Maria Giovanna Lazzarin intervista Aldo Antole
Il 9 marzo 2019 Maria Giovanna Lazzarin ha intervistato ancora Aldo Antole a proposito della sua esperienza di lavoro presso la ditta Paolo Morassutti, nei primi anni Ottanta, quando l’azienda attraversava un periodo di crisi e si avviava alla chiusura. Scoprendo che questo esito fu legato a uno dei più grandi scandali della storia della repubblica italiana: le manovre del faccendiere Michele Sindona.
Le insegne dei negozi Morassutti, specializzati in ferramenta e oggetti per la casa, fanno parte dei paesaggi urbani che ricordo. Per decenni spiccarono in molte città e cittadine, soprattutto in Veneto, ma anche in molti altre regioni italiane. Sapevo che Aldo Antole aveva lavorato per quella ditta nei primi anni Ottanta, e l’ho intervistato mossa da due curiosità: che cos’era la Paolo Morassutti a Belluno, nel Veneto e oltre; perché a un certo punto, invece di sviluppare i suoi bei negozi, scomparve. Oggi la Morassutti è ricordata come una impresa all’avanguardia e una capostipite degli attuali grandi “centri bricolage”.
(mgl)
Maria Giovanna Lazzarin (MGL): A Belluno la Morassutti dov’era?
Aldo Antole (AA): Morassutti era sulla statale che porta da Belluno a Ponte nelle Alpi, poco distante da Guarnier, dall’altra parte del centro commerciale Mega, che allora non c’era. Erano 3000 metri quadri complessivi. Nella parte di testa c’era il negozio al dettaglio, poi magazzini per deposito merci, un magazzino interrato, una lista di uffici sopra. Nella parte finale c’era il magazzino del ferro da costruzione per l’edilizia, che quando sono arrivato era già chiuso da due-tre anni. Non commerciavano più quel tipo di materiale. La parte mediana era occupata da profilati di alluminio che venivano venduti ai serramentisti che li trasformavano in porte e finestre. Non aveva molto terreno intorno: davanti una lista di 20-25 auto possibili, per il parcheggio di chi si recava al negozio, la parte laterale per i camion carico-scarico. L’immobile difficilmente sarebbe stato trasformato in centro commerciale proprio per la scarsità di parcheggio anche se c’era allora un grande prato attiguo (adesso non più), ma di proprietà di altri.
MGL: In che anni hai lavorato per la Morassutti?
AA: Sono stato là dal settembre 1981 all’agosto 1983. Ero il gerente provinciale, responsabile del negozio di Belluno, di quello un po’ più piccolo a Feltre, e di due venditori: uno per i profilati di alluminio, l’altro per utensileria e ferramenta a fabbri, artigiani e imprese della provincia, che visitavano una volta ogni due mesi, facendo la nota: “Quanto ti serve?” “5 badili e 10 picconi”.
Invece l’ingrosso dipendeva da Padova e il venditore era un po’ in conflitto con l’attività che facevamo noi, perché andava a vendere le stesse merceologie ad altri negozi, non Morassutti, che poi vendevano al pubblico. Per questo le due linee di vendita erano nettamente separate.
Sono andato là perché mi era stato detto che per la mia “potente” carriera mi mancava il contatto diretto col pubblico. Fino allora avevo magari gestito la rete di vendita in Bristot1, ma la gestione della merceologia direttamente col pubblico non l’avevo mai fatta. Siccome da Bristot dovevo andarmene (non mi piacevano i personaggi che giravano fra le scrivanie), mi sono trovato questo posto.
MGL: Ti rendevi conto che la Morassutti era in crisi?
AA: Ricordo che quando sono andato da Morassutti abbiamo sentito i profumi, che poi sono diventati più concreti, ma le difficoltà dell’azienda non erano molto palesi. Certo cercavo di capire se andavo a finire in un’azienda decotta, ma mi sembrava in quel momento che le vicissitudini di cui in parte aveva sofferto l’azienda negli anni precedenti fossero finite. Il fratello di mia moglie era stato commesso là, come pure il marito di mia sorella, l’azienda era storia per molta gente, anche amici miei; molti, che poi sono diventati personaggi importanti di Luxottica2 e Costan3, erano stati dipendenti di Morassutti, avevano fatto la gavetta, la scuola lì. Mi pareva un avvio facilitato, perché conoscevo questo, conoscevo quello. Era vicino a casa, i soldi erano ok, per me era ottimale, quindi ho detto: “Va bene, vado, son qua”.
