di Piero Brunello
Pubblichiamo l’intervento che Piero Brunello ha tenuto il 5 maggio 2016 durante il settimo seminario Ascoltare il lavoro, organizzato dall’Università di Ca’ Foscari, CGIL, Ires e Associazione Italiana di Storia Orale (AISO): una lettura del libro di Alessandro Portelli, Badlands (2015), dedicato al rock di Bruce Springsteen. Qui con l’aggiunta di un post-scriptum.
1. Chi mi ha invitato sa che io penso che la ricerca della verità sia una faccenda dialogica, con un certo gusto per il paradosso e il ricorso alla digressione. E così farò io, divagando attorno ai temi proposti dal libro di Alessandro Portelli, Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni1, con un occhio al titolo di questo seminario, che parla di lavoro, classe e colore. Del resto cos’altro potrei fare con due studiosi degli Stati Uniti (cosa che io non sono) come Portelli e Nando Fasce? Inoltre, a differenza di molti altri qui presenti, non sono nemmeno particolarmente fan di Springsteen.
2. Una definizione del libro di Alessandro Portelli potrebbe essere questa: è un libro su Bruce Springsteen scritto da un fan, ma con le note a piè di pagina. “Va bene, sono un fan, non sono un critico o non lo sono abbastanza. Mi sono entusiasmato e commosso – ma, come dice Umberto Eco, se ti trovi dentro una macchina fatta per entusiasmarti e commuoverti, devi essere proprio scemo se non ti commuovi e non ti entusiasmi” (p. 89). In realtà l’A. vuole dirci un’altra cosa, e cioè che se non ti commuovi e non ti entusiasmi rimani scemo e non puoi fare le note a piè di pagina come si deve. Prima ancora di analizzare un tema, questo libro indica un atteggiamento: l’obiettività e la serietà di una ricerca non sta nell’equidistanza o nell’assenza di un punto di vista, ma nel riconoscere il proprio angolo di visuale e la natura del proprio coinvolgimento politico, culturale e sentimentale.
Come un fan, l’A. partecipa ai concerti, e ne descrive la sequenza rituale ma anche i sentimenti di chi vi partecipa, il clima emotivo che li accompagna. Riti di preparazione: “Traffico fermo, la città impazzita, una coda di chilometri sul raccordo anulare. C’è Bruce Springsteen alle Capannelle. Per fortuna un amico mi ha tenuto libero un posto macchina sotto casa sua – a quasi due chilometri dall’ingresso dell’ippodromo”. Immedesimazione personale con l’artista: «Quando finalmente arrivo, come se mi aspettasse, mi accoglie con “Badlands”». Rapporto carismatico dell’artista con il pubblico: “È il Bruce Springsteen di protesta che dà il tono alla serata. […] Siamo arrabbiati, siamo felici, e non c’è contraddizione”. Invidia per un ragazzino che Bruce Springsteen fa salire sul palco. Fusione nella folla: “Sto in piedi da quattro ore, ho una certa età, mi fanno male le gambe, mi calpesto e mi sgomito nella ressa, il palco lo vedo a mala pena” eccetera (pp. 63-65).
Proprio perché l’A. rivela il proprio coinvolgimento, il libro può essere letto anche come un’autobiografia, con particolare riferimento al rapporto dell’A. con la cultura nordamericana e con la musica. Nel libro compaiono la moglie e il figlio, ma anche queste due figure sono funzionali al processo di educazione sentimentale dell’autore (del resto, anche per lui, come per Bruce Springsteen, “un mondo più giusto comincia da un rapporto d’amore”, p. 128). Le canzoni di Little Richard e di Jerry Lee Lewis ascoltate a Los Angeles a diciotto anni nel 1960 gli comunicano “l’eccitazione” di sentirsi diverso dagli adulti. Contemporaneamente scopre la musica popolare con Pete Seeger, il primo Bob Dylan e Woody Guthrie (p. 4). Poi il ’68 e l’impegno politico. A quarant’anni (siamo negli anni Ottanta) compra The River alla Coop di Harvard Square e riscopre così “il potere del rock and roll” (pp. 4-5). Intanto si accorge de “la serietà della musica country”, quella che gli uomini cantano vestiti da cowboy, con tanto di cappelli e di stivali, e che tutti in quegli anni prendevano per fascista (pp. 5-6). Quando infine nel 2006 Bruce Springsteen con il cd We shall overcome rende omaggio a Pete Seeger e ne riprende il repertorio, l’A. sente come “se tutto si ricomponesse”, cioè come se tutte le fonti che avevano ispirato singoli momenti della sua vita si disponessero una accanto all’altra in un ritratto di famiglia – il folk di Woody Guthrie e di Pete Seeger, la country music di Hank Williams, il rock and roll di Elvis Presley, il western di John Ford, la poetica di Bob Dylan e la letteratura impegnata di John Steinbeck (pp. 6, 103). Le fasi di una vita diventano tutte compresenti e contemporanee, la diacronia diventa sincronia: e comincia a prendere forma questo libro che è “un’analisi tematica dell’opera di Bruce Springsteen, come se fosse tutta contemporanea” (pp. 8-9): contemporanea innanzitutto per l’autore, che privilegia alcuni temi a lui cari, e cioè «i temi del lavoro, dei rapporti di classe, e il loro impatto sulle identità e sul “sogno americano”» (p. 9).
