di Marco Toscano
Torna a scriverci il nostro amico Marco Toscano, prendendo spunto dal ricordo di Elisabetta De Poli che abbiamo pubblicato qualche giorno fa.
13 novembre 2011
Cari di storiAmestre,
bello ritrovarsi dopo tanti mesi: voi che riprendete ad aggiornare il sito, io che riprendo la penna (si fa per dire) per scrivervi.
In questi giorni, anche dalle mie parti si ricordano alluvioni “come se fosse ieri” proprio mentre ne capitano di nuove, terribili, che fanno morti – se capisco bene, a Pellestrina non ce ne furono nel 1966 –, travolgono esistenze, case e ricordi, lasciano macerie e fango e puzza, come ricorda Elisabetta De Poli. Mi è tornato subito in mente anche l’articolo che avete pubblicato qualche anno fa, di Orietta Vanin, e anche quello di Giorgio Foradori. Insomma l’esperienza è quella.
“Ecco, secondo un regolamento della fine del XVII secolo, le precauzioni da prendere quando la peste si manifestava in una città. Prima di tutto una rigorosa divisione spaziale in settori: […] suddivisione della città in quartieri separati, dove viene istituito il potere di un intendente. […] Se sarà assolutamente necessario uscire di casa, lo si farà uno alla volta, ed evitando ogni incontro. Non circolano che gli intendenti, i sindaci, i soldati della guardia […]. Ciascuno è stivato al suo posto. […] Alle porte, posti di sorveglianza; a capo delle strade sentinelle”.
Scusate, la mia mania di cercar nei libri e di citare. Questo è un brano di Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, (nell’edizione Einaudi, Torino 1976, pp. 213-214).
Questo per dirvi che quel che mi colpisce del ricordo di Elisabetta De Poli e del 4 novembre a Pellestrina sono i modi in cui si organizza il soccorso, che in primo luogo diventa dare un ordine a cose messe in disordine da una calamità. Dopo il gesto di gentilezza di un ragazzo, entrano in scena soldati, caserme e ordine marziale. Uomini da una parte, donne dall’altra; controllo dei movimenti della popolazione: si deve firmare per uscire dalla caserma anche solo per far la spesa. I familiari rimasti a casa non sono informati della destinazione di chi è andato con i soccorritori.
Poi c’è la questione dell’abbandono di Pellestrina: le calamità naturali favoriscono le migrazioni, e forse si potrebbe dire che sono utilizzate o almeno sono l’occasione per interventi urbanistici, per traslochi non spontanei. Ménego finisce a Marghera, ma non si trova bene: spaesamento; Elisabetta a Chirignago, dove rimane trent’anni; in entrambi i casi si pensa ad alloggi pubblici.
Non è quello di cui sentiamo parlare da anni dai terremotati dell’Aquila?
Spero che proseguiate la raccolta di ricordi e di testimonianze, e chissà che non ci sia occasione di risentirci presto.
Cordiali saluti
Marco Toscano
Antonio Grinton dice
Trovo interessante questo spunto dell’amico Marco Toscano sui dispositivi disciplinari durante le emergenze. Però pensando all’alluvione vicentina di un anno fa, che ho vissuto in prima persona, mi sorgono delle perplessità.
In quel caso i soldati arrivarono, ma secondo un’opinione piuttosto diffusa in città, fecero poco o nulla. Le istituzioni (Comune, protezione civile, pompieri) si adoperarono molto, ma non ebbero certo un ruolo egemone nella gestione nè dell’emergenza nè del post.
Sia tra una brentana e l’altra, sia nella ricostruzione, ad essere decisive furono le reti informali di amicizie, conoscenze, parentele. Fu grazie a questo tipo di solidarietà e di mobilitazione che la città superò rapidamente (per certi versi mi verrebbe da dire troppo rapidamente) l’emergenza alluvionale.
Se è vero, quindi, che in certi casi (i campi aquilani ne sono un esempio tristemente lampante) le emergenze diventano un’occasione d’oro per controllare e normare spazi e relazioni, forse in altri casi le cose sono un po’ più complesse. Mi domando se qualche volta le narrazioni ufficiali dei disastri e dei loro esiti non tradiscano un’ansia disciplinare che non si rivela poi essere, alla prova dei fatti, particolarmente concreta.