MGL: Ma non era più dei Morassutti, aveva solo il nome?
AA: Anche l’ultima busta paga che ho ricevuto – settembre 1983 – è intestata Paolo Morassutti. E mi ricordo di aver sempre ricevuto carte Morassutti. Però i Morassutti avevano terminato la loro gestione credo dieci anni prima, quando sono entrato io era Proprietà Pacchetti4.
Una ditta innovativa e ben organizzata
MGL: Che impressione ti ha fatto quando sei andato a lavorare lì?
AA: Ho trovato un’azienda ben organizzata. Quando ero stato da Guarnier, 4-5 anni prima, la parte del magazzino era gestita meccanograficamente: il preparatore passava dal magazzino, caricava un cartone di prodotto e lo metteva sul carrello insieme a una scheda perforata che era la memoria del cartone con la codifica di quello che aveva preso. Terminato di caricare, portava il suo pacchetto di schede al centro dove venivano lette in sequenza e da questo usciva la fattura immediata del cliente. Ogni settimana l’azienda aveva bisogno del tabulato del magazzino e per far questo due miei colleghi, quando il venerdì il magazzino chiudeva, prendevano tutte le schede che erano state utilizzate per far le fatture ai clienti, le mettevano ordinate in un grande cassetto e dovevano predisporle perché l’elaboratore le leggesse in sequenza. In due-tre ore venivano inserite tutte queste schede nella macchina – faceva un casino della madonna – che le leggeva e alla fine stampava il tabulato. Questa era la tecnologia nel 1975-76.
MGL: E quando cinque anni dopo sei arrivato in Morassutti?
AA: Quando sono arrivato in Morassutti ho trovato una capacità di gestire i dati con terminali collegati col telefono che non avevo visto fare altrove. La centrale era a Padova e attraverso linee telefoniche digitavano i dati per aggiornare quantità e prezzi dei negozi e dei magazzini. Si collegavano per un certo periodo di tempo, per due ore, il tempo per aggiornare il terminale – non come oggi che c’è sempre – e poi andavano in remoto.
Pensa che la Morassutti aveva 40-50.000 prodotti, ripartiti in reparti, Guarnier, per dire, ne aveva 4-5.000. Io ricevevo tutti i mesi attraverso il terminale dei prospetti che riportavano l’andamento delle vendite del mese chiuso. Facevamo il budget di previsione una volta all’anno, ripartito però con i valori mese per mese, reparto per reparto. Si trattava di una operazione doppia, perché prevedere il fatturato (quanto vendevi) significava anche prevedere quanto spendevi, prima, per comprare le merci.
Manifesto (cm 70×100) per vendita promozionale nel negozio di San Donà. Anni Sessanta. Disegno e realizzazione: Lalla Ramazzotti Morassutti.
MGL: Quanti negozi controllava Padova?
AA: Quelli del Veneto e del Friuli Venezia-Giulia me li ricordo tutti: Belluno, Feltre, Pordenone, Udine, Trieste, Rovigo, il magazzino di Padova, dove oggi c’è il centro Giotto, e un negozio in centro. Però, che mi ricordi, avevamo grossi negozi a Genova, Roma, Napoli e un negozio o due forse a Milano. Può darsi ce ne fossero altri, non so.
MGL: Come facevate a prevedere con sicurezza quanto avreste fatturato l’anno dopo?
AA: Con sicurezza no. Partivamo dal dato storico mese per mese, reparto per reparto e si faceva il budget mensile per l’anno a venire, ma si poteva anche modificare. Certo non oggi per il mese prossimo, però due-tre volte l’anno c’era una riunione in cui in virtù del trend di vendita fatto precedentemente e di quello che l’azienda intendeva proporre nei mesi successivi, si poteva aggiustare in più o in meno il budget futuro.
Manifestino pubblicitario, metà anni Sessanta. Si noti il logo della Morassutti a forma di palma.