Nel fare questo, Portelli racchiude in questo libro l’esperienza di una generazione – la nostra – che ha protestato contro la politica statunitense attingendo alle canzoni, ai libri e ai film statunitensi.
3. Una delle prime volte che ho incontrato Alessandro Portelli (eravamo credo nei primi anni Ottanta), gli chiesi come mai il movimento operaio nordamericano usasse la bandiera americana nelle manifestazioni. Alessandro mi rispose più o meno che faceva parte della cultura di quel paese. L’impressione che allora ebbi è che lo dicesse con aria rassegnata, allargando le braccia come per dire: è così, non possiamo farci niente; ed è anche come volesse aggiungere: se vuoi capirci qualcosa devi studiare, e molto, non ci sono risposte su due piedi. (Come tutti i veri maestri, Alessandro mostrava di saperne molto meno di quanto in realtà sapesse; aveva già scritto il libro su Woody Guthrie, che io però non avevo letto). Io non l’ho mai fatto, ma Alessandro non ha mai smesso di pensarci, e questo libro ne è una prova. Portelli è così diventato un mediatore culturale, tra due tradizioni di sinistra, quella nordamericana e quella europea e italiana: spiegando a noi che il sogno americano ha molte varianti, e ai suoi amici nordamericani che il fatto di essere born in the U.S.A. non li “garantisce di vivere nell’unica e migliore democrazia del mondo” (p. 85).
Ho preso in mano un numero della rivista I giorni cantati di più di trent’anni fa (n. 5, primavera 1984), e ho riletto (con più attenzione) l’articolo in cui Alessandro Portelli analizza i temi della country music, immortalata dal film Nashville di Altman. Ricordo bene l’effetto che mi aveva fatto il film: un capolavoro che raccontava una cultura trash – di massa e popolare assieme – fatta di famigliole e bandiere americane (e cioè di Dio, Patria e Famiglia); più tardi il film The Blues Brothers ne aveva fatto oggetto di riso. Portelli invece leggeva quelle canzoni dentro l’orizzonte delle aspettative culturali del loro pubblico, si chiedeva cioè a chi e perché piacevano (e piacciono). Una canzone di Merle Haggard (cappello da cowboy e stivali) dice: noi di Muskogee, Oklaoma Usa, non fumiamo marjuana, non portiamo sandali come a San Francisco, non ci facciamo crescere i cappelli, non bruciamo le cartoline precetto, da noi i ragazzi rispettano i loro insegnanti, noi siamo fieri di vivere liberi a modo nostro. Portelli scriveva allora: “Sono fiero di essere un Okie di Muskogee” – come dire, un burino della Sgurgola – cantava Merle Haggard: perché lì la gente è fatta di veri uomini in stivali di cuoio, che ha ancora i giusti sentimenti, rispetta l’autorità, sventola la bandiera al municipio”. Tuttavia la country music era l’unica a parlare delle condizioni della classe operaia, a parlare di lavoro e della vita delle famiglie lavoratrici (bianche). Portelli osservava (e il libro su Springsteen lo riprende) che il nazionalismo sciovinista di queste canzoni “non è l’espressione di una classe operaia integrata e soddisfatta, ma piuttosto l’espressione della sua alienazione, esclusione, impotenza” (p. 64). La country music, conclude Portelli, “è molto conservatrice: esprime nazionalismo, sciovinismo sessuale, fondamentalismo religioso, nostalgia, evasione, individualismo spesso retrivo, sentimentalismo a volte di bassissima lega”. Ma non ci si deve limitare al prodotto finito: “se è vero che il senso ultimo della country music è la negazione e l’eliminazione del conflitto, pure il conflitto è la materia di cui è fatta” (p. 67). Per concludere: “la cultura di massa è il terreno di un conflitto che è spesso truccato, ma resta sempre un conflitto e non un monologo” (p. 68).
