di Maurizio Reberschak
1963-2013: a cinquant’anni dal Vajont ricordiamo le responsabilità della tragedia con una serie di articoli di Maurizio Reberschak, il primo studioso ad aver intrapreso una ricostruzione storica della strage e delle vicende giudiziarie trascinate per decenni. Questo intervento d’apertura offre un quadro generale; è scritto pensando a chi non conosce questa storia, magari perché non ha potuto ascoltare i racconti (fatti a teatro, in televisione, al cinema) che, per un breve periodo, alla fine degli anni Novanta, resero “popolare” il Vajont. Reberschak anticipa inoltre i temi dei prossimi articoli, che pubblicheremo a cadenza grosso modo mensile, per dieci mesi, a ricordo delle vittime di quel 9 ottobre 1963.
Vajont?
Vajont. Vajont? Ah, sì… quello in televisione di Marco Paolini, il Racconto del Vajont (1997); sì, anche quello del cinema di Renzo Martinelli, il film Vajont (2001). Grandezza della comunicazione di massa! Ma ci sono anche altri Vajont noti. Quello della benzina, l’accisa, che vuole dire addizionale, ma perché poi non chiamarlo col suo nome, tassa aggiuntiva; il Vajont come la guerra d’Etiopia (1935-36), come la crisi di Suez (1956), come la sequela dei terremoti – Belice (1968), Friuli (1976), Irpinia (1980) L’Aquila (2009), Emilia (2012) –, delle alluvioni – Firenze 1966, Liguria e Toscana 2011 –, delle “missioni di pace” – Libano (1983), Bosnia (1996) –, tutte accise sulla benzina, messe dallo Stato per fare cassa, e continuiamo a pagarle. Ancora il vajont, sì, con la “v” minuscola, quello delle parole vuote, del lessico abituale, della loquela volgare, che indicano il luogo comune di una rovina: «è tutto un vajont».
Già, il Vajont. Ma quale? Provate a chiedervelo e cercate di darvi una risposta, oltre a quelle ricordate poco fa.
9 ottobre 1963 ore 22,39. L’Italia è davanti alla televisione a guardare la partita di coppa dei campioni del magico Real Madrid contro il coriaceo Glasgow Rangers: 6 a 0 per i primi. Anche a Longarone, Erto e Casso, Castellavazzo stanno guardando la partita, ma la corrente improvvisamente va via, tutti imprecano, ma per poco, perché dopo un po’ comincia un sibilo che diventa sempre più frastornante, si alza un vento bagnato sempre più forte fino a diventare uragano, arriva una massa d’acqua, enorme, violentissima, si abbatte sui paesi. Distruzione in un attimo di Longarone, di frazioni di Erto e Casso, di Castellavazzo. 1.910 morti, dai 21 giorni di vita di Claudio Martinelli ai 93 anni di Amalia Pancot. Perché?
La diga
È caduta la diga, tutti dicono nella vallata del Piave quando comincia a scorrere lungo il letto e le sponde del fiume quella inondazione mai vista.
1. Diga del Vajont finita (1962). Fonte: Maurizio Reberschak, Il Grande Vajont, Cierre, Sommacampagna (Verona), 2008, p. 349.
Ma quale diga? Al di là dei paesi circostanti, della città di Belluno, di alcuni ministeri luoghi di decisioni della politica, delle concentrazioni di potere economico-finanziario, ben pochi erano gli italiani che sapessero che là, sopra Longarone e Castellavazzo e sotto Erto e Casso, c’era una diga. In Italia ci si stava godendo un’altra onda, quella all’apice del «miracolo economico», che aveva portato nelle case degli italiani la carne da mangiare, il frigorifero, la vespa o la lambretta e soprattutto l’utilitaria Fiat 600, e perfino la televisione.
