di Manlio Calegari
Da anni Manlio Calegari si interroga sulle interviste che ha raccolto per i suoi lavori sulla Resistenza nel genovese. Cosa fare di queste 201 cassette registrate nell’arco di circa vent’anni? A chi affidarle per la conservazione? Quali “istruzioni per l’uso” allegare, eventualmente, per i posteri che volessero riutilizzarle? Il testo che segue è servito da base per un intervento tenuto di recente alla scuola di storia orale organizzata a Forlì (24-26 ottobre 2013) dall’Associazione Italiana di Storia Orale (AISO). L’autore ha poi aggiunto un post-scriptum apposta per noi, dopo che l’avevamo invitato a pubblicare sul nostro sito. Calegari riprenderà questi stessi temi anche nell’incontro che inaugurerà, giovedì 14 novembre 2013, il nuovo ciclo degli “spunti-ni storici” di storiAmestre.
1. Il 7 settembre 2012 è toccata a Licio. Per soli due mesi ha mancato il traguardo degli 89 anni. Nato il primo novembre del 1923, il giorno dei Santi – per questo di vero nome faceva Santo – in casa lo chiamavano Licio per compiacere uno zio “americano”. Inutilmente perché questi, alla sua morte, non aveva dato segni d’accorgersene. Licio se n’è andato verso sera. Prima di cena faceva sempre una dormitina – poca roba, un quarto d’ora al massimo. Sosteneva che gli facesse venir appetito. La sera del 7 però aveva detto alla moglie Esterina che dubitava che il sonnellino gli sarebbe servito: “Ma guarda che strano, diceva, oggi proprio zero fame”. S’era sdraiato egualmente sul divano ma non si era più alzato.
“Avevo la minestra in tavola ma mi dispiaceva svegliarlo. Così è venuta fredda. Allora ho detto: bon, ora basta, e l’ho chiamato due o tre volte ma lui niente. Sono andata di là e ho capito subito che era morto perché quello sul divano era lui ma lui non c’era più.” Aveva avuto paura? “No; tra noi ne avevamo parlato tante volte: sarà così, sarà colà. Ci chiedevamo chi sarebbe andato via per primo. È toccata a lui ma io non ero sola; sono arrivate subito le mie amiche” (la parrucchiera che ha il negozio al pianterreno e la badante d’una vicina paralitica; a 85 anni le amiche dove sono?).
Due giorni dopo il funerale sono andato a casa di Esterina a raccogliere “un po’ di carte che interesseranno più a te che a me”. Raccontava “l’andata via” di Licio senza lacrime, compunta, ammirata di come la morte avesse avvalorato la teoria del compagno d’una vita: “per vivere bisogna avere fame”. Termine che Licio riferiva indifferentemente a sostanze materiali e non, come i libri – in particolare le enciclopedie – il disegno e le carte geografiche.
2. Licio è stato l’ultimo partigiano della Riviera di Levante ad andarsene. Dopo Tenebrin e Scialuppa partiti alla fine del 2011 e Selavì ad agosto del 2012, era rimasto solo lui. Dei partigiani “combattenti”, perché di quelli che avevano avuto il “riconoscimento” qualcuno c’era ancora. Di loro non parlava male, anzi: “magari hanno rischiato anche di più di noi che stavamo in montagna”. Partigiano per Licio voleva dire armi e montagna, quel modo di stare “lassù” e come si erano scelti. Un gruppo che, a guerra finita, aveva continuato a chiamarsi coi nomi di allora; nel suo caso, Pericle. Il padre, operaio in una acciaieria, aveva la passione della storia antica e a casa loro Atene e Pericle erano materia più quotidiana del salario; rifritta in tutte le salse. In montagna, come anche in paese, di Pericle nessuno sapeva; una buona ragione per farsene uno scudo.
– Era un nome diverso dai soliti; forse il fatto che nessuno lo conoscesse mi faceva sentire più sicuro, introvabile.