4. Questo è un buon punto di partenza per parlare della poetica di Bruce Springsteen. Intanto perché Springsteen dichiara di aver preso ispirazione dai temi trattati dalla country music, in primo luogo “l’amara presa d’atto del fatto che la partita è truccata contro di te” (p. 101); e poi perché il tema ricorrente nelle sue canzoni è il sogno americano – precisamente un sogno disatteso, una promessa tradita. Born in the U.S.A., forse la sua canzone più famosa, esprime un “patriottismo sdegnato, deluso” (p. 73). Il suo personaggio “è offeso in quanto americano, perché l’America ha fatto ai suoi cittadini una promessa e non l’ha mantenuta, ha fatto balenare un sogno che continua a rinviare” (p. 72). In Springsteen ci sono richiami continui a promesse americane non mantenute (p. 126): per questo l’orgoglio per un lavoro che ti è stato portato via “si trasforma in dolore, in nostalgia – e in rabbia” (p. 118). Portelli conclude che il sogno americano non è solo “sciovinismo, nazionalismo, militarismo, colonialismo, razzismo” (p. 73), ma anche “solidarietà democratica e popolare” (p. 74).
Ci sarebbero molte cose da dire a proposito della funzione del sogno. Nel sogno gli antenati vengono a trovarci, il sogno ci rivela il significato di risvolti della vita quotidiana altrimenti incomprensibili, ci mette in guardia o ci predice il futuro: sognando l’avvenire il militante esorcizza la paura della morte… Sarebbero aspetti importanti da analizzare, ma quello che più conta, per rimanere nel nostro tema, è che il sogno americano, come scrive Portelli, si colloca dentro “l’universo del consumo” (p. 77): in altre parole il fatto che Springsteen nelle sue canzoni parli di “sogni che la gente non può realizzare” fa sì che della sua musica si possano appropriare sia politici come Reagan sia “pubblicitari che lo rivendono come un prodotto che può sostituire quei sogni, consolare per la loro perdita, riempire il vuoto che lasciano” (p. 77). Questo è vero, scrive Portelli: il simbolo americano è “un simbolo condiviso e conteso” (p. 69). Simboli condivisi e contesi permettono interpretazioni diverse e opposte. Nel rock and roll, scrive Portelli, “impulsi dal basso” e “dettami egemonici dall’alto” sono compresenti e si scontrano (p. 79). Springsteen e Sylvester Stallone esprimono entrambi lo stereotipo del maschio proletario americano bianco ed eterosessuale (almeno ai tempi di Born in the U.S.A.), ma ne rappresentano “versanti opposti”. “Con tutti i malintesi, le cadute, le ambiguità anche intenzionali, gli opportunismi, i cedimenti immaginabili. Ma la direzione è chiara” (p. 79). A partire da una certa data, le canzoni di Springsteen sono canzoni di protesta, spiegando in questo modo quello che nella prima fase della produzione artistica era implicito o non ancora sviluppato: il libro lo spiega nei dettagli.
Quando hanno un carattere condiviso, i simboli si prestano a interpretazioni molto diverse, a volte opposte. Questo succede nel caso dei simboli nazionali nella cultura americana, dove per “compensare l’umiliazione dello sfruttamento e dell’emarginazione” si risponde con l’orgoglio patriottico (p. 71). Ho ripreso in mano per l’occasione gli scritti di Dwight Macdonald, noto per aver diretto la rivista Politics. Nel 1967 Macdonald invitò alla disobbedienza civile con queste parole: “Non credo che le nostre tradizioni [statunitensi] siano giunte, o scese, a livelli di Lyndon B. Johnson. Ritengo che egli non sia rappresentativo del nostro paese”2. Difficile ritrovarne di uguali nella storia italiana, dove, al contrario, il fascismo sembra condensare la debolezza morale dell’intero paese. Ho pensato così alla tradizione del movimento operaio e dei movimenti di protesta in Italia, che non si sono mai appropriati sentimentalmente dei simboli ufficiali ma ne hanno fatto semmai oggetto di parodia e di controparodia. (Con tutti i distinguo e le oscillazioni, prima tra tutte la Resistenza; rimanendo nel campo della canzone, Viva l’Italia di De Gregori del 1979).