La diga, quella del Vajont appunto, alta m 261,60, la più alta al mondo, il «nastro azzurro dell’ingegneria italiana», magnificenza del «genio italiano», fatta costruire dalla Società adriatica di elettricità – la Sade, quella che era stata dei potenti veneziani Volpi, Cini, Gaggia –, iniziata senza alcuna concessione nel 1939 in epoca fascista, autorizzata dagli apparati ministeriali della Repubblica sociale italiana dopo la ricostruzione fasulla dello stato neofascista all’indomani dell’8 settembre 1943, interrotta alla fine del 1943, riconosciuta come dato di fatto alla conclusione della guerra tra il 1945-46 dallo Stato italiano ricostituitosi nella Roma liberata nell’estate 1944, lavorata dalla Sade sempre con autorizzazioni provvisorie, elevata nella sua massa di cemento dai 130 metri di un progetto del 1929 ai 261,60 in fase di realizzazione del progetto del 1957, quello del «Grande Vajont», passando in scorribanda anche per una puntatina di idea fino a 300 m di altezza nel 1955, tutto e sempre con la compiacenza degli organi dei ministeri preposti.
Il monte Toc
Ma non è la diga a rompersi, è la montagna che cade, quella che sta sulla sponda sinistra del bacino artificiale creato dalla diga, il Monte Toc: un nome appropriato, affibbiato con saggezza secolare dagli abitanti di Erto, perché era un monte «matto», cadeva giù a tocchi, e lì loro non ci avevano costruito quasi nessuna casa, solo pochissimi edifici rurali, malghe per la monticazione, ma mai un nucleo abitativo fisso. Come mai? E la perizia geologica, cosa aveva detto? Quale perizia geologica? Il Consiglio superiore dei lavori pubblici ha approvato il progetto senza perizia geologica, col solo corredo di qualche appunto, per di più presentato solo verbalmente da un ingegnere e non da un geologo! Tanto erano tutti uomini «dabbene», tecnici «affidabili»: il progettista, l’ing. Carlo Semenza, il geologo, il prof. di chiara fama Giorgio Dal Piaz; entrambi non avrebbero visto il compimento del loro capolavoro e il disastro provocato, perché morti tra il 1961-62.
La giornalista Tina Merlin per anni aveva battuto il chiodo, denunciando il pericolo e stando a fianco degli ertani che si erano visti sottrarre le terre a suon di compravendite fasulle da parte della Sade o di espropriazioni dalle indennità ladronesche da parte dello Stato su richiesta della Sade. Ma era una giornalista dell’“Unità”, quindi una comunista pericolosa per l’«ordine pubblico».
Nel corso del 1963 si sta attuando la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Lo Stato acquisisce gli impianti delle società elettriche, rimborsando cifre esorbitanti al di sopra di ogni logica valutazione. Bisogna fare presto, per fare collaudare la diga e dichiarare il bacino del Vajont «bene elettrico». Una «corsa al collaudo», quindi riempire il bacino al massimo è l’imperativo categorico, per dimostrare che è già in grado di produrre energia elettrica. Ma qualche inconveniente c’era già stato: la sponda aveva dato problemi con spostamenti e frane. Tecnici interpellati dalla Sade, tra cui il geologo figlio del progettista, individuano una linea di frana preistorica, la stessa lungo la quale poi la montagna si sarebbe spaccata: la montagna è instabile, potenzialmente pericolosa, dicono. Ma si mette tutto a tacere.
La frana
Cadono 266 milioni di metri cubi di roccia e terra.
2. Diga del Vajont dopo la frana (Foto Eddy). Fonte: Reberschak, Il Grande Vajont cit., copertina.
Precipitano nel lago artificiale in meno di un minuto alla velocità di 100 km all’ora. Sollevano un’ondata che risale la sponda opposta per 200 m, e si abbatte su Casso. L’onda ricade sul quello che ormai era il bacino d’acqua, da una parte va a colpire Erto, dall’altra supera la diga di 70 m, si incanala nella stretta gola finale del Vajont, esplode su Longarone: l’equivalente di due bombe atomiche della potenza di quella di Hiroshima. Una strage. Dove c’era un valle, ora c’è una montagna che le si è ficcata dentro. Dove c’era un paese, ora c’è una spianata desertificata: edifici, case, chiese, uomini, donne, vecchi, bambini, tutto spazzato via.