– Introvabile? Allora te la fuggivi…
– Come tutti. Non andavi lassù per fare la guerra. Almeno la maggior parte… che poi neppure sapevamo cosa fosse. Il 99% mai tenuta un’arma in mano. Poi col tempo…
Negli incontri davanti al registratore Licio Pericle s’era rivelato un testimone perfetto: interessato più di me a capire dove saremmo andati a parare coi nostri scavi. Le battute che ho appena riportato dovevano considerarsi l’ovvio antefatto della sua come delle storie dei suoi amici; una questione di cui neppure si parlava tanto appariva ovvia.
3. Durante vent’anni – pressappoco dal 1986 al 2004 – ho registrato i miei incontri con molti partigiani – “combattenti” come Licio ma anche comuni “resistenti” – che avevano operato nella Liguria di levante, gli stessi luoghi dove anche lui aveva combattuto. È stato al ritorno dalla visita a Ester che ho messo mano al mio tesoro. Duecentoun cassette per 73 personaggi, alcuni incontrati anche più volte. Prodotte e usate per scrivere due libri sulla partigianeria pubblicati nel 2001 e nel 2004. Sui partigiani della Riviera, i compagni di Licio, esistono anche tre opere di memorialistica e altrettante di storiografia. A queste va aggiunta la raccolta di testimonianze raccolte alla fine degli anni Settanta dall’ANPI locale. Ecco, mi son detto, ora che anche Licio se n’è andato tutto quello che resta della memoria sua e dei suoi compagni sono le registrazioni fatte da me e da qualche altro; più qualche ricordo di un familiare o di un amico, materia persino più labile dei miei nastri magnetici.
4. Che la memoria degli uomini si perda con loro non è uno scandalo. Ma qui si tratta di memorie grazie alle quali una vicenda importante (almeno per la mia generazione) – la Resistenza – si è aperta a osservazioni diversamente impossibili. Lo so perché le ho usate per scriverci sopra dei libri, le ho citate a volte testualmente e più spesso dando le indicazioni che in questi casi si usano: chi, come, quando ecc. Si può ben dire che dal momento che le ho utilizzate esse non siano più mie; fanno parte a tutti gli effetti d’un apparato di fonti e come tali andrebbero conservate. Ragione vorrebbe che le registrazioni – solo in audio purtroppo – fossero depositate da qualche parte, schedate, ordinate e consultabili se un giorno qualche cireneo volesse andarci a spigolare. È una soluzione che mi produce qualche brivido. Le registrazioni conservano anche gli aspetti più imbarazzanti delle nostre performances: domande gutturali, curiosità incomprensibili, a volte ingiustificabili, addirittura morbose, quando non rivelano un penoso utilitarismo o il tentativo di piegare la fonte alle esigenze del momento. Chi è lo studioso disposto ad affidare ai posteri la sua insipienza?
Il problema è come condividere la fonte, renderla potabile all’ipotetico curioso di metterci il naso (e ancora avesse a disposizione un registratore analogico). Non credo ci siano vie di mezzo. Conservare significa trascrizione integrale e pubblicazione; se non a stampa almeno su un sito web. Solo a pensarci m’assale lo scoraggiamento; quanto lavoro dovrei fare! Perché non solo di trascrizione si tratta, ma di integrare ogni documento, l’intervista, con quello che l’intervista non contiene ma è decisivo per la sua comprensione. Il non detto senza il quale il detto risulta inutilizzabile. La battuta di Licio sullo stato d’animo di chi era salito ai monti (“non per fare una guerra”) – semplice spunto d’un dialogo occasionale – non si trova in nessuna delle sue interviste ma è importantissima; la chiave interpretativa delle cose che Licio racconterà. Che senso avrebbero se non lo ricordassi?