Portelli non ne parla in modo esplicito, ma tiene sempre presente il contrasto tra le due tradizioni culturali. A proposito di Springsteen che con la chitarra svisa l’inno americano per trasformarlo, come scrive un critico, da inno di guerra a “qualcosa di nuovo e di bello”, a differenza di quanto aveva fatto Jimi Hendrix a Woodstock che l’aveva dissacrato, Portelli scrive: “A me era sembrato che anche per Jimi Hendrix svisare l’inno non fosse tanto una dissacrazione ma una riappropriazione: l’America è nostra e suona come noi”. E aggiunge: “Ma a Woodstock non c’ero e probabilmente mi sbaglio”, per dire che è il contesto a decidere il significato.
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Fin qui i temi che mi sono sembrati più interessanti del libro. Alla fine, suggerisco tre argomenti di discussione, rivolgendomi a chi studia la storia, con un particolare interesse alla storia del movimento operaio.
Primo argomento. Se Bruce Springsteen fosse un uomo politico, sarebbe un socialdemocratico dei tempi del New Deal: così un commentatore americano con cui Portelli concorda (p. 179). Non è poco per gli Stati Uniti, ma resta che la posizione di Springsteen, se fosse un politico, appare una “modesta utopia” (definizione di Portelli): quello che fa di lui un ribelle è il rock and roll. Questo dice una verità sul rock and roll, e sulle capacità espressive della musica: “il rock and roll è la musica dei giovani ribelli che hanno smesso di essere giovani ma non di essere ribelli”, scrive Portelli nell’ultima pagina (p. 183). La festa per l’elezione di Obama è stata celebrata da un concerto di Bruce Springsteen e Pete Segeer che tra l’altro hanno cantato la canzone di Woody Guthrie This Land Is Your Land (titolo ambiguo, nota Portelli: la terra è tua perché tu le appartieni o perché lei appartiene a te?). Per la precisione fu Pete Seeger a convincere Bruce Springsteen, che sembrava restio, a cantare una strofa che di solito non si canta: «C’era un gran muro che cercava di fermarmi / e da una parte c’era scritto “proprietà privata”». Solo una canzone può permettersi di dirlo (p. 94).
Ma oltre a dire qualcosa sulla musica, questo dice qualcosa sulla politica: dice cioè che il linguaggio e i riti della politica non sono capaci di esprimere i sogni e di costituire una comunità. Con un suggerimento per chi studia Storia: non sopravvalutare il ruolo di quello che chiamiamo “politica”. Come ha scritto Aleksandr Herzen riflettendo sul Quarantotto e sulla rivoluzione, “per trasformare dei carcerati in uomini liberi non basta demolire fino all’ultima pietra la Bastiglia”3. Caso mai, quando si studia la politica, è bene chiedersi in che modo la politica e lo Stato si vengono costituendo come apparati autonomi, reificati e incontrollabili, proprio confiscando (ma anche utilizzando, plasmando e assorbendo) la capacità che gli individui hanno di organizzarsi e di dare vita a forme di associazione e di auto-organizzazione sociale, oltre che d’immaginare il possibile.
Secondo argomento. Nel libro c’è un paragone tra The River di Springsteen e Nina di Gualtiero Bertelli. La storia è uguale: fanno l’amore, lei è incinta, lui è disoccupato. Portelli osserva che la canzone di Bertelli finisce qui, perché è così che funziona il sistema e l’unica speranza è di abbatterlo, e quando questa speranza svanisce, non resta che la disperazione o il cinismo. Nel caso di Springsteen invece la canzone continua con la domanda: “ma un sogno è una menzogna se non si avvera, o è qualcosa di peggio?” (p. 167). Portelli sostiene l’importanza del sogno, non per il suo contenuto, ma perché ciò che ci tiene in vita è la capacità di sognare e di desiderare (ed è in questo che, dice, consiste la musica di Bruce Springsteen).