3. La valle del Piave sotto la diga del Vajont e davanti a Longarone. Fonte: Reberschak, Il Grande Vajont cit., p. 431.
4. Dove c’era Longarone. Fonte: Il Vajont dopo il Vajont. 1963-2000, a cura di M. Reberschak, I. Mattozzi, Marsilio, Venezia 2009, foto 14 fuori testo.
La notte arrivano i primi soccorsi. La protezione civile ancora non esiste. Belluno è piena di alpini, ce ne sono circa 5000, e li si manda lungo la vallata del Piave; poi i vigili del fuoco, la polizia, i carabinieri, la croce rossa, e arrivano anche i volontari alcuni organizzati ma perlopiù disorganizzati.
5. Il ritrovamento di corpi. Fonte: Il Vajont dopo il Vajont cit., foto 8 fuori testo.
Tutti alla ricerca di eventuali superstiti e alla raccolta dei cadaveri, anzi dei brandelli dilaniati dall’esplosione «atomica». Il Piave si porta giù i pezzi di corpi, che arrivano fino alla foce a Cortellazzo, a circa 150 chilometri di distanza: 1.464 i corpi o le parti di corpi recuperate e portate a Fortogna in uno spiazzo dove sarebbe sorto il cimitero delle vittime del Vajont. I rimanenti, non si sa, mai più ritrovati.
6. L’allineamento delle bare. Fonte: www.archiviofoto.unita.it
7. Presenze istituzionali dopo il disastro del Vajont: il presidente del consiglio Giovanni Leone – che in seguito sarebbe divenuto avvocato dell’Enel nel processo penale – e il ministro dell’interno Mariano Rumor. Fonte: www.archiviofoto.unita.it
La macchina della giustizia si mette in movimento. L’istruttoria processuale dura cinque anni fra mille difficoltà pratiche e «politiche». Qualcuno paventa un «processo al potere». Ma si arriva a stendere le imputazioni contro undici imputati. Il disastro era probabile e prevedibile, la catastrofe poteva ragionevolmente essere attesa come imminente. Imperizia, imprudenza, negligenza, colpa, prevedibilità dell’evento, omessa diffusione di allarme, disastro di frana e di inondazione, omicidio e lesioni colpose plurime, questa la somma delle imputazioni.
Si è alla vigilia del processo, ma ecco il colpo di genio: gli avvocati dei maggiori imputati sollevano presso la Corte di cassazione la questione della mancanza di serenità nel luogo dove avrebbe dovuto tenersi il processo, Belluno, nonché la scarsa ricettività alberghiera della città e della provincia (eppure c’erano ben note località turistiche, come Pieve di Cadore e soprattutto Cortina d’Ampezzo). La Cassazione accoglie e, oplà, il processo viene sottratto al suo giudice naturale e trasferito per «legittima suspicione». Dove? il più lontano possibile, con le maggiori difficoltà immaginabili per raggiungere la sede da parte di chi voleva costituirsi parte civile: L’Aquila. L’Aquila? Si sapeva bene che era ben arduo raggiungere L’Aquila da Belluno. Proprio per questo quindi si poteva scavalcare la questione che L’Aquila, come Belluno e provincia, non presentasse soddisfacenti ricettività. L’Aquila poi da tempo era diventata sede preferenziale della Cassazione per il trasferimento di numerosi processi «difficili», tra i quali alcuni per mafia, che in qualche modo si volevano controllare a distanza.
Tra il novembre 1968 e il marzo 1971 si svolgono i 3 gradi dei processi, che si concludono in Cassazione a Roma con pene leggere e limitate a due soli imputati, rappresentativi però del potere economico e istituzionale incontrollato: un alto responsabile della ex Sade ora divenuto alto dirigente dell’Enel dopo la nazionalizzazione, quello che era subentrato a Semenza alla morte di questi, Nino Biadene; un alto dirigente dello Stato pronto sempre ad avallare in sede decisionale le direttive degli interessi privati della società elettrica in qualità di responsabile della Commissione di collaudo del Ministero dei lavori pubblici per la diga del Vajont: 5 anni di reclusione a primo, 3 anni e 8 mesi al secondo.
