di Claudio Pasqual
È martedì 15 febbraio. Sono le sei meno cinque di sera. Scendo in strada per andare a una manifestazione. In realtà, per partecipare a un blocco stradale. Il “Comitato contro il traffico (inutile) in centro” ha chiamato i cittadini a protestare contro il comune per la situazione a suo dire intollerabile, per grado di congestione e inquinamento, nel quadrilatero delle vie Torre Belfredo-Circonvallazione-Einaudi-Giuliani. Lo ha fatto infilando nella buca delle lettere di ogni abitazione della zona un volantino con su scritti i motivi della protesta e tre numeri di telefono.
Chi era intenzionato a partecipare poteva chiamare: era un modo per contarsi, per verificare se c’erano forze sufficienti per muoversi. Mia moglie non ha esitato. Dall’altro capo del filo ha trovato una signora anziana, a giudicare dalla voce, garbata, dall’eloquio incerto (ci ho parlato anch’io, una volta). Nei giorni seguenti, poi, abbiamo ricevuto un paio di telefonate dagli organizzatori, per ragguagliarci sulle novità (l’assessore alla mobilità aveva disdetto un appuntamento, adducendo improcrastinabili impegni) e avere assicurazioni sulla nostra presenza. Confesso che nei giorni precedenti l’appuntamento mi sentivo a disagio. Non era una manifestazione che mi fosse familiare, la mia manifestazione; o meglio, non lo erano, per uno di sinistra come me, i motivi, le figure dei promotori e probabilmente dei partecipanti, le circostanze. Ho sempre avuto la sensazione che queste forme di mobilitazione si appiattiscano, al di là di certe dichiarazioni di principio, in una ottica così micro da trovare soddisfazione nello spostamento del problema nella strada accanto, quello che chiamerei “corporativismo vicinale” e che si usa oggi comunemente dire, con un’espressione che ha fatto fortuna, “non nel mio giardino”. Inoltre, avendo avuto occasione di assistere in precedenza ad iniziative pubbliche del comitato, avevo constatato i tentativi di manipolazione, per ragioni puramente strumentali, di forze politiche ansiose di aprire nuovi fronti polemici con l’amministrazione comunale.
A convincermi ad andare, però, erano state due cose. Per prima, il fatto che questa gente in sostanza avanzava come richiesta quasi unica l’attuazione di un provvedimento dello stesso comune di Venezia già approvato ma rimasto in buona parte lettera morta, e cioè il PUT (Piano Urbano del Traffico), il quale prevedeva l’apertura nel doppio senso di marcia del sottopasso all’inizio del Terraglio. Per seconda, che effettivamente la grande quantità di autobus e macchine, e le code in certe ore, la cattiva qualità dell’aria e il rumore assordante non sono un’invenzione, e questo ve lo dice uno che in via Einaudi (nel “rettangolo infernale”, secondo la definizione de “La Nuova”) ci abita. E comunque, ero curioso di vedere.
Sul posto c’è già una ventina di persone. Con il tempo, il gruppo si infoltirà, e diventeremo suppergiù una cinquantina. A occhio e croce, tutta gente dei paraggi, nessun “ospite”. Dall’aspetto, quasi tutto ceto medio, la qual cosa rispecchia il quartiere, un posto centrale, a due passi dalla piazza. Qualcuno lo conosco: ci sono l’ingegner A.P., uno dei leader del comitato; la mia collega S., insegnante e moglie di un avvocato, il cavalier P. e il signor B. che abitano nel mio palazzo, qualche negoziante. L’età media è piuttosto alta, c’è un buon numero di sessantenni e oltre, ma anche una mamma con la carrozzina e altre due con i figli di sette-otto anni per mano; di veramente giovani ci sono solo quattro ragazzine in preda a euforia da neofite, che parlano senza sosta in tono eccitato. Sono colpito dalle signore, così diverse dalle donne delle nostre manifestazioni, ma anche dall’ostentazione pacchiana vista in televisione a certe adunate forziste: sfoggiano un’eleganza discreta, le acconciature sono impeccabili, probabilmente fresche di parrucchiere, ma sobrie, si muovono con fare lento e composto.
Si comincia puntuali, alla confluenza di via Padre Giuliani con via Einaudi. Dopo circa un quarto d’ora, però, il grosso si sposta sull’attraversamento di via Einaudi dirimpetto al cantiere della fognatura. Inesperti forse, ma non sprovveduti: i vigili fanno proseguire le macchine dai Quattro Cantoni diritte verso via Pio X e così per via Giuliani non transita più nessuno. Con tale riposizionamento il gioco è fatto, si forma subito un serpentone di auto. Questi comitati del traffico sono gruppi seminformali, con un’organizzazione leggera e gerarchie ridotte al minimo. Anche così, hanno degli speaker, e le loro manifestazioni una regia. L’ingegner A.P. si distingue per il piglio autorevolee sicuro: scandisce inviti e disposizioni con voce ferma, incoraggia gli stanchi, sollecita i distratti; ascolta i discorsi, modera e corregge; fronteggia automobilisti e tutori dell’ordine nervosi.