5. Il non detto non è solo frutto di cautele; è piuttosto qualcosa che all’intervistato, a volte anche all’intervistatore, appare come un ovvio. Qualcosa di cui spesso neppure intervistato e intervistatore sono del tutto consapevoli, che determina l’indirizzo, lo stile della registrazione anche se riascoltandola non ce la trovate spiattellata se non per qualche traccia occasionale. Ad esempio: 1) la lingua – italiano o dialetto – impiegata nell’intervista; 2) il grado di confidenza tra gli attori; 3) il luogo scelto per incontrarsi; 4) i preliminari dell’incontro; 5) l’epoca del colloquio (congiuntura politica e storiografica rispetto alla materia trattata); 6) il profilo politico e culturale del testimone, la sua storia familiare e avanti così. Il non detto non si ferma qui. Perché, chi e cosa vi ha indirizzato a quel testimone? Cosa vi aspettate di sapere da lui rispetto alle finalità della vostra ricerca? Anche a quest’ultimo interrogativo è difficile che nella registrazione si trovi risposta. A parte il fatto che le interviste prendono sempre curve sorprendenti, non credo che nessuno, neppure il più sprovveduto si rivolga al suo interlocutore dicendogli dove vuole andare a parare, quale storia vuole scrivere e perché pensa che riferendo della sua esperienza lui possa dargli una mano. Come se la stessa fonte potesse suggerire l’indirizzo storiografico e da memoria farsi storia. O come se l’indirizzo della ricerca non fosse soggetto, in corso d’opera, a ripensamenti tali da influenzare le interviste successive e la scelta degli intervistati.
Conclusione almeno temporanea: il non detto che accompagna ogni intervista – denso di particolari che a volte sfuggono persino ai protagonisti – è ciò che trasforma una chiacchierata in una fonte accessibile anche ad altri che non vi hanno partecipato, e va documentato. Diversamente le registrazioni, a dispetto della loro materiale e acustica evidenza, sono inutilizzabili anche quando sono oggetto di ampie citazioni. Le parole citate e scambiate sono infatti l’espressione di un particolare e personale rapporto tra intervistatore e intervistato che le rende uniche. Un rapporto che le segna e al di fuori del quale esse non sono utilizzabili.
6. C’è un’altra questione non meno importante. I nastri registrati con le interviste conservati nel mio scatolone sono rigorosamente datati ma nel corso del tempo le mie domande cambiano così come la scelta degli intervistati o il mio interesse a tornare a incontrarne alcuni già ascoltati. Riascoltandole una per una nell’ordine in cui sono state prodotte è possibile cogliere questi cambiamenti, ma pubblicarle significa accompagnarle con un testo dove l’intervistatore illustra i cambiamenti del suo disegno avvenuti in corso d’opera e ciò che l’ha provocati. Chi fa questo lavoro dovrebbe tenere, parallelamente alla ricerca, un diario con i suoi moti dell’anima. Purtroppo succede di rado: così al non detto dobbiamo aggiungere il non scritto.
Non detto e non scritto sono la chiave per la pubblicazione delle registrazioni; letteralmente, l’unico modo per renderle pubbliche, comprensibili. Un lavoro che al solo pensarci m’è parso immane. Non ho voglia di farlo. Sono alla ricerca d’un ripiegamento onorevole: limitarsi ad accompagnare le interviste con una scheda, unica per tutte, dove mettere a fuoco un po’ delle questioni indicate più sopra? Mezza cartella, 500 parole, per almeno una cinquantina dei 73 censiti fanno un po’ più di 25mila parole. Ho pensato di poterci stare.
Quando si lavora di fantasia le soluzioni appena intraviste sembrano facilmente praticabili. Basta però affondare la mano che subito esplodono i dubbi. Perché oltre al non detto e al non scritto emerge un grumo che a distanza di tempo si rivela importantissimo, decisivo. È il momento storico dell’intervista – giorno, mese e anno – che accomuna intervistatore e intervistato. Non segna tanto la distanza dai fatti ma il personale rapporto che entrambi hanno col fatto al momento dell’incontro. Un dato culturale che in genere non corrisponde con quello formulato ex post, il senno di poi che spesso – alla faccia della storia – contrabbandiamo come fosse il sentimento vissuto al tempo dei fatti.