Noi trovavamo delle difficoltà nel gestire i costi ai fini inventariali, anche perché alcuni reparti delle filiali erano stati chiusi e la merce rimasta era stata portata anche da noi; difficilmente sarebbe stata venduta, ma nessuno si fidava a dirlo. Ci davano valori assurdi, poco tagliati per valorizzare la merce al momento della vendita. Allora ho fatto 4-5 incontri con l’addetto ai costi per trovare qualche soluzione.
A me non interessava svalorizzare il prezzo di vendita, ma avere l’autorizzazione di Padova a svalorizzare il costo, perché la mala gestione era che autorizzavano il prezzo inferiore, ma nel riepilogo mensile a volte mi trovavo il segno meno perché – pur autorizzato – risultava che avevo venduto sottocosto! Quindi ero fritto e me la prendevo sui denti.
La strana storia dei chiodi
AA: Un ordinativo di chiodi mi ha creato per due volte problemi.
Avevamo un cliente, un’azienda di Sedico, che a quel tempo faceva spedizioni rilevanti di battiscopa in Oriente, non quelli attuali che si attaccano col silicone; una volta si attaccava sotto il battiscopa una specie di battuta in legno, lunga come il battiscopa, fatta a cuneo seguendo la curvatura del battiscopa. Ad attaccarsi al muro non era il battiscopa ma questo substrato di legno che veniva inchiodato con un chiodo di acciaio lungo tutta la muratura. Dopo di che con una vitina veniva addossato al legno il battiscopa.
La prima volta viene questo cliente: “A noi servono i soliti…”
Perché era un cliente di lunga data, ogni tanto gli veniva da fare quest’ordine e ordinava sempre uno o due pallet di ‘sti chiodi. Il valore era rilevante, trenta milioni di lire di allora, perché erano chiodi di acciaio inossidabile.
“Benissimo, bon!” Facciamo un’ipotesi di consegna, tra l’altro non avevano fretta. Normalmente ci volevano due mesi per avere ‘sti chiodi. Tutto contento faccio l’ordine, le ragazze lo caricano.
L’indomani mattina: ordine rifiutato.
“Come, ordine rifiutato! trenta milioni de ciodi ritorti! Perché non podemo andare avanti?”
“Qua dice che lei ha superato il budget e non può far l’ordine”.
“Come?!”
Telefona a tutto il mondo, parla con Tizio, Caio, Sempronio: “Volete che dica al cliente che vada da un’altra parte?”.
“No, no! Perché non ci ordina quattro cartoni di chiodi al mese?”
“Ma questi devono fare una nave, mettono dentro 18 milioni di metri di ‘sto battiscopa e i pallet di chiodi, o glieli diamo, senò molarghela!”
Volevano che garantissi io che il cliente alla fine pagava, perché si trattava di una somma non indifferente. Alla fine le due volte che mi son serviti me li hanno dati, però siamo diventati matti per portare a casa ‘sto ordine dei chiodi.
MGL: E perché?
AA: Scombussolavano il mio budget, perché non potevo immaginare fin da prima che avrei avuto bisogno di quei chiodi in quel mese. L’ordine era talmente strano e particolare che prevederlo diventava difficile.
Questo problema dello sforamento del budget non era continuo solo perché quando c’era qualcuno che aveva bisogno di qualcosa di particolare o su un settore particolare, se eravamo sotto budget gli dicevamo subito di sì, altrimenti facevamo tutto quello che serviva per spostarci al mese successivo in modo da non scombussolare il budget medesimo. Per fortuna non si trattava di roba deperibile e alle volte anche il cliente si adattava.
“Hai bisogno delle pialle, te ne do due adesso, le altre otto il mese prossimo”.
Anche noi dovevamo ordinare la roba, anche noi potevano inventarci una giustificazione.
Però se non andava bene lo spostamento della merce da una parte all’altra, il giorno dopo c’era qualcuno che telefonava. Non si sfuggiva.
Informazioni commerciali della Morassutti per i dettaglianti (anni Cinquanta?).
MGL: Come mai questo rigore?
AA: Questo l’ho imparato dopo. All’inizio, da contabile, mi son detto: “Sarà un criterio di gestione: qui cari ragazzi bisogna contar gli spilli, adattiamoci a contar gli spilli”.