La manifestazione è autorizzata, a sorvegliare che tutto vada liscio ci sono vigili urbani, tre poliziotti e due carabinieri. Comunque bisogna stare attenti. La cosa funziona così: siccome bloccare la strada è reato, allora bisogna attraversare tutti assieme di continuo sulle strisce pedonali, facendo la spola tra un marciapiede e l’altro senza fermarsi mai. Non è mica tanto facile. Intanto non ci si coordina e gli incroci sono continui, ci sono quelli che comunque si fermano distratti dalle conversazioni; due anziani sollevano sopra le teste un corto striscione con la scritta “Assessore inadempiente”, procedendo di traverso perché gli automobilisti lo leggano e stazionano perciò quasi ininterrottamente sulle zebre. È d’altra parte una protesta morbida, non oltranzista. A intervalli, si lascia passare un po’ di auto; c’è chi, non senza critiche, si preoccupa per i bus; un’ambulanza, anche senza sirena, non la si fa aspettare. I manifestanti sono però molto lesti a rimettersi in strada, e i più ardimentosi sono certi vecchi.
Con tutto ciò, non mancheranno i momenti di tensione. I vigili hanno un’atteggiamento rilassato e usano modi e toni quasi paterni, specie uno anziano, che ogni volta dice “beh, facciamo passare un po’ di auto adesso, su!” e roba del genere, e atteggia le braccia come il buon pastore che spinge il gregge nella giusta direzione. I poliziotti hanno un’aria distratta, sembrano essere lì per caso. La parte dei duri la recitano i carabinieri. A un certo punto un milite, che sfoggia un cipliglio che te lo raccomando, siccome uno dei tizi dello striscione non si sbriga a sgomberare la carreggiata, lo spinge da tergo con forza, alzando la voce. L’uomo si rivolta con veemenza, protesta, promette denunce. La fiammata però si spegne presto, si interpongono dei pacieri, con l’anziano che borbotta ma solo per un po’. Poi ci sono, ovviamente, quelli sulle macchine. Uno pensa, logico che non siano contenti, può capitare che certi si spazientiscano, anche che qualcuno perda l’autocontrollo. Effettivamente un paio di episodi capita. Una mamma scende agitata dall’auto e gesticolando quasi grida che l’aspetta il figlio all’asilo. Sono le sei passate: sarà un kindergarten privato che fa orario lungo. Passa subito. L’uomo dal collo taurino che vorrebbe lanciare la sua auto per ultima mentre la saracinesca della processione si richiude è costretto a una brusca frenata; alcuni manifestanti premono il cofano minacciosi, lui impavido sporge il busto dal finestrino e grida qualcosa che non sento, agitando il braccio. I vigili lo fanno fermare poco oltre e lo controllano ma mi sembra una cosa pro forma, per far stare buoni i manifestanti. Restano però episodi. La gente in macchina aspetta in fila, senza dar segno di nulla; solo verso la fine, per spirito gregario, comincia uno gli altri a seguire, suonano per un paio di minuti dei clacson.
Una manifestazione si connota e comunica anche attraverso slogan, canti, discorsi, e una simbologia appropriata. A questa tuttavia la parola è quasi estranea, inibita o segregata. All’esterno arrivano poche frasi, non dette però, solo scritte: sullo striscione e su piccoli cartelli che alcuni portano sul petto, dove sta scritto “Mognato, applica il Put” e “Lasciateci respirare”. Un’unica maschera antigas al collo di un signore si nota a stento. Credo si pensi che nell’azione stia il messaggio, e che sia sufficientemente chiaro anche così. Ma poi è anche questione del tipo di protesta prescelto. Questo moto pendolare spezzetta, disunisce i gruppi, rende difficile dialogare, dire e ascoltare discorsi. Perdo immediatamente mia moglie, quando ci incrociamo ci sorridiamo e basta.
A fianco e incontro ho sempre persone diverse. Anche così qualche frase, qualche scampolo di conversazione li capto. “Ti rendi conto che giri si devon fare, con questi sensi unici, per fare poca strada?”; “perché non si apre il sottopasso del Terraglio? perché è stretto, o perché il doppio senso darebbe fastidio ai padroni dell’hotel Sirio”; “prepotenti con i cittadini onesti, con i delinquenti avete paura” (ai carabinieri dopo le spintonate)”; “venerdì abbiamo appuntamento con l’assessore Mognato; se non ci soddisfa, da lunedì faremo blocco ogni giorno”; “speriamo”; “abbiamo socializzato” (questa mi ha colpito, bastasse così poco!). Ma ci sono anche i messaggi da fuori ai manifestanti. Il popolo in auto si distingue in “apocalittici”, come la mamma dell’asilo, e “integrati”, la cui opacità non sai cosa vela, se indifferenza, apatia o rassegnazione. Però spunta anche una terza categoria, i “propositivi”. Da un Ducato sporge un giovanotto e invoca secessione e rivolta: “Via da Roma”; “bisogna andare in comune e ribaltare tutto”. Una gentile signora obietta che qua l’ideologia non c’entra: nè stato centralista nè indipendenza padana, è una faccenda pratica. E’ un dialogo fra sordi. Quello continua a sbraitare. Fortuna che il celta guerriero se la filerà presto. iamo all’epilogo. Sento A.P. comunicare che venerdì prossimo il comitato ha un nuovo appuntamento con l’assessore alla mobilità. Alle sette, con la promessa di ritrovarsi per un’uguale iniziativa non assumendosi Mognato impegni certi e precisi, la riunione si scioglie e tutti facciamo ritorno alle nostre case.
21 febbraio 2005