7. Le mie interviste sono cominciate tre anni prima dell’Ottantanove, anno della caduta del “muro”, e sono proseguite negli anni successivi. Nelle parole degli intervistati – la maggior parte di loro apparteneva o era appartenuto al partito comunista – la fine del muro appariva (mi riferisco alle parole e non ad altri possibili sentimenti taciuti) irrilevante. I commenti sul “comunismo” e lo “stato guida” raccolti prima e dopo la sua caduta erano pressoché gli stessi. “Il comunismo, quello là” – da intendersi come quello sovietico – era stato “importante” ma “solo una esperienza” che non “aveva più niente da dire” e “chissà come andrà a finire” e in ogni caso “poco ha a che fare con noi in Italia”. Dove sicuramente stavano succedendo cose che da tempo non si riuscivano a capire. Tutti concordi nel riconoscere che l’antico sogno o proposito di conquistare il governo era tramontato. Nessuno però lo attribuiva alla lentissima e discontinua avanzata elettorale o a Gladio e ai veti americani ma a un inquietante interrogativo: cosa si sarebbe dovuto fare una volta giunti al governo? La politica sociale e quella economica parlavano da tempo un’unica lingua e i partiti affidavano la loro differenza a semplici sottigliezze. A distinguere la sinistra dal centro e dalla destra era l’idea. Ma in proposito i miei protagonisti non avevano dubbi, una idea non poteva sostituire un programma di governo.
Davano da pensare anche la scomparsa dei luoghi tradizionali di riunione e di confronto politico, l’uso del partito per interessi personali e di gruppo – eravamo in Riviera e il riferimento erano i costruttori –, le relazioni privilegiate tra il partito e nuovi ricchi – mediatori immobiliari, proprietari di stabilimenti balneari, porto turistico ecc. –, e il familismo imperante negli incarichi pubblici. Fatti di malcostume da cui non si traevano conclusioni politiche ma che producevano incertezza: semplice deviazione dalla retta via o i comunisti, al contrario di quanto s’erano ripetuti con orgoglio da sempre, erano come gli altri che appena i soldi e le occasioni avevano cominciato a girare non si erano tirati indietro? Eppure eravamo diversi, m’aveva ripetuto uno di loro più volte. “Una volta c’eravamo noi e loro, i democristiani, le nostre parole e le loro, le nostre speranze e le loro, poi è successo qualcosa che tutto è venuto individuale, la casa, il benessere, la scuola, i viaggi, i consumi… Tutto privato e più o meno uguale salvo i soldi che chi ne aveva pochi a momenti doveva vergognarsi”.
8. Lo so che non è possibile ricorrere a qualche occasionale battuta di altrettanti occasionali contatti per attestare l’inizio di una stagione di revisioni e di cambiamento. Voglio solo far notare come due persone che riflettono su fatti di 40 anni prima – ma fossero anche 10 o 20 o 50 non farebbe differenza – lo fanno con la testa immersa nel loro presente. Il che, tra le altre cose, comporta che quanti di quei fatti avevano in precedenza parlato preferiscano tacere, e altri che avevano taciuto invece comincino a parlarne. Per quanto riguarda i miei intervistati, ad accomunare la maggior parte di loro era un sentimento: potevano parlare liberamente della loro Resistenza senza doversi preoccupare di quello che dicevano. Non è che finalmente si liberassero da uno stato di oppressione: semplicemente consideravano lecito – politicamente e storiograficamente – parlare di Resistenza muovendo dalla loro personale esperienza. Alla retorica resistenziale che loro stessi in passato avevano condiviso e difeso sentivano di poter affiancare il loro racconto senza preoccuparsi troppo dei possibili punti di distacco.