Ma non era così. I ferri molto stretti erano dovuti alle difficoltà aziendali. Era pacifico. Sapevamo che Morassutti era di proprietà della Pacchetti e che le difficoltà le aveva non tanto la Pacchetti, ma la banca che era proprietaria della Pacchetti, la Banca Privata, quella di Michele Sindona…
Dal punto di vista societario erano con l’acqua alla gola, quindi cercavano di gestire il danaro interno, anche gli acquisti e per comprare le merci da vendere bisognava trovare i soldi. Quindi la gestione del budget era ferrea non per ragioni contabili, ma perché se mancavano delle lire non ti davano più lo stipendio.
L’ho capito dopo, ma era troppo tardi, ormai ero dipendente, avessi saputo prima gli avrei detto: “No, no, stae dove son che nisun m’ha mandà via!”.
Arriva in ditta un signore ciarliero
MGL: E poi come è proceduta questa situazione? Tu sei stato due anni.
AA: Sia la Banca Privata sia la Pacchetti, che era la quotata in borsa, erano finite in liquidazione e il primo liquidatore, quando sono entrato in Morassutti era già stato accoppato: era l’avvocato Ambrosoli. Ne era stato nominato un altro.
Il liquidatore secondo me è la testa pensante che amministra il tutto, il quale nomina un consiglio di amministrazione soggetto a lui per le controllate come la Morassutti. Anche gli amministratori erano non dico delle teste di legno, ma della gente messa lì per guardare i numeri. Noi ci chiedevamo sempre che cosa era accaduto alla Pacchetti, che cosa ha fatto nel mese scorso la Pacchetti, dove stiamo andando, qual è il futuro, perché se si salva lei, forse ci salviamo anche noi, ma se lei fa acqua…
MGL: E non veniva mai nessuno di questi signori in azienda?
AA: Io ho incontrato un tale che si chiamava Miceli o Michieli5 il quale ha visitato i negozi di proprietà, quelli che col senno di poi potevano subire trasformazioni.
Dopo ho capito chi fosse e dove doveva andare a parare la testa.
Questo signore era un tizio ciarliero, parlava a destra e a manca, ha fatto la visita dello stabilimento, ha visto gli esterni, gli ho fatto notare che c’era il prato libero a quel tempo. Son sicuro che il signore che è venuto quel giorno, seppur autorizzato dal liquidatore – perché è venuto accompagnato dal mio superiore – era molto ben istruito dal Sindona, che cercava di portarsi a casa questo, quello, quell’altro. Le informazioni che aveva, il modo che aveva di comportarsi… anche se questa gente, è vero, millanta anche credito.
Secondo me questi personaggi convivevano con la parte di liquidazione, forse promuovendosi come consulenti, altrimenti il liquidatore era in difficoltà. Sindona, fino alla fine, fino quando è stato messo in carcere in Italia [nel 1984], sapeva che c’era un liquidatore, che non era lui a comandare, però aveva creato anche dei personaggi che gli tiravano il filo ed erano congeniali al suo disegno sulle società che aveva costruito: la banca, la Pacchetti, due tre società che erano all’interno di questa tra cui la Morassutti.
Fin quando lo hanno messo via e basta, anche quando era in carcere riusciva a dire: “Fate questo, fate quello!”. E lo diceva con l’interesse futuro.
MGL: Secondo te questo personaggio era interessato a sviluppare l’azienda?
AA: No, può darsi che facesse da tramite per vedere se c’era un interesse a comprare questi immobili, dopo di che attraverso gli amici degli amici li avrebbe proposti a qualcuno.
Per quello di Belluno aveva detto subito: “Mi sembra difficile”.
E lì ha fatto il nome di Sindona: Sindona gli aveva detto che la cosa non doveva essere fatta immediatamente, doveva essere fatta trovando le corrette strutture per farlo.
Alla fine a loro interessavano le aree dei magazzini di Padova e Udine, perché si trattava di due grandi città, la collocazione era giusta e in seguito hanno costruito due centri commerciali. A Padova ora c’è il centro Giotto.
MGL: Come è andata a finire ‘sta storia?
