di Carlo Levi, con una nota di Filippo Benfante
Per i nostri auguri di buon 25 aprile, quest’anno ricorriamo ad alcuni appunti che Carlo Levi scrisse nel giugno 1945, quando poté raggiungere il Nord Italia – Torino e Milano – quale inviato della “Nazione del Popolo”. Era condirettore di questo giornale, quotidiano del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, fin dai giorni della battaglia di Firenze (cominciata l’11 agosto 1944, la città fu interamente liberata a fine mese). Nell’esplosione di vitalità, nella vita “estremamente popolare” in cui si trovò immerso per un attimo a Milano, Levi vedeva il segnale di una “realtà” in atto. La guerra partigiana e l’esperienza democratica dei CLN avevano lasciato un segno indelebile, non si sarebbe tornati indietro. Il tirannicidio che mancava alla storia d’Italia (ovvero l’esecuzione di Mussolini) segnava un “taglio netto” con il passato. A distanza di pochi anni, nelle pagine dell’Orologio, Levi avrebbe riconsiderato quella sicurezza; ma non cambiò la sua opinione su ciò che furono – per un breve momento, ma per davvero – quei giorni che oggi mettiamo sotto l’etichetta di 25 aprile.
La guerra partigiana, con il suo complesso di attività e di modificazioni, che hanno inciso sulla vita non soltanto di coloro che stavano sui monti, ma nella popolazione intera, ha lasciato in tutti un segno che non si cancella; è stata una grande esperienza collettiva, e, a parte il suo valore bellico e politico, è stata una scuola di autogoverno, una tangibile dimostrazione di democrazia. Chi non si rende conto di questo, e vagheggia impossibili ritorni a una «normalità» prefascista, o, al contrario, senza valutare quello che è avvenuto, sogna palingenesi da avvenire, al solito, in un indeterminato futuro, non tiene conto della realtà. Il carattere estremamente popolare della vita milanese che colpisce anche l’osservatore che si fermi agli aspetti esteriori delle cose, questo mescolarsi di uomini e donne di tutte le classi, questo vivere in strada, non sono che uno dei segni esterni di questa realtà.
C’è il rovescio della medaglia, ci sono le insufficienze e le miserie di una situazione difficile, gli errori di eccesso o di difetto, gli squilibri dovuti alla divisione del paese, per ragioni obiettive e per la politica a settori praticata purtroppo dagli alleati, ecc. Ma un fatto è certo: una rivoluzione del costume è avvenuta, un taglio netto separa l’oggi dal passato. Il sangue dei capi fascisti, il distributore di benzina di piazzale Loreto è stato un simbolo benefico e non dimenticato di questa frattura. Esso pone tutte le cose su un’altra prospettiva, le fa vedere con altri occhi. Non importa se talvolta impedisce anche di vedere (il Dittatore di Charlot, per esempio, questa singolare e alta opera d’arte, qui a Milano è stato male accolto, e criticato perché, si dice, dopo Buchenwald e piazzale Loreto esso sembra inopportuno). Potrà per un certo tempo soffrirne la poesia, finché gli animi siano ancora tesi, e gli interessi rivolti tutti alle costrizioni quotidiane: ma non vi è in questo nessun male: si ritrovano le cose, dopo anni di prigione. Gli uomini della Resistenza sanno ormai di poter governare, e di doverlo fare, nell’interesse comune. Ferruccio Parri, il capo della Resistenza, è presidente del Consiglio, e ha fatto sentire, nei suoi primi discorsi, una voce, un tono morale, veramente nuovi; e perfino una forma nuova di eloquenza civile.
Che cosa sia, politicamente, questa novità, cercherò di dire altra volta, quando tornerò, nei prossimi giorni, in questa capitale del Nord, dopo questo primo passaggio fuggevole, e mi ci fermerò più a lungo. Ora lascio Milano e i suoi balli estivi: l’automobile mi aspetta per portarmi a Torino.
Nota. Si riprende il testo da Carlo Levi, La strana idea di battersi per la libertà, a cura di Filippo Benfante, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2003, pp. 138-139, dove è stato pubblicato per la prima volta in assoluto. Gli appunti risalgono ai giorni intorno alla nomina di Ferruccio Parri a Presidente del Consiglio (21 giugno 1945).
