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urbanistica

Incontrare i Manteros di Barcellona alla Biennale di Venezia 2023

29/07/2023

Maria Marchegiani e Anna Maria Mazzucco, del gruppo Voci fuori luogo di storiAmestre, ci raccontano la visita alla mostra “Seguint el peix / Following the fish/ Seguendo il pesce” ospitata nel Padiglione della Catalogna della 18° Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. La mostra presenta l’esperienza di un gruppo di immigrati senegalesi a Barcellona che ha fondato la cooperativa Top Manta e ci fa capire come nell’affrontare i problemi della convivenza tra culture diverse sia importante l’ascolto, la condivisione, la capacità di pensare insieme nuovi progetti che possono partire da iniziative di un piccolo gruppo ma hanno bisogno del sostegno di altri gruppi e delle istituzioni per restare in vita e crescere.

 

 

Maria Marchegiani e Anna Mazzucco

 

L’obiettivo principale del Gruppo Voci fuori luogo è stato, fin dalla  sua costituzione, favorire incontri ed esperienze comuni tra cittadini italiani residenti a Mestre- Venezia e cittadini provenienti da altre parti del mondo che vivono e si muovono negli stessi spazi, nella stessa città. Incontri ed esperienze in grado di aprire dei varchi di conoscenza reciproca per dare alla comunità cittadina tutta, così variegata e composita, un nuovo respiro che permetta di guardare agli altri con fiducia, di vivere insieme nel confronto tra molteplici modi di pensare e relazionarsi. In questa ottica sono state già promosse varie occasioni di incontro con comunità di cittadini stranieri.

 

 

locandina della mostra

L’ultima, in ordine di tempo, è stata la visita realizzata il 20 maggio 2023 alla mostra ospitata nel Padiglione della Catalogna come Evento Collaterale della 18° Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Si tratta di un progetto particolarmente interessante curato dalla Casa di Produzione Leve in collaborazione con la Cooperativa di migranti senegalesi Top Manta e prodotto dall’Istituto Ramon Llull.

La mostra, dal titolo “Seguint el peix / Following the fish/ Seguendo il pesce”, presenta l’esperienza di un gruppo di immigrati senegalesi a Barcellona che, dopo un lungo periodo di vita difficile senza documenti, vendendo merce stesa su lenzuola lungo le strade della città, si sono costituiti in cooperativa trovando nell’unione in gruppo forza, energia e visibilità – pur incontrando ancora problemi sul piano del riconoscimento legale – e riuscendo a dar vita a un proprio marchio per la produzione di T-shirt, scarpe e altro. Il nome della cooperativa è Top Manta. Manta in catalano significa coperta/telo, a ricordare i teli stesi a terra per l’esposizione della merce, mentre l’aggettivo Top sottolinea, a noi pare, la volontà di emergere per rendersi visibili.

All’inaugurazione della mostra era stata invitata la Casa di Amadou di Marghera che aveva curato i rapporti con gli organizzatori. Grazie a Gianfranco Bonesso, l’invito è stato esteso a molte associazioni del territorio aperte alle problematiche della convivenza con comunità straniere, tra cui ricordiamo Emergency, Mediterranea, Articolo 19, Associazione Trevisanato, Agesci, Mce, Auser, Tavolo Comunità Accoglienti…. e Voci fuori luogo.

La visita fin da subito si è rivelata una importante occasione per conoscere soluzioni alternative e creative ai problemi di vita e lavoro che gli immigrati si trovano ad affrontare nei paesi in cui giungono e per confrontarsi con gli stessi protagonisti dell’esperienza catalana, la cui presenza nel padiglione ha reso più vivo e fecondo l’incontro, grazie alla possibilità di parlarsi, dialogare, scambiarsi racconti.

Entrati nel Padiglione guidati dai curatori della Casa Produttrice Leve, ci siamo trovati di fronte a una serie di teli bianchi, mantas, sospesi come bilance da pesca, sulla cui superficie sono dipinte immagini e parole che ricostruiscono la storia dei giovani manteros dalla loro partenza dal Senegal al loro arrivo in Spagna, con le tante difficoltà incontrate e le tante prove di superamento delle stesse.

                                                           Il padiglione della mostra Top Manta

Le bilance esposte che si vedono nella foto, si possono chiudere e sollevare a imitazione delle mantas che i giovani venditori, costretti dalle stesse leggi dei paesi europei ad essere venditori illegali, in gran fretta raccoglievano dalla strada, all’arrivo della polizia, in un grande fagotto unendo gli angoli e proteggendo così la merce in vendita dalla confisca.

Le mantas-bilance chiuse e sollevate

Le mantas, così sospese nell’ampio spazio del Padiglione, sembrano davvero bilance da pesca, ma l’immaginazione può trasformarle in vele gonfiate dal vento. In questo modo si richiama il titolo della mostra “Seguendo il pesce”, quel pesce che le compagnie occidentali depredano nel golfo di Guinea, al largo delle coste del Senegal e della Guinea, privando le popolazioni locali di una loro importante fonte di sostentamento e spingendole all’emigrazione in quegli stessi paesi occidentali che non le accolgono ….. ma le sfruttano.

