di Christian De Vito
Christian De Vito abita a Firenze in un piccolo immobile – tre piani sopra il pianoterra, facciata stretta, appartamenti che si sviluppano in lunghezza, verso l’interno – in una strada del quartiere San Lorenzo. Dalla finestra di casa che dà su una corte, osserva e racconta com’è e come cambia un quartiere.
Una versione rivista e aumentata di questi racconti è disponibile a stampa, dalla primavera 2009, nella collana «Quaderni di inchiesta urbana» promossa da «Unaltracitta/unaltromondo», gruppo consiliare d’opposizione del Comune di Firenze (legislatura 2004-2009) .
Finestre
Tredici finestre lungo quattro mura giallo ocra. Da un muro all’altro ci saranno non più di tre metri. Un quadrato di base e, in tutto, una cinquantina di metri cubi. Tre piani.
Il mondo lì fuori ignora persino l’esistenza della nostra corte. Chi torna dal mercato centrale ha le braccia troppo cariche, chi lavora negli uffici qui attorno è alla ricerca di un panino nella pausa pranzo. I turisti sono troppo presi dalla loro corsa perpetua: comprano centinaia di Pinocchi di legno ogni giorno, ma non sanno che nella via qui sotto c’è la casa dove è nato Collodi.
La corte è un segreto che ci teniamo stretto tra pochi. È per i barrocciai che tirano su il bandone presto la mattina e per noi di questi tre palazzi che siamo svegliati da loro. Noi che parliamo otto lingue da tredici finestre.
La corte interna è come un palazzo diviso, senza numero civico. E noi siamo abitanti senza indirizzo, più vicini di casa di quelli con cui condividiamo lo stesso portone, ma per noi non ci sono riunioni di condominio. Eppure siamo intimi. Ci sentiamo persino ansimare nelle ore dell’amore. Delle volte sono urli. C’è stato anche un tempo in cui si sentivano distintamente degli schiaffi: un fioraio fiorentino sadomasochista con una soprano giapponese di solito taciturna. Sarà stato una decina di anni fa. Succedeva in quella casa dove poi sono passati, nell’ordine: una pistoiese, tre colombiani, una statunitense e due milanesi. Ora ci stanno i cingalesi.
Come le persone che la abitano, anche le finestre della corte sono una diversa dall’altra. Quelle solo vetri e quelle con le sbarre, quelle piccole e quelle grandi, quelle all’altezza del piano e quelle a mezzanino, poi quelle bianche, rosse, verdi, legno e acciaio. (Io sono quello della finestra verde del secondo piano.)
C’è anche una tettoia di lamiera ondulata lì in basso. Cosa ci sia sotto non saprei dirlo. Sopra però c’è un mondo di oggetti: bottiglie di shampoo, mutandine, stracci variopinti, assorbenti rosa senza ali, assorbenti viola con le ali, una mia maglietta ormai senza colore, ritagli di giornali, mollette. Tutto a norma del nuovo Regolamento comunale per il decoro: noialtri stendiamo i panni e buttiamo gli oggetti nella corte, mica per strada!
Tre cose
In tredici anni, da quando sono arrivato in questa casa del quartiere di San Lorenzo, ci sono solo tre cose che non sono cambiate.
Uno. Sant’Orsola. Cioè quell’ex convento di cui volevano fare una caserma della Guardia di Finanza, anzi no, ci viene il liceo artistico, anzi no, degli hotel di lusso, o forse qualche spazio per le associazioni del quartiere. Fatto sta, tra Tangentopoli (Pontello indagati-cantiere bloccato) e progetti discutibili, da una trentina di anni nessuno può vedere i tre bellissimi cortili interni di questa enorme struttura. Per anni gli operai del cantiere hanno solo controllato che funzionassero i lumini rossi appesi alle lamiere di metallo. Poi sono andati via e ora hanno tolto perfino le impalcature. Sono così belli i muri grigi, i tubi di rame e le finestre chiuse dai mattoni rossi: perché coprirli?
