non fossero addirittura aizzati a dimostrarsi «uomini».
Due giorni prima della tragedia Ciro, nel primo pomeriggio, si era recato sotto le finestre degli Scarpa gridando: «Se no me dé la mia roba torno in compagnia de mii amizi e cópo tuti!». Mezz’ora dopo, in Via Garibaldi, si imbatté in Angelo, che gli disse:
«Ti cichi perché no te volemo dar la roba?» – Il De Lorenzi diede, a mo’ di sfida, un colpetto sul naso dell’Angelo. L’atto provocatorio determinò un pugilato che finì con l’intervento di alcuni fascisti e del vigile Zennaro. Alla sera, alle 11, altro incontro davanti al Caffé Orientale sulla Riva degli Schiavoni. Questa volta fu il De Lorenzi ad affrontare l’Angelo. Gli disse: «Adesso so vestio da festa, ma doman ti me la pagarà cara!»[***]. (G, 3 febbraio)
Angelo si allontanò. Si sa che Ciro prima di rincasare, poco prima della mezzanotte, era stato a vedere un film al cinema Garibaldi, sulla strada omonima e dove c’era stato lo scontro con Angelo – scontro che doveva avere scosso Ciro, perché ne parlò con la madre e la sorella prima di coricarsi sul pagliericcio sistemato su un cassone allungato con due sedie, ai piedi del letto dei genitori. […]
La mattina di sabato 2 febbraio, poco prima delle 8, Elena usciva di casa con la sorella per andare assieme alla fabbrica di conterie dove lavoravano. Era una giornata molto fredda e le due giovani erano avvolte nel lungo scialle nero caratteristico delle popolane di Venezia. In Fondamenta di Sant’Anna Elena disse a Giulia di andare avanti: voleva passare dal fidanzato e poi l’avrebbe raggiunta. La porta di casa dei De Lorenzi era aperta e nella piccola cucina Elena fu bene accolta dalla madre di Ciro, che stava preparando il caffè; attraversato il tinello fu invitata ad entrare in camera dove si trovavano Rina e suo figlio Roberto, oltre a Ciro che era ancora addormentato. Svegliato dalla sorella quando questa vide entrare Elena, rimase coricato e fu infastidito da quell’apparizione inattesa. Intanto erano giunti là anche i genitori di Elena, per chiedere ai De Lorenzi che Ciro moderasse la sua ostilità nei confronti di Angelo. Sapevano che vi avrebbero trovato Elena: gliel’aveva detto il padre di Ciro quando erano passati davanti alla sua bottega. Furono anche loro invitati ad entrare nella camera, e a sedersi sulla branda ai piedi del letto di Rina. Quali parole si fossero scambiati all’inizio i due fidanzati non è chiaro; sembra che lei avesse detto di essere venuta per far la pace, ma che poi gli animi si fossero accesi. Di questi intensi momenti finali sarà Rina a fornire informazioni dettagliate (anche troppo, suscitando dubbi sulla veridicità). Dunque, riportò il cronista del Gazzettino, mentre gli altri adulti parlavano fra di loro su come comporre il dissidio,
improvvisamente la voce di Elena si fece concitata e aspra: «La roba, te ripeto, no te la dago indrio!» – «Alora – rispose il Ciro – toléme in casa!» – «Cossa vustu che i mii te toga, se no ti cambi testa?!» – «Ben, lassime star ché go sòno». E si coperse il viso con le coltri. – «Vien fóra col viso, ciò! So vignua per far paze!» – «No, no te vogio più! No ti me ga dito che no ti me vol gnanca se so cargo de oro? Dunque…». Non aveva ancora pronunciato, si può dire, l’ultima parola, che l’Elena fu vista dalla Rina col pugno levato avventarsi sul giovine, e colpirlo alla testa due volte. (G, 3 febbraio)
Elena, in stato di agitazione, si rivolse subito dopo e seccamente ai genitori, «Andémo, papà! Andémo, mama!», gettò il pugnale sul tavolo del tinello e i tre uscirono. Li rincorse il nipote di Ciro, Roberto, che fino a quel momento era rimasto a letto; afferrò Elena per lo scialle gridando «Ti ga copà mio zio!»; la giovane si svincolò, sollecitò i genitori a ritornare a casa e si diresse in gran fretta verso la caserma dei carabinieri nel vicino Paludo. Al maresciallo che la comandava disse: «Go ferìo el me moroso che non voleva più saverghene de mì; non so se sia morto o s’el sia vivo» (ibid.).
***
(Tratto da Lucio Sponza, L’onore e la legge. Un dramma d’amore a Venezia (1924), storiAmestre-Quiedit, Venezia-Verona 2009, pp. 5-17; sono state conservate solo 3 note.)
[*] Dalla scheda censuaria del 1911 (Archivio storico del Comune di Venezia, “Foglio di famiglia” n. 584, Castello 331) risulta che vivesse con il marito, Annunzio Sciascia, un marinaio siciliano (e il figlioletto Luigi, di un anno). Nel 1921 ( “Foglio di famiglia” n. 600, Castello 380), nelle “Osservazioni”, si dice che “La Lorenzi [sic] Alessandrina coniugata Siazia [sic] è divisa legalmente dal marito”. Essere “vedova” suscitava compassione e rispetto; essere “divisa” era un marchio di colpa e di sospetto.
[**] Un altro resoconto dice che andò sua madre ad avvertire Angelo; un terzo, che incontro ad Angelo andò invece la madre di Ciro.
[***] Perché il cronista del Gazzettino specifica che il vigile fu assistito da “fascisti”? Forse erano della Milizia? O forse, più probabilmente, erano persone del posto, conosciute (ancora oggi chi frequenta Via Garibaldi conosce più o meno bene quasi tutti, turisti esclusi) e note anche per il loro attivismo politico? Il Gazzettino, a differenza della Gazzetta, era su posizioni liberal-nazionali e antifasciste.