di Arcangelo Mandarino, a cura di Maurizio Reberschak
Maurizio Reberschak considera la requisitoria del pubblico ministero di Belluno Arcangelo Mandarino, per il rinvio a giudizio di nove imputati per responsabilità legate al disastro del 9 ottobre 1963, forse il più appassionato resoconto dell’evento e dell’opera dei primi soccorsi. Tra le circa 500 pagine dattiloscritte, Reberschak presenta qui alcuni brani che descrivono la portata della frana e gli effetti dell’ondata, e danno notizie sull’opera dei primi soccorsi, in particolare il riconoscimento delle salme. Oggi, è anche un’occasione per ricordare l’esistenza del progetto “Archivio diffuso del Vajont”, promosso dalla Direzione generale degli archivi, dall’Archivio di Stato di Belluno e dall’Archivio di Stato dell’Aquila, con il supporto della Fondazione Vajont. Il progetto prevede il recupero, il censimento e la catalogazione informatica di tutti i documenti, non solo processuali, legati alla tragedia.
Le descrizioni del disastro non sono molte. I superstiti sono stati sempre restii a parlarne. Giustamente. Un trauma forte, indimenticabile, sconvolgente, viene forzatamente sottoposto alla rimozione della memoria anche personale. È comprensibile.
I giornali poi fecero a gara nel vincere la bandiera dell’ignoranza e dell’insensatezza; e alla gara concorsero nomi come Dino Buzzati, Giorgio Bocca, Giuseppe Longo, ecc., che dimostrarono di raggiungere vette di mancata conoscenza dei fatti e di superficialità nei giudizi sparati ad effetto.
Nelle relazioni delle varie commissioni di studio di quanto avvenuto o nelle motivazioni delle sentenze dei processi si possono rintracciare alcune rappresentazioni significative dell’evento. Forse la più appassionata tra queste è presente nella requisitoria del pubblico ministero di Belluno, Arcangelo Mandarino. La redazione di questo atto venne conclusa il 22 novembre 1967, con la richiesta fatta al giudice istruttore di rinvio a giudizio di nove imputati, essendo morti due imputati durante lo svolgimento dell’istruttoria.
Il documento contiene anche gli elementi di riferimento per i primi interventi di soccorso e per l’avvio della procedura giudiziaria. Per il primo aspetto va tenuto presente che nel 1963 non esisteva la struttura della Protezione civile: in caso di calamità tutto era affidato ai corpi dello Stato – coordinati dai Ministeri dell’interno e dei lavori pubblici – e all’intervento del volontariato organizzato o spontaneo: il disastro del Vajont fece da impulso per l’approvazione della prima legge istitutiva della Protezione civile (l. 996/1970). Per il secondo aspetto invece rilevanti sono i sequestri della documentazione sul Vajont rinvenibile in istituzioni pubbliche o presso enti privati o persone.
La conclusione della requisitoria presenta l’atto di richiesta di rinvio a giudizio sottoposto al giudice istruttore. I nove imputati sono: Alberico Nino Biadene, direttore del Servizio costruzioni idrauliche della Società adriatica di elettricità (Sade), vice direttore generale dell’Enel-Sade, direttore dell’Ufficio produzione ed energia dell’Enel; Mario Pancini, direttore dell’Ufficio lavori del cantiere del Vajont; Pietro Frosini, presidente della IV Sezione del Consiglio superiore dei LL.PP.; Francesco Sensidoni, ispettore generale del Genio civile presso il Consiglio superiore dei LL.PP., componente la Commissione di collaudo; Curzio Batini, presidente della IV Sezione del Consiglio superiore dei LL.PP.; Almo Violin, ingegnere capo del Genio civile di Belluno; Dino Tonini, dirigente dell’Ufficio studi della Sade; Roberto Marin, direttore generale dell’Enel-Sade; Augusto Ghetti, esperto idraulico consulente della Sade. Nel corso dei lavori di istruttoria erano deceduti altri due imputati: Francesco Penta, componente del Consiglio superiore dei LL.PP. e componente della Commissione di collaudo; Luigi Greco, presidente del Consiglio superiore dei LL.PP. e presidente della Commissione di collaudo della diga del Vajont.
La requisitoria del pubblico ministero consta di 496 pagine dattiloscritte suddivise in un preambolo – contenente l’elenco degli imputati, i capi di imputazione, l’elenco di morti e feriti –, la descrizione dello svolgimento del processo, la cronistoria del bacino del Vajont suddivisa in cinque periodi, i riferimenti al diritto con le posizioni dei singoli imputati, la giurisprudenza di merito, l’analisi dei singoli reati imputati, gli elementi di colpa, la prevedibilità dell’evento, le responsabilità degli imputati, il dispositivo finale.