AA: Come è andata a finire? Un anno-due dopo che me ne sono andato la Pacchetti, proprietaria di Morassutti e anche di altre aziende, viene venduta a un immobiliarista romano, ma sono convinto che tutte queste cose, uno solo le ha gestite, non Sindona perché alla fine stava in carcere, ma gente sua, ne son convinto. Questo era un uomo che, seppur in difficoltà, è andato in America, si è autorapito, si è persino fatto sparare su una gamba per simulare questo. Le prova un po’ tutte. Era siciliano e sicuramente aveva le mani in pasta con le famiglie siciliane, era a contatto con mafiosi come Gambino, ma aveva rapporti anche con persone ammanicate col sistema economico.
Alla fine quello che ha comprato gli immobili lo ha fatto perché qualcuno gli ha detto: “Va bene, comprali”. Questa è la mia convinzione.
MGL: E il negozio di Belluno?
AA: L’immobile non è stato dichiarato interessante per questo tipo di operazione, l’hanno messo in vendita. L’attività e la parte del negozio sono state cedute ai dipendenti di Belluno e Feltre che hanno costituito una cooperativa. Mi avevano anche contattato per dirmi: “Torna qua!”
“E no che no torno!”
Quando un commesso è anche proprietario la situazione è diversa, non basta amministrare, bisogna anche condividere. Da quel che so, si sono avute anche discussioni tra dipendenti e tra dipendenti e la parte sindacale che li aveva aiutati a mettere insieme la cooperativa.
MGL: Questa cooperativa che nome aveva?
AA: CLM, Cooperativa Lavoratori Morassutti. Il negozio ha chiuso 7-8 anni fa. Nel corso degli anni molti dipendenti e commessi sono usciti da Morassutti e hanno fatto svariati negozi in giro. Uno di questi è ancora attivo a Cavarzano [frazione del Comune di Belluno]. Era fatto da due dipendenti di Morassutti che a loro volta hanno venduto ad altra gente che gestisce ancora il negozio. Due hanno aperto a Limana (Belluno).
Quel che mi sento di dire dei lavoratori e anche della cultura che Morassutti dava ai suoi dipendenti, è che c’era un’alta professionalità, precedente al mio arrivo. Alla fine, una volta che ho imparato che ero finito in una pentola a pressione, li ho visti in un modo diverso, perché erano tutti impensieriti dal loro futuro e impauriti. E questa professionalità ha aiutato molti a costruirsi nuove carriere.
Nota. Le immagini che illustrano l’intervista sono tratte dal volume Una famiglia e un caso imprenditoriale: i Morassutti, a cura di Giorgio Roverato, Neri Pozza, Vicenza 1993, su cui ritornerò in un’altra occasione.
- L’azienda Caffè Bristot viene fondata a Belluno nel 1919. Oggi è proprietà di WEDL & Hofmann GmbH, un importante Gruppo internazionale che opera nel settore alimentare. [↩]
- La Luxottica è un’azienda multinazionale che produce e commercializza occhiali, fondata ad Agordo nel 1961 da Leonardo Del Vecchio. [↩]
- Costan, marchio storico del gruppo multinazionale EPTA, è una società leader nella fornitura di attrezzature frigorifere per la refrigerazione commerciale. Una sua importante fabbrica ha sede a Limana (BL). [↩]
- La Pacchetti assunse il controllo totale della Paolo Morassutti nel maggio del 1972. Cfr. Giorgio Roverato, Una famiglia e un caso imprenditoriale: i Morassutti, in Una famiglia e un caso imprenditoriale: i Morassutti, a cura di Giorgio Roverato, Neri Pozza, Vicenza 1993, p. 119, il saggio alle pp. 15-130. [↩]
- Che si trattasse di Joseph Miceli Crimi, medico di fiducia di Michele Sindona e suo stretto collaboratore, che lo aiutò nel finto rapimento del 1979? Nella sua introduzione alla nuova edizione di Nick Tosches, Il mistero Sindona, trad. di Giulia Bontempi e Alda Carrer, Alet, Padova 2009 (prima ed. it. SugarCo, Milano 1986), Gianni Barbacetto descrive Miceli come un «tuttofare» di Sindona. [↩]