Due. Le pietre sconnesse della via ai piedi di Sant’Orsola. Una strada non lontana l’hanno appena trasformata in una specie di salottino chic di questa zona che pure amano dipingere come il «Bronx di Firenze». Ma lì ci sono commercianti petulanti e, soprattutto, una scuola per studenti americani. Qui da noi, da quest’altra parte del mercato centrale, ci sono phone centre, negozi di kebab, qualche ex studente universitario come me e i barrocciai costretti a trascinare i loro carretti su quelle pietre, appunto, sconnesse.
Tre. Le forchette che si agitano nella stanza bianca nella parte bassa della corte, dietro la finestra bianca con le sbarre e il tettuccio di tegole. Forchette continuamente in movimento, da anni. Alle nove alle dieci alle undici alle tre alle quattro (di notte) alle sette con il telegiornale delle otto. Forchette che si trascinano nei piatti bianchi sul tavolo bianco. E la televisione sempre accesa.
Non è un ristorante, ho chiesto. È un appartamento, un bilocale, credo. Un ragazzo, due ragazzi, forse tre. Li guardo da questo secondo piano che di fronte ha il muro giallo ocra e poco più in basso quella stanza tutta bianca con la luce che cambia in continuazione al ritmo delle immagini sullo schermo televisivo. Io non lo so cosa gli prenda a quelli lì dentro. Tutti lì hanno sempre e solo mangiato, bevuto e guardato la televisione. Eppure sono passate da lì decine di persone diverse. Erano donne e sono uomini, erano uomini e sono ragazzi. Studenti o lavoratori. Erano bulgari, poi cinesi; ora sono italiani, poco fa indiani.
Sant’Orsola, le pietre sconnesse e le forchette. Tolte queste tre cose, è cambiato tutto: il mondo, la città, il quartiere, la corte. Come è giusto che sia. O siete di quelli che sognano un futuro identico al passato e che chiamano qualunque cambiamento «degrado»?
Benvenuto a Firenze
«Troia, puttana, stronza, maiala, devi morire, troia». Il consueto repertorio maschile. E in mezzo tanti schiaffi e lanci di piatti, bicchieri, forchette, coltelli. Volava di tutto lì al piano di sotto. Lui non la finiva più. Poi il silenzio. Poi lo squillo di un campanello: il mio.
Dicembre 1995. Mi ero trasferito qui da Roma da neppure un mese. Il freddo fiorentino ancora mi sconcertava e contro il vento di piazza del mercato centrale si infrangeva ogni mia voglia di uscire la sera. Mi giravo su me stesso e rientravo in casa.
Apro la porta. Una ragazza magra, pallida, impaurita. Non l’avevo mai vista e anche in seguito l’avrei vista poco. Faceva l’infermiera e preferiva i turni di notte. Di giorno, ovviamente, dormiva. In quel momento tremava e non riusciva neppure a parlare. Aveva grossi lividi in faccia, qualche ferita aperta e gli occhi piccoli piccoli in fondo. La faccio entrare e subito si accosta al termosifone. Non dice una parola, ma lì trova la forza di piangere a dirotto.
Non mi ero mai trovato in una situazione del genere e mi sentivo a disagio, in quanto uomo, sia pure diciannovenne. «Aspettami qui un attimo, scusa», le dico. Vado di corsa a chiamare i ragazzi del piano di sopra. Studiavano ingegneria, erano di qualche anno più grandi di me e parlandoci alcuni giorni prima mi erano rimasti simpatici.
Scendono subito, portando del latte caldo per berlo tutti insieme. Uno di quei piccoli gesti geniali delle persone sensibili. Così la ragazza prende a parlare un pochino, a raccontare. Poi è un fiume in piena. Anni di urla e botte ci passano davanti in pochi minuti, quella sera.