L’originale della requisitoria si trova nell’Archivio processuale Vajont, di cui è titolare l’Archivio di Stato dell’Aquila, ma che ora è temporaneamente depositato nell’Archivio di Stato di Belluno per la digitalizzazione di tutti gli atti processuali nell’ambito della ricerca Archivio diffuso del Vajont.
La collocazione archivistica è la seguente: Archivio di Stato dell’Aquila (provvisoriamente in Archivio di Stato di Belluno), Archivio Vajont, Serie I. Tribunale di Belluno. Ufficio istruzione, b. 34. Si trascrivono le pp. 69-75, 77-83.
(m.r.)
n. 818/63 P.M., n. 85/64 G.I.
PROCURA DELLA REPUBBLICA. BELLUNO
Requisitoria nel procedimento penale contro:
1) Biadene Alberico, 2) Pancini Mario, 3)Frosini Pietro, 4) Sensidoni Francesco, 5) Batini Curzio, 6) Penta Francesco, 7) Greco Luigi, 8) Violin Almo, 9) Tonini Dino, 10) Marin Roberto, 11) Ghetti Augusto)
imputati
a) disastro colposo aggravato di frana; b) disastro colposo aggravato di inondazione; c) omicidi colposi plurimi e lesioni colpose.
In Longarone ed Erto Casso il 9 ottobre 1963
P.M. [Pubblico Ministero] Arcangelo Mandarino
Belluno 22 novembre 1967
Premessa
Il 9 ottobre 1963, alle ore 22,39, un’enorme frana di roccia di circa due chilometri quadrati di superficie e di circa 260 milioni di metri cubi di volume, da anni in movimento sulle pendici del Monte Toc, strappati gli ultimi vincoli che la trattenevano, precipitò, con un boato, nel bacino idroelettrico del Vajont, invasato a quota 700,42 e raggiunse la sponda opposta urtandovi contro e risalendola, in alcuni punti, per circa 100 metri.
L’effetto idraulico di questa enorme massa di materiale che investì il lago artificiale fu un’ondata gigantesca di circa cinquanta milioni di metri cubi di acqua, carica di materiale solido in sospensione, che, sollevatasi sino a circa 230 metri di altezza, ricadde paurosamente riversandosi in parte verso il lago ed in parte oltre la diga.
Quest’ultima parte, di circa 25 milioni di metri cubi, irrompendo tumultuosa nella stretta gola del Vajont, percorse, in soli quattro minuti, circa 1.600 metri e, nel silenzio della notte autunnale, espandendosi nella quieta e pianeggiante valle del Piave, investì i ridenti paesi di Longarone, Rivalta, Pirago, Villanova, Faè, la sponda di Fornace, i borghi di Castellavazzo e di Codissago, la cartiera posta allo sbocco della gola, distruggendo ogni traccia di vita e mutando la geografia della zona.
Sulle sponde del lago l’ondata colpì le località Pineda, San Martino, Le Spesse e risalì fino al passo di S. Osvaldo, distrusse case, borghi ed altre vite umane.
La massa idrica che tracimò la diga si presentò sulla stessa con una fronte alta circa 130 metri; precipitò quindi nella profonda e stretta gola del Vajont colmandola quasi completamente e raggiungendo un’altezza di circa 150 metri, tantoché allo sbocco sul Piave si presentò con un’altezza di quasi 70 metri. Nella Valle del Piave l’acqua, preceduta da uno strano vento gelido, si espanse a ventaglio, investendo frontalmente Longarone ed il versante destro della vallata. Infine tutto rifluì verso Sud, lungo il corso del Piave, in un’enorme onda di piena, presentandosi a Ponte nelle Alpi e Belluno con portate valutabili a 4-5.000 metri cubi/sec. e altezza dell’acqua 12 metri cubi circa.
Il livello del lago residuo di Erto risultò aumentato da quota 700,4 prima della frana a metri 712, con un volume accresciuto di circa 20 milioni di metri cubi.
Dal ciglio della diga allo sbocco della valle del Vajont la fronte dell’onda di piena impiegò 4’ (dalle 22,39’ alle 22,43’) per percorrere 1.600 metri. Dallo sbocco della valle del Vajont al ponte di Soverzene sul Piave l’onda di piena percorse 7.500 metri in 21’ (dalle 22,43’ alle 23,04’).
Imponenti furono gli effetti morfologici dell’onda che esercitò una vasta e generale azione abrasiva, dapprima sul versante destro del bacino, poi, col suo riflusso, su parte della massa franata.
Delle opere umane (edifici, strade, ecc.) resistette soltanto la diga, denudata della strada di coronamento e degli edifici circostanti. Mise a nudo la roccia in posto con l’asportazione della vegetazione, del suolo e di parte delle coperture moreniche e detritiche.
