di Giuseppe Zaggia
Per molti la guerra non finisce il 25 aprile, né l’8 maggio 1945. Per i prigionieri, per esempio, ci vorranno ancora settimane o mesi per rientrare a casa e riavviare una vita in tempo di pace. È il caso di Giuseppe Zaggia, di cui abbiamo già presentato alcune pagine su questo sito: dal suo diario abbiamo tratto un ricordo dell’8 settembre 1943. Quello stesso mese fu arrestato a Mestre, quindi internato prima in Polonia e poi in Germania per aver rifiutato di aderire alla Repubblica sociale fascista e di servire il Reich nazista. Alla fine dell’aprile 1945, cominciano a circolare nel campo notizie dall’Italia: “grande ansia, e entusiasmo”. Si muore ancora; in Germania la guerra prosegue; prigionieri trasferiti da un campo all’altro; gesti di guerra: torture e qualche prova di solidarietà; sentimenti contrastanti verso i tedeschi; la guerra finalmente si ferma; tentativi di tornare a casa subito.
28 aprile.
Tempo piovoso. Oggi 28, pioggia tutto il giorno e una grandinata di mezz’ora.
Grande ansia, e entusiasmo, per le notizie dall’Italia. E Venezia? Che sia liberata? Ci si rode l’anima al pensare che avremmo potuto anche noi essere là e agire e invece, ormai, non c’è più nessuna speranza. Troppo tardi, e non abbiamo servito a niente.
Questa notte, dalle 1 alle 2, farò la veglia funebre al ten. col. Basadonna, morto ieri all’infermeria per intossicazione gastrica e broncopolmonite.
29 aprile.
Quando sono uscito questa notte per la veglia funebre, nevicava fitto con vento diaccio da nord. La salma era già chiusa nella bara: una coperta grigia sopra e una bandiera tricolore.
Tempo infame tutto il giorno. E freddo.
Quasi tutta l’Italia è libera!
1 maggio: La marcia della morte.
Arrivano al campo, quasi ogni giorno, ufficiali e soldati dispersi: fuggiti dalle colonne che i tedeschi, all’ultimo momento, tentavano di trascinarsi dietro, a piedi, nella loro fuga; fuggiti da campi abbandonati, salvatisi da campi dove le S.S. hanno fatto strage.
È arrivato il S.tenente P. già mio compagno a Fürstenberg, a Przemysl e a Hammerstein. È in condizioni pietose. Portato, da Hammerstein, in un campo sull’Oder, fu denunciato alla Gestapo – per propaganda antitedesca – da un altro sottotenente italiano, certo N. Non volendo confessare né citare presunti complici, fu bastonato. Quindi gli torsero le braccia fino a slogargliele; ha l’avambraccio destro spostato di mezzo giro. Poi lo legarono, disteso, e per ore e ore lo bastonarono sulle piante dei piedi. Perse la conoscenza. Quando rinvenne aveva perso la vista, né riusciva ad articolare parola.
Fu ricoverato all’infermeria dove i tedeschi, come unica cura, lo immergevano ogni mattina in acqua diaccia, lo tenevano per ore disteso su una tavola di pietra e lo reimmergevano poi nell’acqua.
Solo la vista, poco a poco, gli tornava. Una tremenda congiuntivite gli impediva di tenere gli occhi aperti, uno stato di cispa glieli sigillava, come ceralacca.
Capiva che la diabolica cura tedesca lo avrebbe fatto morire. Chiese di uscire dall’infermeria.
Un soldato tedesco, preso a compassione, cominciò a fornirgli un po’ di acqua borica, ma le S.S. minacciarono di morte il soldato. Fu costretto ad adoperare il mezzo litro di acqua sporca che il comando del campo assegnava ai prigionieri quale razione per lavarsi e per bere.
Con l’avanza russa sull’Oder, i tedeschi decisero di sgomberare il campo e di trasferire i prigionieri verso l’Elba. Una colonna interminabile di relitti umani si mosse a piedi, sulle strade coperte di neve, sospinta dalle S.S., torturata dalla fame, dal freddo e dalla stanchezza. Chi cadeva, veniva ucciso con un colpo di pistola alla nuca. Fu la marcia della morte.
Si fermavano, la sera, in cascinali abbandonati, dove altre torme di prigionieri avevano sostato. Si gettavano in terra, gli uni addosso agli altri, sul sudiciume e sullo sterco di coloro che li avevano preceduti.
Mangiavano qualche patata – non più di tre al giorno – e una fetta di pane quando capitava. Un giorno sopravvenne un’epidemia di diarrea: si lordavano camminando. Più della metà morì durante il viaggio.
Al nuovo campo, visto che quasi tutti gli arrivati erano moribondi e che non se ne sarebbe potuto ricavar niente, i tedeschi pensarono di abbreviare l’agonia: misero in funzione le camere a gas e i forni crematori.
I resti, non ceneri, ma ossa calcinate, scheletri intieri su cui restavano attaccati ancora brandelli di pelle e di stracci, venivano accatastati in una grande rimessa.
P., riuscito a fuggire da un mucchio di uomini destinati alla camera a gas, si stese mezzo nudo in un carro nel quale erano già caricati gli scheletri cremati e attese. Altri scheletri, altre ossa, gli vennero buttati sopra. Quando il carro fu pieno, venne trascinato alla rimessa e scaricato.
Visse così, tra scheletri e ossa, dieci giorni. Quando i tedeschi abbandonarono anche quel campo, fuggì.
Non è pazzo, ma ha un continuo e strano tic nervoso: si scuote, agitandosi tutto, come per scrollare di dosso qualcosa di estremamente fastidioso e repellente.
2 maggio: Donne di Berlino.