A me la canzone di Bertelli sembra prevalentemente di denuncia, e quella di Springsteen prevalentemente consolatoria. Ma non vorrei discutere di questo, bensì suggerire alcune riflessioni che ne derivano a proposito di movimento operaio, utopia e storia.
Il movimento operaio nasce con una speranza messianica: la notte sarà squarciata dalla luce del sole in qualche punto del futuro, e allora nascerà una nuova umanità. Il progresso tecnologico non aveva ancora reso possibile la fine della storia dell’umanità, che dalla bomba atomica in poi noi sentiamo invece come pericolo concreto. All’interno di questo schema, ci sono tuttavia più modi di vivere il rapporto tra militanza e attesa del futuro. L’attesa dell’Avvenire porta a giustificare i mezzi con il fine, e a sacrificare il presente al futuro: senza considerare che molte utopie sono autoritarie. Ma già nel Quarantotto l’esule russo Aleksandr Herzen osservava che una meta infinitamente lontana non era una meta, bensì una menzogna4. Inoltre questo schema non impedisce rivendicazioni concrete, anzi le promuove, perché, come scrivevano i primi giornali socialisti internazionalisti, “Non con la pazienza, ma con l’impazienza i popoli diventano liberi”5. L’utopia cioè non è il futuro a cui l’umanità è destinata, ma l’affermazione di una coscienza critica, la spinta al mutamento sociale, la ricerca del futuro nel presente, e il segno di una coerenza tra le cose che si dicono e quelle che si fanno6. Le parole di Addio Lugano bella di Pietro Gori “noi oggi t’accusiamo / in faccia all’avvenir” non sono un invito ad aspettare l’avvenire per veder realizzate le idee migliori dell’umanità, ma un modo per affermare che queste idee sono giuste anche se oggi sono messe al bando (come i compagni in esilio).
Riflettendo su Springsteen, Portelli parla della necessità del sogno, anche se non sapremo mai se quando il sogno non si realizza si tratta di una menzogna o di che cos’altro. Io direi le stesse cose ma con le parole di Howard Zinn, studioso e storico statunitense: “Non siamo totalmente liberi; tuttavia la nostra forza sarà massima se agiremo come se fossimo liberi”7. Oppure possiamo usare le parole del movimento pacifista europeo che negli anni Sessanta chiedeva il disarmo unilaterale: “Protesta e sopravvivi”8. Mi sembra che queste parole non siano in contrasto con l’invito a sognare: come il sogno che si trasforma in canzone diventa un’esperienza collettiva (“Siamo arrabbiati, siamo felici”), così la libertà individuale non può essere pensata al di fuori di una relazione sociale. Ma il richiamo alla libertà e alla protesta è un richiamo alla responsabilità individuale, che a volte nella storia può assumere una dimensione tragica.
Gli eventi della storia, come gli esiti del nostro comportamento, non sono né prevedibili né scontati: studiare la storia per credere. Con un ulteriore suggerimento: quando nei libri di storia si parla di eventi “inevitabili” (di solito guerre), assumendo così che i soggetti della Storia siano gli Stati, allora, come ha osservato Nicola Chiaromonte, si sceglie il punto di vista del Principe e ci si limita a discutere “l’accortezza tecnica” delle decisioni: mentre dovremmo prendere in esame «tutte le opinioni, o tutte le “utopie” e tutte le “metafisiche” possibili»9.