A partire dagli anni Ottanta – lo si vede dalle pubblicazioni dell’epoca – molti partigiani hanno raccontato della partigianeria muovendo dalla propria esperienza e accettando di sottoporla a interrogatorio senza sentire in questo un attacco all’epopea resistenziale al ruolo del partito comunista ecc. Quando questo avviene – in seguito tale stato d’animo fu attribuito alla caduta del “muro” – significa che è avvenuto o sta avvenendo un cambiamento frutto di processi diversi – a cui non era estranea la storiografia – che meriterebbero una indagine a parte. Per la modesta esperienza fatta con i partigiani da me a suo tempo intervistati sono in grado di riferire di almeno tre fattori che nell’ambito politico avevano contribuito alla revisione: 1) la chiamata dei partigiani a raccontare della propria esperienza nelle classi della scuola dell’obbligo per effetto congiunto dei Decreti delegati e della presidenza Pertini (dal 1978); 2) il brigatismo; 3) il graduale superamento dell’antifascismo come ispiratore e fondante delle varie maggioranze di governo.
Il fuoco di fila di domande a cui erano stati sottoposti i partigiani andati nelle classi della scuola dell’obbligo dove sino ad allora nessuno, salvo casi eccezionali, aveva mai sentito parlare di Resistenza, era stato uno choc. Non per i ragazzi, ma per i partigiani che i ragazzi avevano costretto a raccontare delle loro azioni militari, della loro vita, delle armi, dei loro pensieri e dei loro amici. Licio e altri erano stati obbligati a raccontare di sé, della loro storia e non della Storia della Resistenza dove fino ad allora erano vissuti protetti. Erano stati ripagati: il primo vero e personale riconoscimento pubblico, superiore a qualsiasi decorazione ricevuta in passato. Costretti anche al confronto col presente, col brigatismo capitato in quegli anni. Richiamandosi in modo esplicito alla tradizione partigiana, usando molte delle parole di quella stagione, rivendicando l’uso delle armi nella lotta politica, i brigatisti avevano messo in discussione anche le loro scelte d’un tempo e sollevato non pochi interrogativi. A suo tempo, i ragazzi che erano saliti in montagna avevano scelto la parte giusta ma erano vissuti parecchi mesi senza averne la certezza. Le gesta dei brigatisti non erano condivisibili ma avevano fatto riemergere la solitudine e la durezza delle decisioni di allora che l’epica resistenziale in seguito aveva oscurato.
9. La mia esperienza personale, il “momento storico” delle mie interviste, si riferisce a un periodo, tra il 1985 e il 2005. Un periodo in cui vari fattori – la congiuntura politica italiana culminata con scioglimento di DC e PCI, lo scongelamento della Destra e l’abbandono della discriminante antifascista, le rivelazioni sulle influenze USA nella politica italiana del dopoguerra e altro ancora – aveva sciolto la memoria partigiana dal canone in cui era stata immersa sin dalla fine della guerra (antifascismo storico, Spagna, Resistenza, Costituzione confluivano a dare legittimità democratica alla sinistra che cercava cittadinanza nella seconda metà del secolo dopo essere stata bastonata nella prima). Era l’inizio di approfondimenti e revisioni in precedenza impossibili. Al momento di procedere con la propria ricerca non è precisamente la cosa a cui si fa attenzione, ma a distanza di tempo l’osservazione balza agli occhi o meglio – trattandosi di voci – all’orecchio. Non so se si tratta di non detto o di non scritto, ma sono sicuro che è qualcosa di importante per intendere il contenuto delle interviste, domande e risposte. Il “momento storico” o se si preferisce “il giorno dell’intervista”: non è la questione delle questioni?
In una delle solite visite ho riferito a Esterina dei miei dubbi. Sento – le ho detto – la responsabilità delle parole che mi sono state affidate. Lo considero un privilegio da condividere ma nello stesso tempo mi mette in difficoltà. Ho provato anche a spiegarle la storia del non detto e della natura storica e personale della registrazione e dell’importanza de “il giorno dell’intervista”. Mi sembra che abbia capito. “Tocca a chi legge di cavarsela. Non è così per qualsiasi testo che arrivi nelle nostre mani?”, ha detto, sbrigativa. Esterina è una donna pratica, abituata ai lavori di casa e a combinare gli impegni. Il suo commento in questi casi è il faut faire ce qu’il faut faire, una formula appresa da suo padre emigrato in Francia tra Otto e Novecento, che vuol dire che non si devono lasciare problemi aperti. Il fatto è che non so precisamente come chiuderli. Contribuire a riempire il mondo di detriti inutilizzabili o contenere l’inquinamento eliminandoli?