8. Alcuni degli imputati al processo penale dell’Aquila. Fonte: www.archiviofoto.unita.it
Belluno e L’Aquila
Era cominciato così a intrecciarsi un comune destino incrociato tra due città, Belluno e L’Aquila appunto, così distanti, così diverse, che di colpo si sarebbero ritrovate vicine, con destini affini tuttora persistenti. Nonostante la distanza, i superstiti non rinunciarono certo a recarsi all’Aquila con pullman e in treno, almeno per le aperture e le conclusioni dei processi di I e II grado, affrontando un viaggio ben lungo e faticoso, ore e ore, rinunciando anche a dormire pur di essere presenti. Gli imputati e i loro avvocati invece arrivavano in macchina e alloggiavano nell’albergo migliore della citta abruzzese, il Duca degli Abruzzi. Finiscono i processi penali, ma non i civili, che si sarebbero trascinati ancora per 30 anni.
8bis. Superstiti al processo Vajont dell’Aquila. Fonte: www.archiviofoto.unita.it
Si conclude l’iter giudiziario e si apre un altro processo, quello di rimozione della memoria, perché il Vajont diventa scomodo e bisogna metterci sopra un velo di silenzio. E l’obiettivo si realizza. Qualche illuso cerca di metterci su una narrazione storica o uno studio di storia, soprattutto in occasione dei vent’anni dal disastro: ma per il momento i libri lasciano il tempo che trovano. Bisogna aspettare la spinta mediatica tra fine del vecchio millennio e inizio del nuovo perché del Vajont qualcuno si accorga e cominci a parlarne senza timori reverenziali.
Il terremoto dell’Aquila
Alla fine dell’iter giudiziario all’Aquila rimasero i documenti che servirono per il processo: oltre 252 contenitori d’archivio, 40 metri lineari per poco meno di 200.000 documenti. A lungo furono tenuti dal Tribunale, prima nello scantinato, dove subirono anche alcuni danneggiamenti per rotture di scarichi fognari, poi in una stanza adibita a cella di contenzione dei detenuti in attesa di udienza; infine furono versati all’Archivio di Stato dell’Aquila. Nel frattempo era stata avviata un’iniziativa per valorizzare questa documentazione ricchissima, col progetto di sistemazione dell’Archivio processuale nell’ambito di un più vasto programma di «Archivio diffuso del Vajont». Il progetto avrebbe dovuto realizzaresi all’Aquila con l’apporto di varie forze di ricerca, storiche e archivistiche. Ma… all’Aquila arriva il terremoto del 6 aprile 2009.
9. Il terremoto dell’Aquila. Fonte: www.notiziedabruzzo.it
L’Archivio di Stato crolla con l’adiacente «Palazzo del Governo» che ospita la prefettura e l’assemblea regionale.
10. Il Palazzo del Governo, simbolo delle istituzioni. Fonte: www.iljournal.it
11. L’Archivio di Stato dell’Aquila dopo il sisma. Fonti: www.archiviodistatolaquila.beniculturali.it
Le carte del Vajont però resistono, perché collocate all’interno di armadi metallici, che sopportano l’urto della caduta di muri e solai. Il terremoto tuttavia fa una vittima tra le archiviste che hanno sistemato le carte in Archivio di Stato, Giovanna Lippi, morta nel crollo dell’edificio in cui abitava, una delle 308 vittime.
12. L’Aquila. Il recupero delle vittime. Fonte: www.article.wn.com
13. Le bare allineate all’Aquila. Fonte: www.ilblogsonoio.com
Il processo per il terremoto
L’Aquila e Belluno continuano a darsi una mano idealmente ma anche concretamente. All’Aquila si svolge il processo contro 7 membri della Commissione grandi rischi, che, su sollecitazione del sindaco della città, era stata convocata all’Aquila una settimana prima del terremoto per valutare l’entità dell’ipotesi di pericolo suscitato dalle scosse sismiche cominciate sistematicamente nel precedente dicembre e divenute via via sempre più frequenti, forti, intense. Nessun timore, sentenziò la commissione, non c’è pericolo immediato. E poi, come si farebbe a evacuare una città di 72.000 abitanti? Pochi giorni dopo, la scossa fatale di magnitudo 6,3.
Il processo si conclude il 22 ottobre 2012 con una sentenza che condanna gli imputati a 6 anni di reclusione ciascuno.