A un certo punto dice che vuole rientrare a casa sua. Ma Lui andando via si è portato dietro le chiavi. «Ci sarebbero i ragazzi siciliani del piano terra. Ho sentito dire che sono “esperti” in questo settore». Marco il futuro ingegnere lo dice con il sorriso sulle labbra, per lui è solo una battuta. Ci guardiamo, un paio di minuti dopo Peppino sale al primo piano con una ordinata borsa degli attrezzi. «Spadini», chiavi, lime, tenaglie, fil di ferro. Professionale.
Si mette al lavoro. Noi gli stiamo attorno e lo guardiamo ammirati. Sono certo che in pochi minuti ce l’avrebbe fatta. Sul più bello però, alle nostre spalle arriva Lui. Con un sorriso sposta Peppino e infila la chiave nella toppa. Apre. Fa appena il cenno di voltarsi verso la sua compagna, lei lo segue in casa senza esitazione. Per un attimo li vediamo camminare su centimetri di vetri rotti, poi la porta si chiude.
Rimanemmo tutti attoniti: i futuri ingegneri, il mago delle serrature e io. Nessuno disse nulla.
La coppia si è poi trasferita altrove e da allora ho perso completamente le loro tracce. Peppino invece l’ho rivisto alcuni anni dopo, durante i dieci mesi del servizio civile l’ho incontrato in un centro per ex-detenuti. Non l’avevo mica riconosciuto. Poi chiacchierando del più e del meno è venuto fuori che avevamo abitato nella stessa via, allo stesso numero civico. «Aspetta aspetta, non sarai mica quel ragazzo siciliano che quella sera, tanti anni fa…». Insomma sì, era lui.
È simpatico Peppino, un ragazzo sveglio. Anche suo padre era in carcere, ergastolano a Porto Azzurro. La sua è una di quelle storie tra povertà e disastro familiare che spesso stanno dietro ai detenuti. «Le carceri sono hotel a cinque stelle dove hanno perfino la televisione», ripetono come in una litania. Bisognerebbe che le andassero a vedere, le carceri, con le mura che cadono a pezzi, i letti a castello a tre piani, i detenuti imbottiti di psicofarmaci e i cortili del passeggio che sono cubi di cemento.
Peppino comunque è uno allegro. Uno di quelli che, se lo vedi, neppure te ne accorgi di tutto questo.
Qualche mese dopo camminavo per le sezioni del carcere di Sollicciano. Reparto giudiziario, sesta sezione, cella 2. «Christian, ciao!». Era Peppino e sorrideva, naturalmente.
Il più grande camionista d’Albania
Tredici anni fa, dal fondo della corte venivano piccole voci e una luce fioca alcune sere. Una famiglia albanese, si diceva a margine delle prime riunioni di condominio a cui sono andato. Gli inquilini di vecchia data sospettavano che il capo barrocciaio fosse arrivato al punto di affittare anche quel buco lì in basso. Che non era una casa, era proprio una parte della corte, quella sotto la tettoia di lamiera.
Alla fine del 1996 altri albanesi vennero ad affacciarsi sulla corte interna. Anche loro non si vedevano né si sentivano mai. Dei fantasmi.
Stavano al piano terra, in un fondo commerciale non abitabile che prendeva luce – si fa per dire – da una finestrella alla base della corte. Era lo stesso monolocale dove aveva abitato Peppino con gli altri ragazzi siciliani fino al momento dell’arresto. Lì dentro, in quella stanza buia mangiata dall’umidità, vivevano ora cinque o sei. Tra di loro, nientedimeno, c’era il più grande camionista d’Albania.
La storia è questa. Il signor Pieter, sua moglie, due figli e delle volte anche un paio di nipoti erano arrivati da Scutari, nel nord dell’Albania. Gli anziani si erano ricongiunti ai giovani, ma quel fondo inabitabile non andava bene come domicilio per le pratiche burocratiche. E allora li abbiamo «adottati», dichiarando al commissariato di zona che abitavano nelle nostre case: la nonna dagli ingegneri, un ragazzo giovane dall’architetto, il nonno da me.
