di Giannarosa Vivian
Tola da lavàr, asse di legno (cm 74×46) da appoggiare sopra i due manici di un mastello per il bucato; in alto, il posto per il sapone. Ha due facce: quella con la scanalatura serve per poter strofinare i panni più pesanti, dopo averli insaponati; quella liscia viene usata per la biancheria più delicata. Chi lava si mette dietro, in piedi. È fatta con un’unica tavola (di pioppo?).
Apparteneva a mia mamma, molto probabilmente l’aveva fatta suo papà, per molti anni falegname in un cantiere di barche.
Nei primi anni Cinquanta era collocata all’aperto, in un cortile a Pellestrina; quando si faceva “la lìssia” (in un grande recipiente si versa acqua calda, sapone in scaglie, cenere per sbiancare la biancheria), le operazioni erano svolte dalla bisnonna assieme alle altre donne di casa.
Pochi anni dopo, la tola da lavàr prese posto sopra un mastello di metallo zincato collocato sotto la pergola di uva fragola nel giardino della nuova casa (dell’INA Casa) in Villaggio San Marco, a Mestre: ai bordi del giardino erano impiantati fiori (zinnie, dalie, portulaca, garofanini), le gombine al centro erano dedicate agli ortaggi.
Verso la fine degli anni Cinquanta la tola da lavàr si spostò in un nuovo appartamento. In assenza di uno spazio esterno, trovò posto sopra un mastello stavolta di plastica, per non rovinare lo smalto bianco della nuova vasca da bagno in cui era sistemata; quando non serviva, veniva messa in ripostiglio, appoggiata “di coltello” alla parete.
Nel 1960 nacque mia sorella. Mia mamma continuava a fare la sarta in casa e mio papà il cuoco stagionale. Dopo lunghe discussioni (“non sarà un lusso?”) entrò in casa una lavatrice Candy (il frigorifero Zoppas era arrivato pochi anni prima). La tola da lavàr finì in garage e non venne più usata.
Alla morte dei miei, passò a me, figlia primogenita. Ora si trova fra biciclette, attrezzi da giardino, giocattoli e cianfrusaglie.