Terzo argomento. “Maledetti Okie”: così nel romanzo di Steinbeck, Furore, sono accolte in California le famiglie che arrivavano dall’interno alla ricerca della terra promessa. In risposta al disprezzo che subiscono, i braccianti in sciopero quando seppelliscono uno di loro (nel romanzo La battaglia, sempre di Steinbeck), che cosa fanno? Avvolgono la bara nella bandiera nordamericana, e chiedendosi da che parte mettere il campo stellato: Woody Guthrie fa più o meno la stessa cosa, ma con le canzoni. Questi richiami dovevano essere ancora ben presenti quando la country music esprimeva negli anni Settanta l’orgoglio proletario (e americano) di essere un Okie con gli stivali, nei confronti di chi portava sandali e capelli lunghi a San Francisco, ancora una volta la California. (La musica naturalmente non si esaurisce nella sola ideologia. Ci sono momenti in cui se si ascolta Listening to the wind di Merle Haggard ci si può commuovere: le parole – sentire il vento e parlare con un amico lontano o che forse non c’è più – e un giro elementare di accordi… insomma, funziona). In questa musica Portelli individua l’eco, per quanto distorto, di un conflitto tra alto e basso, tra classi sociali dominanti e classi sociali subalterne. Ma oggi? L’orgoglio proletario negli Stati Uniti, e non solo, non mi sembra rivelare un conflitto tra alto e basso, bensì tra dentro e fuori, cioè tra Protezionismo e Nazione contro Globalizzazione e Finanza. “Nei sobborghi ex operai, pullulano le bandiere americane. […] Ce l’hanno tutti con la concorrenza straniera […] e con gli immigrati”, osserva Portelli a proposito di una cittadina de-industrializzata dell’Ohio (p. 138). Da notare che il pubblico del rock and roll oggi è bianco. (Portelli: “i neri non ascoltano più il rock and roll”, p. 86). Sono ancora buoni, in questa situazione, gli schemi storiografici e politici fin qui utilizzati per raccontare la storia della classe operaia all’interno della storia nazionale e dentro le vicende del welfare, e immaginarne un futuro?
Negli anni Sessanta E.P. Thompson indicò, tra le origini culturali della formazione della classe operaia inglese, il mito dell’inglese nato libero. Quarant’anni dopo, la storiografia nata in seguito ai primi movimenti no-global ha spiegato come il mito dell’inglese nato libero sia l’esito della sconfitta del proletariato atlantico e delle sue parole d’ordine multietniche e universalistiche, in nome di interessi ristretti alla razza bianca e al carattere nazionale10. La classe operaia inglese, in altre parole, si costituì attorno al mito dell’inglese nato libero quando smise di sentirsi parte del proletariato atlantico e quando, contemporaneamente al crescere del razzismo nella società e al formarsi della categoria biologica di razza, “diventò nazionale”11.
Il mito americano cantato da Bruce Springsteen è un mito nazionale, che secondo Portelli può avere una versione nazionalistica e sciovinista (alla Ronald Reagan) e una patriottica e democratica (alla Pete Seeger). Ma è così? La variante patriottica è davvero, o lo è ancora, un argine alla xenofobia o può diventarne un tramite?
Nella canzone di Bruce Springsteen We are alive, una strofa dice. “Una voce gridava, io sono stato ucciso in Maryland nel1877 / quando i lavoratori delle ferrovie scesero in lotta; / io sono stato uccisa una domenica mattina a Birmingham, / e io sono morto l’anno scorso attraversando il deserto / dopo aver lasciato i figli a San Pablo”. Commenta Portelli: “Immigrazione, diritti civili, movimento operaio in una strofa”, per poi concludere che “le voci dalle tombe [perché è dalle tombe che ci parlano] ci guidano attraverso una storia americana di antischiavismo radicale, lotte operaie militanti, diritti civili, resistenza e rivolta, e ci chiamano a farne parte” (pp. 132-133). Ma riuscirà l’orgoglio degli Okie di Muskogee, l’orgoglio cioè dei discendenti di una classe operaia bianca che oggi vive di lavori precari, a farsi portavoce di quegli obiettivi appellandosi alla bandiera americana per esprimere la richiesta di diritti sociali? Portelli dice che la canzone We are alive rientra nella tradizione del patriottismo deluso: e se invece il richiamo agli operai del Maryland e alla donna immigrata dal Messico fosse l’inizio di nuove rivendicazioni, su basi non esclusivamente nazionali, di cui magari non Bruce Springsteen ma altri potranno farsi portavoce? Faccio fatica a pensare che l’industria culturale possa accettarlo: ma in fondo, se è riuscita a venire a patti con il rock and roll, perché no?