Quando mi vedeva da lontano, il signor Pieter si toglieva il cappello blu con le lettere «NY», scoprendo i suoi capelli bianchi e un grande sorriso. L’italiano non lo parlava, diversamente dalla moglie, che l’aveva imparato mentre puliva le stanze di un albergo. Nel loro umido monolocale ho passato dei bei pomeriggi e bevuto dell’ottimo caffè turco. Il più grande camionista d’Albania sapeva raccontare con gli occhi il mondo che aveva visto.
Cingalesi di San Lorenzo
Dalla finestra col bordo nero e il vetro opaco, da due anni a questa parte scatarrano inequivocabilmente all’indiana. Sarà pure un bagno, ma insomma, non da tutti i bagni arriva quel rumore lì. Quindi là devono essere indiani, o qualcosa del genere. Lo so perché quel rumore lo faceva anche un mio amico: indiano di origine e inglese di nascita. Eravamo in stanza insieme, in questo bilocale buio ma accogliente, con le travi di legno che reggono il soffitto di legno. Ibrahim si alzava la mattina e faceva una strana operazione tra abluzioni e scatarramento. Non ho mai capito se la cosa avesse un senso o meno per lui e per qualche religione o cultura. Ero un po’ imbarazzato e non gliel’ho mai chiesto. Ma mi dava fastidio, questo sì, ora lo posso confessare.
Adesso, passati dieci anni, eccomi allo stesso punto, mentre Ibrahim è finito nel frattempo tra Londra e Dakka.
Ho scoperto che i miei vicini in realtà vengono dallo Sri Lanka (da Ceylon, come ancora chiamano quell’isola sulle confezioni del tè, incuranti della decolonizzazione). Gente simpatica, ragazzi giovani. La sera loro parlano parlano parlano e mi tengono compagnia, attraverso il muro d’inverno e la finestra d’estate. Hanno un phone centre nella via qui sotto. Sono persone incredibilmente tranquille, serafiche direi: l’anno scorso la Questura gli ha chiuso il negozio per sei mesi perché non avevano preso il documento a un cliente appena entrato; loro si sono serenamente trasformati in lavapiatti in nero nei ristoranti qui attorno, quelli che la Questura non chiude mai.
Ora che il negozio ha riaperto, stanno di nuovo tutto il giorno a passare la linea a donne col turbante e le gonne verdi e blu rintanate dentro improbabili cabine di vetro. In una cabina si piange, in quella accanto si sghignazza. Ho visto gente che prega nei modi più vari insieme ai parenti a migliaia di chilometri di distanza. Tutti lì dentro sembrano raccontarsi preoccupazioni e grandi novità.
E così loro, i miei vicini di casa e di corte, la sera quando chiudono il negozio salgono su e chiacchierano fino a notte fonda. La loro casa è la stessa dove dieci anni fa si incontravano la soprano giapponese e il fioraio fiorentino sadomasochista. La loro casa: una stanza che se va bene sarà di una ventina di metri quadrati. Delle volte sono cinque-sei a dormirci, come ci riescano non lo so, dalla corte si vede solo la finestra del bagno e dalla porta di ingresso delle volte si scorge un mobile bianco e poco più. Spargeranno materassi per terra o avranno brandine dappertutto, immagino.
La sera, quando sento le loro voci, me li vedo seduti per terra a raccontarsi le storie della giornata. A chiedersi cosa volesse quella eritrea che si scaldava tanto nella cabina 4 subito dopo pranzo. Per esempio. O magari commentano le partite di cricket che vedono alla televisione via cavo. Chissà. La loro lingua è bella da vedere, bellissima, un mio amico la chiamava «la lingua dei fiori». Ma capirla è decisamente un’altra storia.
Rame e kebab
Un paio di anni fa dal tetto arrivò un forte odore di kebab. Il kebab di un negozio di kebab, non di un panino ogni tanto. Oddio, chi ha aperto un negozio di kebab in una di queste casette con le travi di legno?