Una prova di autogoverno
Nel testo Levi richiamava giudizi che aveva già formulato nei mesi precedenti. Nell’articolo Morte dei morti (“La Nazione del Popolo”, 30 aprile 1945) definiva l’esecuzione di Mussolini e degli altri gerarchi fascisti, tra Dongo e Tremezzina, “il primo fatto in tutti i sensi esemplare delle vicende italiane di questi ultimi anni. Esso segna l’assoluto distacco dal passato, la fine di una crisi”; “Gli uccisori di Mussolini hanno compiuto un’opera storicamente, e moralmente, e direi quasi esteticamente, perfetta”: né patibolo, né linciaggio, una semplice esecuzione. Mentre scriveva a Firenze, Levi forse non aveva avuto modo di ricevere notizie precise su quanto era accaduto precisamente al “distributore di benzina di piazzale Loreto”, quel che risulta comunque è che non ne parlò; e come abbiamo visto, nei suoi appunti successivi – poi rimasti inediti – incluse il rito del vilipendio al corpo del tiranno nei simboli benefici della auspicata frattura nella storia d’Italia.
L’uccisione “oscura” di Mussolini portava a compimento la Liberazione, che nel frattempo si era impantanata a Roma: “È finita la nauseante commedia romana e l’inganno di una Restaurazione sotto falsi panni democratici; di una falsa epurazione, rispettosa o ostruzionistica; di una falsa libertà formale e di una falsa giustizia legalitaria. La nuova classe politica italiana, uccidendo i capi fascisti pone le premesse per la sua nuova legalità. I morti di Dongo e di Tremezzina sbarrano la porta in faccia alla Restaurazione. Qualche cosa è finita per sempre, e non potrà risorgere mai più”.
La morte di Mussolini significava la fine della pratica del compromesso, di aggiusta: né “vendetta, né l’applicazione farisaica di un diritto: è stata la prima prova completa della capacità di autogoverno del popolo italiano” (tutte le citazioni da Levi, La strana idea di battersi per la libertà cit., pp. 122-125: 124, dove per un refuso qui corretto si legge “Tremezzino”).
È possibile che pochi mesi dopo, quando alla fine dell’estate 1945 si era trasferito da Firenze a Roma, Levi si sia trovato a ridiscutere dell’esecuzione di Mussolini con Umberto Saba. Tra le prime scorciatoie del poeta, datate febbraio 1945, c’è Storia d’Italia (cito dall’edizione Umberto Saba, Scorciatoie e raccontini [1945], a cura di Silvio Perrella, Einaudi, Torino 2011, p. 8):
“Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuta in tutta la sua storia – da Roma a oggi – una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d’Italia in poche righe.
Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani… […]
Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli”.
Smentita per un breve momento della primavera 1945, questa scorciatoia ha potuto riprendere subito il suo posto nella storia dell’Italia repubblicana.
Il Dittatore di Charlot
Del celebre film di Charlie Chaplin Levi aveva scritto sulla “Nazione del Popolo” già il 28 ottobre 1944, giorno anniversario della marcia su Roma, fatalità: la “prima” era stata il 27, ai cinema Edison e Gambrinus, primo spettacolo alle 9, ultimo alle 18,40, c’erano problemi con l’energia elettrica, restava il coprifuoco. Nei suoi Appunti sul «Dittatore» Levi guardava a quella rappresentazione con le lenti della Bibbia e della psicanalisi, ovvero attraverso quella interpretazione di totalitarismo e dittatura che aveva dato nel suo saggio Paura della libertà, allora ancora inedito (sarebbe uscito nel 1946), ma appunto anticipato – per via di temi, immagini, lessico – sulle pagine della “Nazione del Popolo”. Così chiudeva la sua recensione: “Quest’opera d’arte, fatta prima della guerra, ha un valore di liberazione. Il più atroce dei drammi, quello che stiamo ancora vivendo, vi si ritrova trasfigurato in una vicenda fuori del tempo. Il contrasto fra la nostra natura di partecipi alla tragedia contemporanea e quella di spettatori potrà forse sconcertare; e può parere veramente strano che Hitler e Mussolini, questi oggetti di propaganda, questi grumi indeterminati di una paura collettiva, possano essere divenuti anch’essi oggetti di poesia. Ma nella vicenda biblica del bene e del male, del peccato e della grazia, c’è forse posto anche per loro” (cito da Levi, La strana idea di battersi per la libertà cit., pp. 71-76: 75-76).