Nei dintorni del campo, incontriamo spesso molti bambini tedeschi, biondi e paffuti, che giocano tra loro o camminano sorridenti, tenendosi per mano. Qualcuno talvolta ci corre incontro, ilare e festante, e tende le mani. La voglia di prenderlo in collo, allora, quasi ci vince. Donne passano, incerte se guardarci in viso e salutarci e non sanno se sorridere o abbassare gli occhi.
Pensiamo che il popolo tedesco è il carnefice di tutta l’Europa e che quei bimbi e quelle donne appartengono a quel popolo, sono quel popolo.
Eppure…
Ci racconta un soldato, reduce da Berlino dove è stato fino al mese di ottobre dello scorso anno a sgomberare macerie, che alcuni episodi di carità umana e di gentilezza, li lasciavano perplessi e attoniti, come manifestazioni di saggezza in un pazzo.
Dopo i bombardamenti, i prigionieri italiani, come i russi, venivano condotti in isquadre, vigilate da vecchi tedeschi con fascia al braccio e lunga pistola alla cintola, nelle strade dei quartieri colpiti e là, con badili, con picconi, con le mani, dovevano togliere le macerie che ostruivano la strada e ammucchiarle in alti argini sui marciapiedi. Gli italiani erano laceri e affamati, le mani piagate dalle pietre e dalle scheggie di legno e di ferro. Lavoravano taciturni, disperati. Donne tedesche si aggiravano tra le rovine e cercavano di recuperare qualche cosa che potesse ancora servire.
I prigionieri italiani pensavano alle loro donne e ai loro bambini. La vista di tanta sciagura stringeva loro il cuore.
Il vecchio guardiano dal bracciale guardava, sospettoso e, se ci pensava, urlava ai prigionieri italiani perché lavorassero più in fretta. Il mattino, i soldati italiani trovavano, nascosti tra le macerie, pacchetti di carta, involti di sacco e, apertili con cautela, curvi per non farsi vedere dal guardiano, vi scoprivano pezzi di pane, margarina e qualche sigaretta.
Da lontano le donne levavano un momento la testa verso di loro, guardinghe e caute, e indicavano con rapido gesto un punto fra le macerie: là c’era un pacchetto. Per tutti i giorni che durò lo sgombero, le donne prepararono i pacchetti e li nascosero fra le macerie. Venivano prima dei soldati, avanti l’alba, e li aspettavano, nascoste, per indicar loro, da lontano, dove cercare.
6 maggio [ma deve essere una svista per 8 o 9 maggio, Ndr]: Ansia del ritorno.
Giornata afosa di sole e nuvole.
Di ritorno da una breve passeggiata, apprendiamo che la guerra in Europa è finita. Più esattamente, che è stata posta ufficialmente la parola «fine» a questa guerra che ormai da alcuni giorni stava esalando gli ultimi respiri. Non è stata la fine che avevamo sognato: un annuncio inaspettato, folgorante, un mattino appena alzati o una sera prima di andare a letto.
Ormai, dopo un mese dalla liberazione, dopo la fine della guerra in Italia, dopo le avvisaglie di resa, dei giorni scorsi, l’annuncio della fine, procrastinato da un giorno all’altro, era scontato. Perciò siamo lieti, ma senza urla e salti, e abbiamo un desiderio, una voglia struggente di andare a casa, di tornare, che supera e attutisce ogni altra emozione.
12 maggio.
Tempo bellissimo e caldo estivo. Non riesco più a stare quieto.
L’ansia di tornare a casa non mi dà pace un momento. Abbiamo nuovamente ripreso il progetto, Marchesin, Genovese ed io, di tentare di raggiungere l’Italia con i nostri mezzi. La cosa è decisa, nonostante le difficoltà evidenti e il viaggio lunghissimo.
Ieri, 11, sono stato a un soffio dall’abbandonare gli amici e il campo e di tentare da solo. Mi sono calmato verso sera.
Stamani, 12, ero ancora sulla brace. Poi Marchesin ha deciso che corre voce (una voce riportata da xxx) che a Lingen il Comando inglese concede lasciapassare ai prigionieri, che intendono raggiungere il loro paese con i propri mezzi. Non ci ho creduto, ma non potevo più stare fermo e sono partito (a piedi e senza niente) per Lingen [Ems]. Presso Dalom [deve essere Dalen], un autocarro canadese mi ha preso a bordo e, chiacchierando con il conducente, ho appreso che andava verso sud, attraverso l’Olanda. Non ho potuto resistere alla tentazione (la rosa, troppo in boccio, pareva non dovesse avere spine) e ho passati Lingen e Nordhorn. A tre Km. Da Nordhorn, frontiera olandese. Un «provost», fermato l’autocarro e fattomi scendere. Pregato tornare a Nordhorn e presentarmi al Governatorato Militare. Governatorato militare fattomi fare colazione con piane bianco, burro, marmellata, tè e latte e invitatomi a tornare al mio campo. Lasciato Nordhorn alle due su un autocarro della RAF. Sceso a Lingen perché autocarro aveva destinazione diversa. Andato a cercare il distaccamento militare 509 DPC e, dopo molto girare, trovatolo. Parlato con italiani, ufficiali e truppa (pochi) là raccolti con DP di tutte le razze e di ambo i sessi, e avuto conferma del rilascio del lasciapassare. Però troppo tardi e ufficio chiuso. Lasciato Lingen alle 8 e trovato autocarro, il quale, facendo strada diversa da quella a me nota e non passante per Gross Hesepe, mi mette a terra a Meppen. (Porta i segni della battaglia come Lingen). Da Meppen a Gross Hesepe a piedi, seguendo un binario della decauville. Giunto al campo – ansiosamente atteso – alle 23.
Nota. Tratto da Giuseppe Zaggia, Filo spinato, Rialto, Venezia 1945, pp. 242-247.