10. Sono stato invitato all’incontro annuale dei colleghi dell’AISO, l’associazione italiana di chi si occupa di “storia orale”. Coincidenza singolare: come se il tempo stringesse anche per me imponendomi di sciogliere gli interrogativi da poco proposti ad Esterina. Una buona occasione per chiedere lumi ai colleghi. Conservare e affidare le cassette a qualche istituzione o distruggerle consapevole delle difficoltà di lettura di altri diversi da me? E poi perché aggiungere materiali a materiali contribuendo a una inutile e pericolosa sovrabbondanza? E se lasciassi a loro la decisione?
Soluzioni (indicare ed eventualmente motivare la soluzione proposta)
A Distruggere
B Affidare a…
C Altra soluzione
Ottobre 2013
Post scriptum
Gli amici di storiAmestre, a conoscenza di questa storiellina, m’hanno proposto di pubblicarla sul loro sito. Ero incerto: a dire no si passa da preziosi ma il sì contribuisce al pericoloso incremento dei testi scritti che da sempre mi tormenta. “Faccio come pare a voi, ho risposto, ma lasciatemi pensare”. Da lì è nato questo post scriptum. “Tra detto e non detto” è venuto fuori così, un po’ per caso. Un paio di mesi fa l’AISO m’aveva invitato a un suo incontro a Forlì dove si sarebbe parlato di fonti orali; come vanno prodotte, usate, pubblicate ecc. Seduto alla scrivania, il compito aveva preso la forma del racconto. Vado là, ho pensato, gli racconto ‘sta storia e distribuisco una scheda per raccogliere le risposte. Mi sembrava divertente ma non l’ho fatto. Poco esperto dell’ambiente, temevo che apparisse una goliardata. La scrivania (mia) ha però una sua importanza nel seguito della storia. Tutti i giorni mi ci siedo, sbrigo qualche mail, rivedo qualche testo inviatomi da colleghi ancora in attività o da qualcuno, per lo più studenti, che chiede una mano. È un passatempo. Sono in pensione, ma non so fare cose troppo diverse da quelle sempre fatte.
Alle spalle della scrivania dove sta il pc, c’è una lunga libreria. Qui, in un paio di scaffali stanno i fascicoli nominativi – trascrizioni delle interviste e appunti di ogni tipo – intestati ai personaggi oggetto della mia inchiesta sul movimento partigiano nel Genovesato pubblicata nel 2001 (Comunisti e partigiani. Genova 1942-1945, Selene Edizioni, Milano 2001; seconda edizione Editrice Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2007). Da quasi tredici anni non ci lavoro più ma, malgrado un cambiamento di casa, hanno conservato una evidenza ingiustificabile. Così come a poca distanza, nella libreria di fronte alla scrivania, stanno stivate in certe scatole di cartone, le cassette contenenti le registrazioni dei personaggi di cui sopra. Le più antiche vanno per i trent’anni e ogni volta che mi capita di pensarci mi domando se ancora sono leggibili o sono decadute ai vagiti.