14. Il processo dell’Aquila contro i membri della Commissione grandi rischi. Fonte: www.inkiesta.it
Le imputazioni in qualche modo ripercorrono strade simili a quelle del processo Vajont: colpa consistita in «negligenza, imprudenza, imperizia», una «valutazione dei rischi […] approssimativa, generica ed inefficace in relazione alle attività e ai doveri di “previsione e prevenzione”». Politici, accademici, istituzioni statali si sollevano: non si possono accettare responsabilità sulla base di valutazioni e giudizi che la cosiddetta «comunità scientifica» ritiene di assumere fondandosi su dati scientifici. E i politici a dare una mano: le previsioni erano scientificamente fondate; e poi i terremoti non si possono prevedere. E le istituzioni statali in appoggio: è stato fatto tutto il possibile per quanto si poteva sapere, scienza e coscienza hanno guidato.
15. La “presenza” delle istituzioni all’Aquila: il presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Fonte: www.aquilatv.it
Potrebbe anche darsi… Solo che lo si era già sentito dire più di 40 anni prima per il processo del Vajont: si era fatto tutto quello che si poteva, ma la «natura molto spesso è imprevedibile», e anche «crudele», anzi «maligna».
Il Vajont aveva insegnato qualcosa? Qualcuno aveva imparato da un’esperienza precedente, pur diversa, ma nella realtà tanto simile?
Le catastrofi «naturali» sono prevedibili?
Non si poteva prevedere? Al Vajont: dopo smottamenti, frane, individuazioni di frane preistoriche, linee di frattura sulla montagna, non si poteva prevedere che l’intervento devastante provocato dalla penetrazione e dalla forza dell’acqua sul fianco della montagna malata potesse provocare distruzioni e morte? Perché va giù la montagna e la diga rimane pressoché intatta? All’Aquila, territorio classificato ad alta sismicità, le scosse erano cominciate da 4 mesi ed erano proseguite con vigore sempre maggiore. Tranquilli, è normale in un territorio a rischio terremoto. Qualcuno aveva mai pensato di chiedersi come erano stati costruiti negli ultimi decenni gli edifici più recenti, come il Palazzo di giustizia finito proprio nel 1968 e inaugurato col processo Vajont, o come il Policlinico, costruito negli stessi anni, tutti e due gravemente lesionati e resi inagibili dal terremoto. O perché si sfascia la casa dello studente, mentre gli edifici circostanti restano in piedi? O ancora perché tutti i condomini tirati su in determinate zone letteralmente collassano, mentre poco più in là gli altri rimangono in piedi? Oppure perché crolla il Palazzo del Governo – costruito originariamente nel XIII secolo e rifatto pressoché integralmente nel XVIII –, che avrebbe dovuto essere messo a norma antisismica con un sistematico intervento da concludersi entro il 2009 – anno del sisma, che paradosso! –, l’intervento però non venne mai iniziato?
Ma in ogni caso un terremoto si può sempre prevedere a grandi linee, se non quando con precisione almeno dove con una buona individuazione data dalle caratteristiche delle aree sismiche e di alcuni fenomeni premonitori. Quanto meno dunque si può presumere dove se ne possa verificare uno in località ad alta sismicità, e senz’altro cercare di prevenirne le conseguenze: basterebbe studiare un po’ meglio, oltre alla geologia e alla tettonica, i segnali premonitori, alcuni dei quali sono stati individuati in studi scientifici; e di conseguenza costruire con parametri antisismici, restaurare case e monumenti con sistemi resistenti alle scosse, usare materiali adatti e non di scarto, verificare attentamente l’andamento sismico dell’area che può dare indicazioni di probabilità. Già, ma i soldi? Si va sempre a parare là, sul valore monetario, in base al quale un danno materiale – e magari la riparazione o ricostruzione successiva – è ritenuto più importante della vita umana.