Nella gola del Vajont l’effetto erosivo fu eccezionalmente potente, tanto da asportare grandi blocchi di roccia dai pilastri e setti rocciosi che sostenevano le gallerie parietali della strada Longarone-Erto.
Il greto del Piave allo sbocco della gola del Vajont venne ampiamente scavato dall’onda, che creò un’enorme depressione occupata, nelle prime settimane dopo la frana, da un ampio specchio d’acqua. Disastroso fu l’effetto erosivo sul versante destro del Piave, con la completa distruzione di abitati e manufatti e con l’asportazione del terreno e dei detriti fino a mettere a nudo la sottostante roccia viva.
L’enorme ondata provocò circa 2.000 vittime, e isolò completamente la zona colpita a causa delle interruzioni stradali e ferroviarie oltre che di quelle telefoniche e telegrafiche.
Insieme con gran parte dell’abitato di Longarone furono cancellate del tutto la linea ferroviaria, per un tratto di circa 2 chilometri, della ferrovia Padova-Belluno-Calalzo, con gli impianti e fabbricati della stazione, sita ad immediato contatto del paese, ed una parte della strada statale n.51, detta di Alemagna, di cui fu asportato tutto il tratto attraversante il paese con i due tronchi di accesso, per un’estensione di Km 4. Detriti, piante, cadaveri, giunsero fino all’altezza di Termine di Cadore, che dista dal Vajont circa quattro chilometri contro corrente del Piave, verso Nord e, verso Sud, lungo tutto il corso del fiume sino al mare. Tali furono l’impeto, la forza, la velocità, la violenza di questa immane tragedia. Nei sei apocalittici minuti che videro Longarone scomparire dalla faccia della terra si compì una catastrofe che forse non ha uguali nel suo genere. Tremende furono le conseguenze sulle cose, ma infinitamente più angosciose e terrificanti quelle sulle vite umane.
Per giorni e settimane non si riuscì a contare il numero delle vittime.
Quella tragica e terribile notte richiamò verso la zona colpita la fraterna sollecitudine di tutto il popolo italiano. Una mirabile gara di solidarietà si determinò e fin dalle prime giornate successive alla catastrofe vennero manifestazioni di pietà umana alle creature che, nella notte, forse senza neppure rendersi conto della tragedia, avevano perduto la vita.
Venne dato conforto ed aiuto ai superstiti, ai feriti, ai profughi, agli emigrati accorsi nella vana speranza di ritrovare i loro cari.
Come significativa rappresentanza del popolo italiano i soldati di ogni arma e corpo, diedero coraggio agli scampati e ai profughi, soccorsero i feriti, trassero fuori dal fango e dalle macerie i morti e diedero loro sepoltura, ripristinarono i servizi pubblici più urgenti, attuarono i primi lavori necessari all’immediato ristabilimento dei più indispensabili collegamenti.
Innumerevoli le espressioni ed attestazioni di solidarietà giunte da tanti altri Paesi.
Dolore, commozione e sgomento per la catastrofe, pietà per le vittime, solidarietà per i superstiti furono le prime espressioni dei sentimenti di tutto il popolo italiano, seguiti subito da dubbi angosciosi e da imperiosa esigenza di verità e di giustizia. Era prevedibile tanta catastrofe? Alla stregua delle previsioni possibili potevano essere presi provvedimenti validi per evitare il disastro? Vi fu imprudenza nella drammatica gara tra l’uomo e la natura? Legittima era l’attesa di sapere se duemila persone, fra i quali circa duecento bambini, erano morti in pochi minuti per un evento imprevisto ed imprevedibile oppure per un evento prevedibile ed evitabile. […]
Svolgimento del processo
La notte del 9 ottobre 1963, circa un’ora dopo il disastro, l’Autorità Giudiziaria era sul luogo della sciagura e, assunte le prime sommarie informazioni, iniziava le indagini ed impartiva le disposizioni più urgenti per l’assistenza agli scampati e il recupero e l’identificazione delle salme.
Poco prima di mezzanotte il Procuratore della Repubblica, avvertito telefonicamente dell’avvenuto disastro, partì immediatamente alla volta di Longarone. A Ponte nelle Alpi già affluivano i primi reparti di truppe alpine; a Fortogna la strada era interrotta; il Piave rumoreggiava rabbioso; l’aria era stranamente gelida.
Proseguendo, in mezzo a macigni, fango, tronchi, rottami, si scorgevano, al lume delle torce elettriche, i primi cadaveri che la furia della acque, calmandosi man mano, lasciava ai margini del suo percorso devastatore.
[…] Alle prime livide luci dell’alba le proporzioni del disastro apparvero nella loro agghiacciante realtà apocalittica.