Non so dire perché tengo tutta ‘sta roba a portata di mano, quando non ne faccio uso. Forse c’è qualcosa in questi materiali che ha avuto su di me un potere formativo tale che mi impedisce di separarmene. Ricordo con chiarezza che il suo impiego per la stesura del libro m’aveva posto, insieme ai problemi storiografici e di scrittura, questioni di carattere più personale: il rapporto col mio passato famigliare e politico, il movimento del ’68 e altro ancora; un coinvolgimento che sicuramente m’aveva segnato. Periodicamente, quando mi capita di osservarle, sono ferito dalla loro presenza; mi inquieta, sono assalito dal desiderio di distruggerle o almeno di allontanarle dalla vista. Distruggerle o affidarle a qualcuno, qualche istituzione che si occupa di cose del genere? Qui nasce il problema: sono sicuro – per davvero – della loro inutilità per chiunque non le abbia raccolte, sentite e trascritte tutte. Oltre il non detto e il non scritto – che non è poco – c’è una massa di particolari raccolti, confrontati, chiariti, integrati, chiosati durante dieci anni di lavoro che ne hanno fatto oggetti diversi da come si presentano. Immagino che chi ha fatto simili esperienze, sappia di cosa parlo.
Insomma, ero lì in preda a una delle mie periodiche crisi di rigetto quando m’è arrivata una telefonata seguita da una mail di precisazione di Mauro Tonini, 45enne regista e sceneggiatore di un lungo prodotto per la Tv slovena. Era alla ricerca di materiali utili alla biografia di Anton Ukmar, un personaggio del comunismo sloveno nato nel 1900. La storia di Ukmar sta nell’alveo del mondo cominternista: ragazzi d’azione, presi sotto l’ala dell’organizzazione comunista, passati per la scuola di Mosca e poi spediti nel mondo. Ukmar, dopo essere stato in Spagna dal ’36 al ’39, in collaborazione con i servizi francesi e inglesi era finito in Abissinia a formare bande anti-italiane e dopo, ancora per gli Alleati, in Corsica e – qui toccava a me – era stato comandante della Sesta Zona militare partigiana, un’area che andava dalla costa genovese al basso Piemonte. Tonini voleva sapere da me – di quella Zona partigiana avevo scritto una storia – se Ukmar era stato importante e quale fosse stato il suo personale contributo al partigianato locale. Inoltre, quali fossero gli argomenti dei suoi detrattori di cui aveva avuto notizia e che l’avevano lasciato incerto.
Venne a trovarmi. Io avevo preparato un po’ dei miei fascicoli intestati ad altrettanti testimoni con i relativi racconti. Cercavo qua e là le loro battute, i giudizi e glieli riferivo. Mi ingegnavo ovviamente a dargliene ragione: chi era il testimone, ruolo e appartenenza politica all’epoca, cambiamenti avvenuti in seguito – avevo raccolto le loro parole a 40 anni circa dai fatti. Non solo: detrattori ed estimatori di Ukmar si dividevano ulteriormente in base alle diverse filosofie rispetto alla guerra partigiana, il rapporto con la popolazione locale, la “moralità” dei gruppi ribelli e altro ancora. Materia sicuramente trasversale che non aveva una corrispondenza meccanica nelle battute citate che però a esse sottostava e che avevo potuto accertare durante discorsi avvenuti al di fuori dell’intervista, spesso parlando di tutt’altro. Non era certo una scoperta ma m’aveva convinto ulteriormente dell’opportunità del raccontino su Licio.
Sarebbe finita lì se non fosse che al ritorno dalla “Scuola di storia orale” dell’AISO, dove avevo sciroppato la stessa frutta del raccontino senza però metterlo in vista, mi ero reso conto (in verità me l’aveva fatto notare un’amica a cui avevo sottoposto il testo) che avevo già scritto la stessa roba ed espresso le stesse preoccupazioni (“attenzione: stiamo riempiendo gli archivi di materiale inutilizzabile!”) nella postfazione del libro pubblicato dodici anni prima, nel 2001 (lo riproduco in una nota qui sotto). Me n’ero completamente dimenticato: l’età fa questo genere di scherzi.
