di Alberto Cavaglion
Ci siamo rivolti al nostro amico Alberto Cavaglion per la nostra tradizionale strenna di fine anno (tra l’altro Alberto ci ha fatto notare che quest’anno Hanukkah coincide con il periodo natalizio).
Cavaglion ci ha permesso di riprendere e rielaborare due saggi – scritti a quasi 25 anni di distanza l’uno dall’altro – per ricavarne uno scritto originale. Letture, documenti e ricordi di famiglia per ripercorrere alcuni aspetti di un secolo e mezzo di storia degli ebrei piemontesi, tra primo Ottocento e Seconda guerra mondiale, seguendo il filo di piccoli spostamenti, di uomini e donne – tra case, botteghe e rifugi – e delle loro masserizie.
Come sempre quando pubblichiamo saggi lunghi, ne offriamo qui di seguito una breve anteprima, per leggere il testo integrale (illustrato da due documenti), cliccare qui.
Il torto di nascere ebreo diventò un diritto con Napoleone, poi tornò a essere un torto sotto Carlo Felice, per ritornare a essere un diritto con Carlo Alberto e di nuovo un torto con Mussolini. Infine il diritto venne riconquistato con la Resistenza e sancito dalla Costituzione della Repubblica. La storia degli ebrei in Italia è riassumibile in questo processo di andate e ritorni: una vittoria di diritti che si affermano dall’alto (lo Statuto) o si conquistano dal basso (la lotta partigiana) e una sconfitta di torti che ritornano a ondate periodiche fino a esplodere, in forma traumatica, sotto il fascismo.
Sbaglia chi ha visto nell’antisemitismo del Duce l’affacciarsi sulla scena di qualche cosa che non si era mai veduto prima, come una «scoperta» del XX secolo e non invece come il riaffiorare di un problema antico che la società liberale non era riuscita a risolvere del tutto. Il cammino verso la libertà degli ebrei si era già aperto e chiuso almeno due volte prima delle leggi razziali. Il tic tac del pendolo della libertà ci insegna che nella storia vi sono dei ritorni, spesso si mantiene un sostrato, nulla muta del tutto sotto il sole.
Nel nostro caso il sostrato è dato dalle case, dalle botteghe e dalle merci che queste case e queste botteghe contenevano.
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Sul confine
Le vite dei miei due nonni – il nonno paterno a Cuneo, quello materno a Vercelli – si assomigliano. Tutti e due commercianti di stoffe. Il fondaco del primo, Giuseppe Cavaglion, stava sotto i portici di via Roma, dove si affaccia la Contrada degli Ebrei (oggi contrada Mondovì). Il nonno materno, Aristide Segre, aveva rilevato a Vercelli un negozio simile su un lato di piazza Massimo D’Azeglio da cui è possibile ancora oggi vedere la facciata della sinagoga (lo aveva acquisito con grandi sacrifici dopo essere stato commesso si può dire dall’adolescenza). Entrambi saranno sradicati dalla loro casa e dalla bottega nelle stesse ore del novembre 1943.
La storia degli ebrei in Piemonte è riassumibile in questo andirivieni di persone, ma anche di cose: un partire per scelta, più spesso un partire per necessità, cui segue un ritorno degli esseri umani e delle loro cose personali. Partire, spostarsi, sì, ma senza andare troppo lontano, senza «dispatri». Per i miei nonni, che furono relativamente fortunati, ciò sarà valido anche durante il 1943-45, avendo avuto entrambi la sorte di trovare salvezza non lontano dalle rispettive città di nascita.
Le botteghe dei miei nonni erano lì da un secolo almeno: due finestre aperte sulla libertà, testimonianza di una fragile tregua fra due estremi di reclusione. L’uscita dal ghetto non era stata di per sé garanzia di sicurezza, tanto è vero che i loro antenati non se l’erano sentita di prendere il largo e allontanarsi dal luogo di origine. Pochi metri di distanza potevano bastare, il mare aperto incuteva soggezione, scarsa fiducia nell’avvenire (e forse anche nel prossimo).
In parecchi casi abbiamo notizia di una contiguità fra casa e lavoro: molte botteghe, specie quelle nei centri più piccoli, si affacciavano sulla strada principale, ma avevano una uscita secondaria dal retrobottega che rendeva agevole il rientro nel guscio, nell’antico ghetto che si trovava dietro la facciata della strada maestra.