Quante vicende, tante domande
Per non parlare delle alluvioni: perché ogni volta che ci sono precipitazioni più abbondanti del solito, in Italia si scatena il finimondo di acqua, terra, fango? Possibile che a Genova o nelle Cinque Terre basta che piova più forte e a lungo perché succedano disastri? Chiediamoci: chi ha interrato fiumi e torrenti nel centro di Genova? Chi ha costruito strade dove passavano torrentelli nei centri dei paesi delle Cinque Terre? Torniamo un po’ più indietro: chi ha ordinato di aprire di colpo e tutte insieme le paratoie delle dighe di contenimento dei bacini idroelettrici sull’Arno a monte di Firenze il 4 novembre 1966?
«Quante vicende, tante domande», diceva Bertolt Brecht.
Una sola domanda. Cosa succederà quando il Vesuvio esploderà? Perché tutti gli studi e le previsione indicano con certezza che questo succederà per il vulcano a caldera quiescente che sovrasta Napoli. Le sponde del vulcano sono urbanizzate completamente e selvaggiamente, tutto è avvenuto senza alcun piano urbanistico, magari senza licenza edilizia, senza l’adozione di criteri di costruzione antisismici obbligatori in zone vulcaniche. Si valuta che solo sulle sponde del vulcano almeno 550.000 persone siano sottoposte ad alto rischio, e in tutto il territorio napoletano lo siano 3 milioni. Sì, ma abbiamo un piano di evacuazione, dice la Protezione civile. Per 3 milioni? E all’Aquila dove erano 7 volte e mezzo di meno? I napoletani lo conoscono? Qualcuno glielo ha detto? Saprebbero cosa fare, come comportarsi? Ma si sa, a Napoli c’è sempre San Gennaro e la camorra che possono dare la grazia e fare il miracolo.
Siamo più realisti. «Se l’uomo non può impedire tutto, può prevedere molto». E ancora: «Pochi sono i grandi sinistri naturali di fronte ai quali non resti veramente che chinarsi a piangere i morti» (Marcel Roubault, geologo, perito d’ufficio per il disastro del Vajont nominato dal giudice istruttore).
robi dice
la valle del silenzio dove le anime riposano in pace, ma la gente non a capito il perchè il signore ha voluto tutto questo….
robi dice
la valle del silenzio dove le anime riposano in pace.
Francesca Chiarelli dice
Ho anch’io un pezzo da raccontare. Longarone 1963: eccidio. Lo potete leggere qui:
http://www.fchiarelli.it/longarone.pdf
Laura dice
Sono nata il 9 ottobre 1963 in provincia di Venezia, in uno di quei paesi attraversati dal Piave, e ciò mi ha in qualche modo legata, per sempre, alla gente di quella vallata violentata dal Potere della SADE, dell’ENEL, della Montecatini e dalla politica connivente.
Grazie per tenere sempre vivo l’interesse su questa vicenda.
Laura Meneghel
RENATA MASSARIA dice
E’ giusto rinfrescare la memoria di questo evento e soprattutto stimolare chi di dovere ad attivarsi per evitare il ripetersi di consimili disastri. Grazie a Maurizio Reberschak.
Ferruccio Vendramini dice
Splendida iniziativa quella di scrivere sul Vajont e scegliere Rebeschak, che ha seguito con costanza gli eventi e ha studiato le cause.
Complimenti alla Rivista.
Ferruccio Vendramini
PS. Perché non la spedite on line a tutti i longaronesi?
giacomo dice
Ciao a tutti. Le vicende sulla documentazione processuale del Vajont sono davvero pazzesche; ne avevo letto sul libro di Marco Armiero, “A Rugged Nation. Mountains and the Making of Modern Italy: 19th and 20th Century”. Per quanto riguarda la questione “Il Vajont aveva insegnato qualcosa?”, a mio modesto parere, di quest’evento si parla (quasi) solo in occasione degli anniversari, pur essendo il disastro del Vajont il primo dei 5 Cautionary Tales stilati dall’UNESCO con lo scopo di ricordare i possibili effetti dell’azione umana sul territorio. Infine mi permetto una segnalazione, in questi tempi bui in cui la Memoria deve convivere con le vacche magre del fiscal compact:
http://corrierealpi.gelocal.it/cronaca/2011/02/12/news/centrale-vajont-i-comuni-firmano-l-accordo-inizia-l-iter-del-progetto-1.929665