I miei vicini di campanello cominciarono a mormorare. Cose del genere da queste parti non se ne vedevano tredici anni fa. Eravamo tutti studenti e quasi tutti italiani. L’odore di kebab neppure sapevamo cosa fosse allora, ma gli odori nella corte non mancavano. A quell’epoca avevamo: le cipolle appese alla finestra di legno, il caffè turco dei signori albanesi, lo spurgo delle fosse biologiche, la marijuana degli spagnoli della finestra con le sbarre, l’incenso degli indiani, la ‘nduja dei calabresi.
Le riunioni di condominio non si erano mai occupate di odori. Quello di kebab scalò le vette degli ordini del giorno: da «altre ed eventuali» al numero uno in poche settimane. «Estirpare il kebab dalle nostre case»: ecco il Verbo dei giovani ingegneri del piano di sopra. Dieci anni dopo il loro intervento a favore dell’infermiera del primo piano, erano diventati grandi, avevano tre figli e uno studio di ingegneria. Abitavano e lavoravano ormai fuori Firenze e, peraltro, su questa corte la loro casa neppure ha mai affacciato. Neanche una finestra del bagno, nulla. Non hanno mai dato niente di loro a questa corte, ma volevano dire la loro. Era una questione di principio: il Condominio deve restare decoroso.
Si scoprì che il kebab era roba di un negozio che aveva aperto in piazza. Un buco di negozio che riusciva però a produrre più kebab in un giorno che Mirafiori automobili in un anno qualsiasi di quattro decenni fa. Così almeno sembrava ai miei vicini. E siccome il palazzo sopra il negozio è uno di quelli che non hanno neppure un amministratore di condominio, eravamo noi a doverci fare carico di quella faccenda. Noi che eravamo solo in sette, ma che un amministratore di condominio lo avevamo. Altra questione di principio: dovevamo agire.
Saltai un paio di riunioni condominiali e al mio rientro sentii che dalla corte venivano martellate e un suono tutto particolare. Martellate leggere su un tubo di rame. Bellissimo. Sbucò dal tetto un pomeriggio d’estate e cominciò ad alzarsi verso il cielo, sempre più in alto. Ma non ancora abbastanza in alto: il naso fino dei miei vicini avvertiva ancora lo sgradevole odore.
Gli altri ingegneri, quelli della finestrella sopra la mia testa, avanzarono a questo punto una teoria inattaccabile: i barrocciai, tenendo aperto il bandone giù nella strada, creavano una corrente d’aria che finiva per risucchiare nella corte l’odore che veniva dalla cappa del negozio di kebab. La soluzione era una sola: bisognava alzare ancora il tubo, da sei a nove metri. Citarono con precisione un paio di numeri che non sembravano messi lì a caso. Pensai che dovesse essere una legge degli anni Cinquanta, fatta per combattere l’odore di pasta con le cime di rape e frittura. Roba da meridionali, insomma.
Ma qui non c’era da stare a perdersi in dettagli. La legge era inequivocabilmente dalla nostra parte, se ne facessero una ragione «questi arabi»! Ogni giorno quei signori indiani venivano ad annusare l’aria, gli occhi e il naso all’insù dal fondo della corte. Da dietro le persiane verdi li vedevo aspettare il momento in cui l’odore era meno forte, poi dire all’amministratore: «ecco, vede, non è vero che si sente poi così tanto». Cercavano di buttarla sul buon senso, per evitare di dover buttare altri soldi su quel negozio di dieci metri quadri che avevano avuto la malaugurata idea di affittare. Ma il loro italiano era troppo poco preciso e avevano contro la Legge e un amministratore pistoiese: impossibile spuntarla. Due giorni dopo, un nuovo tubo portò in cielo l’odore del kebab. Nelle giornate estive il rame scintilla rosso ed è un piacere vederlo quelle rare volte che stendo i panni.