Non è stata ancora fatta una ricerca mirata su questi micro-percorsi che portano dallo spazio angusto allo spazio aperto senza nemmeno attraversare una strada. Finalmente si poteva, dopo il 1848, lavorare all’esterno. Nessuno però aveva il coraggio di rompere i ponti con il passato. La libertà fioriva sul confine della reclusione: se ne ricava l’impressione di una intrinseca fragilità in un processo di emancipazione non pienamente consapevole. Forse c’era che quest’ultimo, così come era venuto affermandosi, aveva al suo interno qualche vizio di forma, non era pienamente ritenuto come un cammino verso l’abbattimento del pregiudizio antiebraico: ci si poteva fidare, ma solo fino a un certo punto.
La fragilità, in Piemonte, era alimentata dal ricordo: quello di una speranza tradita pochi anni prima. L’età napoleonica aveva aperto i cancelli, ma questi poi, finita la parentesi francese, si erano di nuovo fatalmente rinchiusi: chi aveva assaporato la gioia dello stare fuori insieme agli altri cittadini, all’improvviso era costretto a ritornare là dove a lungo era stato costretto ad abitare.
Le micro-migrazioni post-quarantottesche erano ancora in corso negli anni Venti del Novecento; ce ne sono segni piuttosto visibili in provincia, dove già per ragioni matrimoniali e famigliari fittissimi erano stati i trasferimenti da un piccolo ghetto all’altro. Per usare le parole di Paolo De Benedetti, «I nostri avi non avranno viaggiato da Minsk a New York, da Amsterdam a Smirne, ma da Asti a Vercelli sì»1.
Il fenomeno si riscontra nella capitale con modalità analoghe, ma con un itinerario ancora più breve, minimo, da una contrada all’altra, da un marciapiede a quello di fronte, da un portico all’altro. A Torino il mini-flusso produsse allora un gioco di onde sonore che si propagò lungo l’asse di via Po. Con un po’ di pazienza lo si può riascoltare. Appartenevano a nipoti e pronipoti del ghetto di piazza Carlina alcune botteghe di via San Francesco da Paola, che Antonio Gramsci scoprirà appena arrivato a Torino dalla Sardegna: via Po, nel secondo Ottocento e ancora nel primo Novecento era la balconata elegante di alcuni commercianti che avevano avuto la possibilità di voltare le spalle al cortile e ai cunicoli del ghetto, ma continuavano ad avvertire come indispensabile il senso di sicurezza, di protezione che quei cunicoli, quei cortili avevano per lungo periodo offerto.
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Nota
Questo testo è il frutto della rielaborazione di porzioni di due saggi scritti a distanza di circa 25 anni l’uno dall’altro:
– Torino ebraica 1943-45: paesaggio con figure, in Cattolici, ebrei ed evangelici nella guerra. Vita religiosa e società (1939-1945), Franco Angeli, Milano 1999 [Atti del convegno Comunità religiose, guerra e resistenza 1939-1945. Cattolici, ebrei ed evangelici nella provincia di Torino (Torino, 23-24 febbraio 1995)], pp. 108-117 (intervento dedicato alla memoria di Giuseppe Greco).
– Micro-migrazioni e metamorfosi possessorie nel Piemonte della Restaurazione, relazione tenuta al convegno Lingue e migranti nell’area alpina e perialpina occidentale (Torino, 25-26 gennaio 2018), organizzato nell’ambito del progetto SALAM (Subalpine and Alpine Languages and Migrations), Università di Torino.
Gli Atti del convegno del 2018 sono di imminente pubblicazione presso le Edizioni dell’Orso (Alessandria). L’Autore tiene a ringraziare Alessandro Vitale e Matteo Rivoira (Atlante Linguistico Italiano, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Torino) per il loro invito.
Le illustrazioni comprese nel testo integrale riproducono:
– «Denuncia al Comando militare germanico», Cuneo, 15 novembre 1943 presentata da Giuseppe Cavaglion (Archivio Famiglia Cavaglion)
– Dichiarazione firmata Amedeo Cassina (Vercelli, 10 gennaio 1944) (Archivio comunale di Vercelli, fondo EGELI, fasc. «Segre Aristide»)
- Paolo De Benedetti, «E in quel giorno tu racconterai a tuo figlio». La provincia ebraica e i suoi testimoni, in Meraviglie del ghetto. Arte e cultura ebraiche in Emilia Romagna, catalogo della mostra (Ferrara, 20 settembre 1988-15 gennaio 1989), Mondadori-De Luca, Milano-Roma 1989, p. 13. [↩]
redazione sito sAm dice
Segnaliamo l'uscita del volume Lingue e migranti nell’area alpina e subalpina occidentale, a cura di Michela Del Savio, Aline Pons, Matteo Rivoira, Edizioni dell'Orso, Alessandria 2019, che contiene il saggio di Alberto Cavaglion, Micro-migrazioni e metamorfosi possessorie nel Piemonte della Restaurazione (pp. 61-74), una delle due fonti alla base del presente saggio Uscite di sicurezza.