Ma non è degli scherzi della mia memoria che m’interessa parlare ma della pubblicazione del raccontino propostami da storiAmestre. Che senso ha ripubblicare un appello al buon senso, un richiamo al rigore scientifico, una messa in guardia di fronte al rischio di riempire gli archivi pubblici e privati di materiali inutilizzabili o addirittura equivoci, a quasi quindici anni dalla prima volta? Non sarebbe più opportuno e più ragionevole – se davvero la questione appare calda (ma a me non lo sembra) – chiedersi perché durante questi ultimi quindici anni (ma potremmo tranquillamente aggiungercene dieci) l’appello alla cautela in materia ha destato scarso o nessuno interesse? E, se così stanno le cose, se non sia questa una circostanza curiosa visto che la “storia orale” ha vissuto nello stesso periodo il punto più alto della sua stagione istituzionale? Chissà che storiAmestre non voglia farsi promotrice di una simile indagine…
Novembre 2013
Una riflessione datata 2001 (tratta da Comunisti cit., p. 490)
Le mie interviste sono state raccolte durante un periodo lungo, oltre vent’anni, e hanno avuto occasioni anche diverse da quelle per cui son state utilizzate qui. È evidente che nel corso degli anni le mie conoscenze e specialmente il mio interesse per la materia sono cambiati più volte e, insieme, è cambiato il mio approccio al testimone; a volte lo stesso, interrogato più volte. La prima conseguenza pratica è che se si decide di utilizzare una intervista – raccolta da sé o da altri – bisogna dare eguale importanza all’intervistatore e all’intervistato. Le domande del primo sono in relazione non casuale con le risposte del secondo e permettono di attribuire un primo segno al materiale raccolto. Il secondo è dato dal “chi è” del testimone. Di lui non si sa mai abbastanza a cominciare dai motivi per cui è stato scelto dall’intervistatore. Perché “a conoscenza dei fatti”, d’accordo, ma perché lui e non altri se pure ci sono? più amico, più vicino di casa, più disponibile? La domanda ha la stessa importanza di altre come la sua età o il suo rapporto con “i fatti”. Il confronto col testimone richiede elementari accorgimenti dettati dal buon senso e il rispetto di un unico comandamento: non inquinare (con giudizi, parole o suggerimenti di qualsiasi tipo) o comunque inquinare il meno possibile. Non significa che con il testimone bisogna tenere un comportamento asettico; al contrario! Ma simpatia ed eventuali complicità non devono servire a contrabbandare passaggi di materiale nella direzione sbagliata. Il resto viene da sé. Ad esempio è necessario stabilire chi era il testimone prima, durante e dopo “i fatti”; quale il suo rapporto con la lettura, la scrittura, la militanza politica, la partecipazione ad associazioni, il mantenimento di relazioni amicali con i compagni di un tempo ecc. Il tutto può sicuramente apparire un appesantimento del lavoro ma è spesso il solo modo per attribuire un significato a quanto più ci interessa: i processi di rielaborazione di chi ci informa. Che si tratti di cose vicine o lontane, non fa differenza. Sarebbe sbagliato pensare che testimone genuino sia quello che parla di fatti più recenti; o quello che per qualche motivo ha “congelato” i ricordi del passato non aprendo per anni il cassetto che li conteneva; o ancora quello legato da sentimenti di amicizia e sincerità con l’intervistatore. Il ricordo è una sorta di principio attivo; trasforma la materia, i giudizi, le parole. Il compito dell’intervistatore non è muovere alla scoperta dell’esperienza primigenia o del “primo ricordo originale e fedele” ma quale sia il significato delle parole – il “processo di fabbricazione” di cui scrive la Wolf – usate dal testimone per riferire i “fatti”.
vitaliano freguglia dice
Chi non si occupa di storia orale non si consideri in salvo. Questo il sugo che ho tratto dalle riflessioni di Calegari. Le carte scritte possono essere soggette altrettanto, se non di più, a manipolazioni, fraintendimenti ecc. A volte casuali, a volte maliziosi, ecc. tanto più certi quanto più lungo e tortuoso è stato il passamano. L'invito fermo (e sottile) di Calegari a non "inquinare" insomma va preso sul serio da tutti. Dice: non mi tange, io sono modernista. Cosa vuoi modernistare, benedetto?