Sprofondare
Mi intristisce sapere che presto tutto questo non ci sarà più. Un giorno tutti noi che siamo qui in questi palazzi sprofonderemo. Proprio tutti: i cingalesi insieme al loro negozio e ai loro clienti agitati, i fantasmi della corista americana e del più grande camionista d’Albania, gli ingegneri del piano di sopra (se saranno a Firenze), io e la pescivendola egiziana. Verrà giù con noi anche Gina, la parrucchiera nigeriana dalle mille acconciature, e questa sarà la cosa più triste.
Vorrei chiarire una cosa: lo sprofondamento non è una metafora, è un destino. È stato il Niccolai a rivelarcelo, messo alle strette in una riunione di condominio di qualche anno fa. Per l’ennesima volta erano in corso dei lavori nel corridoio di ingresso, vittima dell’umidità. Stavolta però un operaio, mentre rifaceva il solaio, è volato di sotto ed è finito in un lago con un metro di acqua. E allora il Niccolai, proprietario del fondo accanto al nostro portone di ingresso, ha dovuto dire quello che sapeva: che quella falda acquifera c’è dai tempi dell’alluvione del Sessantasei (e che, nonostante questo, lui lì sotto ci ha sempre tenuto la frutta e l’insalata che sembra così fresca sul suo banco del mercato centrale).
Nel corso di un’appassionante riunione di condominio decidemmo di montare un galleggiante per pompare via l’acqua. Un paio di mesi dopo, le bollette ci dissero che stavamo cercando di prosciugare una falda grande come un isolato: per l’esattezza, dal muro del parcheggio sotterraneo del mercato centrale al muro che hanno costruito nei sotterranei di Sant’Orsola per fare i magazzini della Guardia di Finanza o forse, come si dice nel quartiere, un poligono di tiro.
Dunque, sprofonderemo. Ma la cosa non fa notizia e, a quanto pare, non ha nulla a che vedere con la sicurezza dei cittadini. Intanto, uno o dieci morti per sprofondamento non vanno sui giornali. Che notizia noiosa! È senza dubbio più interessante un morto accoltellato in via Panicale da qualche «extracomunitario». Poi c’è il fatto che uno sprofondamento non può essere affrontato e risolto dalle Forze dell’Ordine, non dà lustro alla Polizia Municipale né al noto Assessore-Sceriffo; non è cosa da garantire la carriera al Nucleo Antidegrado, ai Dirigenti della Squadra Mobile o ai Poliziotti di quartiere. Anche l’Esercito potrebbe essere di scarso aiuto, salvo a voler scomodare il Genio, ma insomma non scherziamo, dopotutto è solo un piccolo sprofondamento in un quartiere degradato.
Facciamo così: il problema dello sprofondamento non esiste. Avrei fatto bene, in verità, a non nominarlo neppure. Bisognerebbe anzi attenderlo speranzosi, lo sprofondamento. Pensate: se andiamo giù noi si libera improvvisamente una nuova area edificabile in pieno centro storico. I soliti costruttori già scalpitano: vogliono costruirci un Castello! E i comitati di zona raccolgono centinaia di firme pro-sprofondamento tra le future vittime. Domani mattina firmo.
Firenze, gennaio 2009
Letture:
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D. Dolci, Racconti siciliani, Sellerio, Palermo 2008 (prima ed. Einaudi, Torino 1963).
G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano 1975.
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P.P. Pasolini, Alì dagli occhi azzurri, Milano, Garzanti, 2005 (prima ed. 1965).
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Siti
Notizie generali sul quartiere: www.firenzespecial.it
Un tentativo: la voce migrante: www.inventati.org/inventa/doku.php?id=lavocemigrantewiki
Un’associazione di quartiere: www.insiemepersanlorenzo.it
Lo spazio di una libreria: www.libriliberi.com
Un tentativo per la città: l’assemblea autoconvocata: www.autoconvocata.org