A Firenze, come altrove nell’Italia liberata, la distribuzione del Dittatore fu curata dal Psychological Warfare Branch, l’ufficio alleato incaricato della propaganda e della “rieducazione” politica. Tra gli spettatori fiorentini del film ci fu Eugenio Montale, che alcuni anni dopo espresse le sue perplessità: “Quando quella geniale parodia poté comparire in Italia, alla nostra ammirazione si mescolò un senso di delusione profonda, non senza una certa ingiustizia verso i meriti innegabili del film. Giunta a noi troppo in ritardo, quella farsa sfiorava un po’ grossolanamente fatti e sentimenti che per gli italiani e i tedeschi avevano cessato di essere semplicemente grotteschi […] a commentare l’altezza della tragedia erano ormai inadeguati i lazzi di Charlot” (Eugenio Montale, Consigliò agli Stati democratici di attuare la politica dello struzzo, “Il Corriere d’informazione”, 11-12 novembre 1948, ora in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1996, pp. 766-772: 768). Si capisce che le obiezioni al film che Levi trovò a Milano erano grosso modo dello stesso tenore (a margine: non è da escludere che negli appunti del giugno 1945, il secondo riferimento di Levi a piazzale Loreto, di seguito a Buchenwald, riguardasse non lo scempio dei cadaveri di Mussolini e di Claretta Petacci, ma l’uccisione dei partigiani avvenuta nello stesso luogo il 10 agosto 1944).
Elogio della ghigliottina
Nell’Orologio, uscito nel 1950, la fiducia di Levi nella palingenesi e in quei balli estivi risultava svanita già nell’autunno 1945: la fine delle grandi speranze coincideva con quella del governo Parri.
Nelle pagine del suo libro Levi rievocava il difficoltoso viaggio per Milano nell’estate 1945, l’arrivo in città e i “balli estivi”; erano i suoi pensieri (o quelli del personaggio narratore) mentre “Fede” e “Roselli” discutevano della situazione politica. Quei balli erano danze che “continuavano senza interruzione, come se una forza miracolosa reggesse i muscoli di quelle ragazze, che pure avevano, per tanti mesi, mangiato così poco”; continuavano, tra le macerie della città distrutta dai bombardamenti, anche dopo che tutte le luci s’erano spente, al chiarore della luna: “i milanesi ballavano, abbracciati e confidenti come se fosse la prima notte del mondo. Quando il cielo si ingrigì per l’alba del giorno nuovo, ancora vagava per l’aria lo scalpiccio cadenzato dei piedi, e il suono delle fisarmoniche e dei violini”. Ma alle impressioni del giugno 1945 si aggiunge una conclusione amara: “«Non si può sempre ballare», pensavo vagamente, ascoltando i piani e le interpretazioni politiche di Fede e di Roselli” (cfr. Carlo Levi, L’Orologio, Einaudi, Torino 1990, p. 68, ma si veda tutto l’episodio pp. 66-68).
Eppure, Levi continuava a rivendicare quello che era stata la Resistenza e l’esplosione di vita al momento della Liberazione riandando ai circa dodici mesi tra il 1944 e il 1945 trascorsi nella vita attiva a Firenze. L’immaginario del tirannicidio (in questo caso spostando il bersaglio da Mussolini a Vittorio Emanuele III: regicidio quindi) e della rivoluzione tornava al momento di rievocare la missione dei dieci rappresentanti del CTLN che, nel novembre 1944, scesero a Roma per chiedere l’abolizione dei prefetti: “ciascuno, portando quel cahier de doléances, si sentiva investito di una specie di missione storica, proprio come fosse il rappresentante di un nuovo Stato che andasse a trattare con gli ultimi resti di un antico regime, con gli ultimi ministri di un re, a cui il meno che potesse capitare era di dover essere ghigliottinato in piazza di Grève” (ivi, p. 189, ma si veda tutto l’episodio, pp. 188-191).