Lascio la risposta a Portelli, che conosce la cultura americana. Io posso dire qualcosa sulla tradizione della Sinistra italiana ed europea. I movimenti no-global che protestano contro l’ordine instaurato dalle organizzazioni finanziarie mondiali prendono una strada nazionale. (Mi hanno colpito le immagini in piazza Syntagma ad Atene nel corso delle proteste contro le misure di austerità imposte dagli organismi finanziari europei e mondiali: l’emblema del popolo in lotta era un uomo con un copricapo levantino e pugnale che neanche Lord Byron nel celebre ritratto caro al filoellenismo, il torero al suo fianco rappresentava il popolo spagnolo…). Quando gli operai e i disoccupati votano a destra, diciamo estrema destra, mi faccio tante domande: mi domando che cosa s’intende per democrazia, mi dico che una Sinistra dovrebbe per prima cosa diventare consapevole della propria responsabilità in questo sistema e rivedere radicalmente il proprio lessico e così via: ma non smetto per questo di pensare in termini di destra e di sinistra, e di riandare alle esperienze storiche che in tutti i paesi, non solo in Europa, hanno mescolato nazionalismo e socialismo. (Il fatto che Donald Trump sia appoggiato, a quanto pare, dalla classe operaia bianca e avversato dai Bush, non ci farà mica cambiare il giudizio su di lui e sulla sua politica?). Il canto dell’Internazionale, nato nell’esperienza della Comune, faceva appello alla “futura Umanità”: mi sembra tuttora un invito da prendere sul serio; e mi sembra che il libro di Portelli sia una buona occasione per farlo, e questo seminario un buon luogo d’incontro per discuterne.
Post-scriptum. In un saggio di quasi quarant’anni fa Alessandro Portelli scriveva che i simboli dell’immaginario statunitense successivo alla Seconda guerra mondiale “sono tre: la bomba atomica, la Coca Cola, il dollaro. Minaccioso il primo, tentatore il secondo, tessuto connettivo e interpretante condiviso da entrambi il terzo”12. Ora il primo simbolo trasforma il sogno in un incubo: penso naturalmente alle prime canzoni di Bob Dylan. Non mi pare però (Portelli non ne parla) che questo elemento sia presente nella poetica di Bruce Springsteen, che pure ha canzoni antimilitariste e nei primi anni Ottanta ha partecipato a concerti per il disarmo nucleare. Se non capisco male, per lui il sogno è una promessa, mai una minaccia. Se così fosse, mi piacerebbe capire che cosa possa significare: perché se dai nostri sogni scompare l’incubo della fine dell’umanità, questa sì che mi sembrerebbe una menzogna.
- Donzelli, Roma 2015, p. VI, 218. [↩]
- D. Macdonald, La necessità della disobbedienza civile, “New York Times Magazine”, 22 novembre 1967, ora in Id., Controamerica, introduzione all’edizione italiana di Claudio Gorlier, Rizzoli, Milano 1969, p. 341. [↩]
- Aleksandr Herzen, Dall’altra sponda, Adelphi, Milano 1993, p. 70. [↩]
- Herzen, Dall’altra sponda cit., p. 78. [↩]
- “La miseria” (di Natale Della Torre), 1881, cit. in Vittorio Foa, Il cavallo e la torre, Einaudi, Torino 1991, p. 11. [↩]
- Una discussione in A. Bertolo, Utopia. L’immaginario sovversivo, “A. Rivista anarchica”, XI, n. 93, giugno-luglio 1981, disponibile ora online: http://www.arivista.org/ [↩]
- Howard Zinn, Disobbedienza e democrazia, Il Saggiatore, Milano 2003, p. 374. [↩]
- Su questo rimando a un mio articolo di cinque anni fa: https://storiamestre.it/2011/05/protestaesopravvivi/. [↩]
- Nicola Chiaromonte, Che cosa rimane. Taccuini 1955-1971, il Mulino, Bologna 1995, ora anche in Id., Il tempo della malafede e altri scritti, a cura di Vittorio Giacopini, edizioni dell’asino, Roma 2013, p. 153. [↩]
- Penso al libro di Peter Linebaugh, Markus Rediker, The Many-Headed Hydra. Saylors, Slaves, Commoners and the Hidden History of the Revolutionary Atlantic, Beacon Press, Boston 2000; trad. it. I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, Feltrinelli, Milano 2004. [↩]
- Linebaugh, Rediker, I ribelli dell’Atlantico cit., p. 356 [↩]
- Alessandro Portelli, Elvis Presley è una tigre di carta (ma sempre una tigre), in Diego Carpitella, Gino Castaldo, Giaime Pintor, Alessandro Portelli, Michele L. Straniero, La musica in Italia. L’ideologia, la cultura, le vicende del jazz, del rock, del pop, della canzonetta, della musica popolare dal dopoguerra ad oggi, Savelli, Roma 1978, p. 68. [↩]