L’opera di soccorso, estremamente difficile, venne subito affrontata con una grande mobilitazione dell’Esercito, della Polizia, dei Vigili del Fuoco, giunti sollecitamente da ogni parte.
Commovente l’instancabile durissima attività svolta per settimane dall’Arma dei Carabinieri e dai soldati, impegnati soprattutto nella penosa ricerca dei corpi delle innumerevoli vittime profanate dalla furia dell’acqua e dal mare di fango e di macigni che avevano cancellato ogni segno della natura e dell’opera umana.
L’Ufficio della Procura della Repubblica dovette, senza indugio, affrontare, con la notoria scarsità di personale e di mezzi, situazioni di estrema gravità e prendere solleciti provvedimenti, specie per la raccolta e la identificazione delle salme, valendosi della collaborazione di tutti i magistrati del circondario e dei Nuclei di Polizia Giudiziaria.
Vennero istituiti tredici centri di raccolta lungo le zone rivierasche del Piave e venne disposta la presenza, in ogni centro, di Carabinieri o Agenti di P.S. per provvedere, sotto la direzione del Pretore competente, al rilievo fotografico e alla numerazione progressiva di ogni salma.
Si procedette altresì alle ispezioni cadaveriche, a repertare e descrivere gli oggetti rinvenuti e alla identificazione che, in un primo tempo, furono in misura molto esigua a causa della mancanza di parenti o conoscenti in luogo e data la necessità, per evidenti ragioni igieniche, di provvedere alla pronta sepoltura dei cadaveri che venne, infatti, al più presto autorizzata.
Tale lavoro, senza soluzione di continuità, si protrasse ininterrottamente per più giorni e più notti e si svolse in condizioni estremamente difficili, per mancanza di uomini e mezzi, tra salme collocate in ogni luogo ed in mezzo all’andirivieni di una folla di persone in angosciosa ricerca dei propri congiunti o conoscenti.
Intanto il problema del riconoscimento delle salme si aggravò in considerazione del numero sempre crescente dei cadaveri che venivano rinvenuti ovunque e della necessità della loro sollecita tumulazione.
Si provvide allora alla costituzione ed organizzazione di un ufficio riconoscimenti salme, funzionante in alcuni locali del palazzo dell’Amministrazione provinciale.
In un vasto salone vennero esposte, in appositi quadri, le fotografie delle salme recuperate, corredate dei dati relativi ai segni particolari e alle caratteristiche somatiche con la descrizione degli oggetti repertati. Avvenuto il riconoscimento da parte dei congiunti, le dichiarazioni venivano verbalizzate e trascritte su apposita scheda corredata da copia della fotografia della salma.
L’iniziativa, oltre che di grande utilità pratica, si dimostrò subito di altissimo valore umanitario nell’ambito dell’assistenza ai superstiti, i quali poterono avere il conforto di ricercare e, spesso, di identificare le salme dei loro cari scomparsi, senza dover vagare per i vari centri di raccolta ed evitandosi così il pericolo di temute e possibili infezioni epidemiche.
L’intenso afflusso a tale ufficio di congiunti e conoscenti delle vittime consentì la raccolta di notizie idonee alla identificazione di moltissime salme e alla compilazione dei verbali a norma dell’art. 145 dell’Ordinamento di Stato Civile.
Si provvide inoltre al completamento dei fogli notizie e fascicolazioni per ogni singola salma; alla risoluzione – anche mediante esumazione – di contestazioni di identità dei defunti; alla trasmissione di avvisi di decesso per la redazione degli atti di morte; agli accertamenti degli aventi diritto alla restituzione degli oggetti repertati.
La eccezionalità del tragico evento fece sorgere altri numerosi e gravi problemi nei settori più disparati, non strettamente giudiziari: problemi prospettati da enti pubblici, privati e da superstiti, e a tutti, a seconda dei casi, fu data soluzione o suggerimento.
Sul piano più strettamente processuale, ancora il 10 ottobre venne disposto il sequestro di tutti gli atti e documenti, comunque attinenti alla costruzione ed esercizio del bacino idroelettrico del Vajont, esistenti presso gli uffici dell’Enel-Sade di Venezia, presso il Ministero dei LL.PP., presso il Genio Civile e le Prefetture di Udine e Belluno, presso i Comuni di Erto Casso e Longarone.
L’operazione, eseguita dagli organi di Polizia Giudiziaria, portò all’acquisizione di un numero rilevantissimo di documenti.
Si procedette, contemporaneamente, all’escussione di numerosi testi, raccogliendo, tra le altre, le deposizioni dei dirigenti dell’Enel-Sade e dei consulenti, dei componenti della Commissione di Collaudo, del Dirigente della IV Sezione del Ministero dei LL.PP., degli ingegneri e prefetto di Udine e Belluno.