La missione fallì, come si sa, e nel 1950 questo esito tornava come prima frattura, decisiva, nel racconto della palingenesi nazionale attraverso la Resistenza; pertanto la delusione per gli esiti del dopoguerra tornava a essere proiettata all’indietro, fissandola al novembre 1944. Era quella delusione che il 30 aprile 1945 sembrava essersi dissipata, come si legge nelle righe dell’articolo Morte dei morti riportate sopra. Sia per questo motivo, sia per ragioni narrative (in quel punto, novembre 1944, “i dieci” non avevano ancora visto la fine della guerra in Italia), l’analogia storica non considerava il 25 aprile ma rimandava al 14 luglio 1789, e al 21 gennaio 1793, data della decapitazione di Luigi XVI.
In questa analogia non mancavano peraltro echi di un articolo che Piero Gobetti aveva pubblicato nel novembre 1922, da considerare forse come una delle più lontane ispirazioni che Levi poi riversò in Paura della libertà: quell’Elogio della ghigliottina che tutti ricordano soprattutto per la definizione di fascismo come “autobiografia della nazione”. In un contesto e in un clima del tutto differenti, a meno di un mese dalla marcia su Roma, Gobetti negava che del fascismo si potesse parlare come di una rivoluzione, al contrario era un facile accomodamento, una (per molti) rassicurante semplificazione della realtà, ideologia astratta al posto dell’“imprevisto della realtà”. E rivendicava la necessità di radicalizzare la vita politica e sociale italiana e dichiarava la guerra civile, augurandosi che la ghigliottina finalmente fosse eretta anche in Italia:
“il fascismo è stato qualcosa di più, è stato l’autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco. Confessiamo di aver sperato che la lotta tra fascisti e socialcomunisti dovesse continuare senza posa: e pensammo nel settembre del 1920 e pubblicammo nel febbraio scorso «La Rivoluzione Liberale» con un senso di gioia, per salutare auguralmente una lotta politica che attraverso tante corruzioni, corrotta essa stessa, pur nasceva. In Italia, c’era della gente che si faceva ammazzare per un’idea, per un interesse, per una malattia di retorica! […]
C’è stato in noi, nel nostro opporsi cieco, qualcosa di donchisciottesco. Ma nessuno ha riso perché ci si sentiva una disperata religiosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo. E bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo”. (Piero Gobetti, Elogio della ghigliottina, «La Rivoluzione Liberale», I, 34, 23 novembre 1922, p. 130, ora consultabile online).
Quella libertà durò poco, ma fu reale
Nel 1950, per Levi la Firenze del 1944-45 restava “quella città dove tutti parevano ancora vivere nell’atmosfera vivificante della Resistenza, e non si pensava esistesse differenza fra i politici e la gente comune; ma ciascuno faceva quello che faceva con naturalezza, in un mondo indipendente e senza compartimenti stagni, nelle fabbriche, sul lavoro o nel governo locale del Comitato di Liberazione. Quella libertà attiva e creativa durò, come tutti i miracoli, assai poco, ma allora era reale, e si poteva toccarla con la mano e vederla scritta sul viso degli uomini” (Levi, L’Orologio cit., p. 31, ma si veda tutto l’episodio, pp. 30-31).
È una questione che riguarda anche noi, nel momento in cui continuiamo a commemorare quella data, uno di quei momenti reali ma poco duraturi, in cui tutte le possibilità sono aperte ma subito si richiudono. Come Levi nel 1950, sappiamo che il 25 aprile 1945 oggi è in un luogo lontano come il 14 luglio 1789, l’assalto alla Bastiglia e la decapitazione del re, consegnato alla storia e alla riflessione storiografica; ma pensiamo che tuttora possa proiettare le infinite possibilità che conteneva in un futuro da immaginare.
Ringraziamenti
Anche una breve nota come questa prevede spostamenti, tagli, ripensamenti, aggiunte, riscritture. Ho potuto approfittare dell’aiuto dei miei compagni della redazione di storiamestre.it: Piero Brunello, Andrea Lanza e Enrico Zanette. (fb)