Partono soprattutto giovani maschi, con un grande vigore fisico e grande determinazione, forza d’animo e fiducia nel futuro che mirano tenacemente a costruirsi. Ma tra loro ci sono anche giovani donne, come ci ricorda un pannello sospeso sopra una manta che riporta una riflessione che ci ha colpite: “Le donne non sono esseri deboli, non sono esseri inferiori. Credo che una donna che decide di partire, che riesce a fare tutto il viaggio e ad arrivare qui, non sia una donna debole; è una donna forte e coraggiosa che vuole farlo. Quelle che sono arrivate qui hanno dei meriti e ce li hanno anche quelle che sono rimaste nel mare”.

Un altro pannello ci ricorda che il fenomeno dell’emigrazione tocca non solo chi parte ma anche chi continua a vivere nel paese, aspettando notizie, pregando per il buon esito del viaggio, sperando che i sogni si realizzino, riferendosi in particolare alle donne, madri, mogli, sorelle rimaste a casa: “ Ci sono anche le donne che restano nel Senegal e che aspettano notizie da quelli che sono partiti. È un aspetto poco considerato. Donne che aspettano per molti anni. Donne coraggiose, che fanno grandi sforzi per poter mantenere i figli. Una situazione di lunga attesa che si potrebbe compensare se i mariti o figli venuti in Europa potessero lavorare subito. A questo fatto si aggiunge la difficoltà di fare il ricongiungimento familiare. La Fortezza Europea non solo punisce chi sta qui, ma anche chi resta a casa”.

Come i pesci pescati e sottratti ai paesi africani, per trasformarli in mangime per l’acquacoltura europea, i giovani senegalesi seguono le rotte della diaspora che li spingono a cercare nuove possibilità di vita, in paesi e città diversi dal loro mondo di provenienza. Una manta, bellissima, mostra dipinto sulla sua superficie bianca un villaggio, dove le case nere sono tra alberi neri con ampie radici e zone erbose verdi, dove gli animali anch’essi neri pascolano pacifici guidati dai pastori, dove gruppi di lepri rosse corrono veloci… e dove in primo piano un grande banco di pesci azzurri scivola lento.

Villaggio senegalese, nei ricordi dei giovani manteros

Un’altra manta con linee rosse e tratti blu evidenza i viaggi delle migrazioni, alcuni giunti a buon fine, altri purtroppo interrotti spesso tragicamente. Il mare diventa la tomba di giovani vite partite con tanti sogni, dei quali non rimane nemmeno il nome: “Non esiste nessun registro o canale pubblico che permetta ai familiari delle persone scomparse sulla “ruta canaria” (nota) di chiedere informazioni o denunciare i fatti. Non si dà importanza alla loro identificazione, dato che molte volte vengono seppellite in fosse comuni o loculi senza nome”. 1

 

 Le vie delle migrazioni

Altre mantas mostrano disegni di borse, scarpe, cappelli che i manteros producono e vendono. Con la loro creatività i giovani senegalesi della cooperativa Top Manta hanno dato vita a modelli originali di capi d’abbigliamento che non possono essere accusati di essere copie illegali di marchi famosi, accusa che sta sempre alla base delle confische della merce da parte della polizia. Nella foto riportata sotto potete vedere una t-shirt di cui ci ha colpito la scritta: “LEGAL CHOTHING ILLEGAL PEOPLE”. Nella stessa foto si vedono in alto appese a dei fili parecchie t-shirt colorate col marchio Top Manta con scritte differenti.

 

                      Magliette Top Manta, perfettamente legali                       

Il nostro sguardo è immediatamente attirato poi da una manta in cui campeggia una grande scritta: “I DIDN’T DREAM OF BEING A MANTERO” accompagnata da altre tra cui “HOY NO HEMOS SALIDO A VENDER, HEMOS SALIDO A PEDIR LIBERTAD oppure AQUI’ SE TORTURA COMO EN LA DICTADURA!”.

 

                                                                                  Non sognavo di essere un mantero

Infine, vogliamo ricordare una manta che ci ha colpito anche per i suoi vivaci colori: rappresenta le risorse dei paesi africani, tra cui il petrolio, l’oro, i diamanti, il cotone e tanti, tanti pesci colorati, di forme diverse che sembrano nuotare in mezzo a tanta abbondanza. Tutto oggetto di sfruttamento da parte dei paesi ricchi.

 

Le ricchezze dei paesi africani, depredate dai paesi ricchi

 

A Barcellona l’ostinazione e la determinazione dei giovani manteros a dare valore alla loro vita, ha trovato accoglienza nell’Associazione Ramon Llull che ha sostenuto e prodotto il progetto Top Manta, curato dalla casa Produttrice Leve, progetto che si è allargato anche alla collaborazione con altre Istituzioni, tra cui il Comune di Barcellona e l’Università di Architettura della città, che ha curato la seconda parte della mostra. Questa parte presenta progetti urbanistici e architettonici progettati ascoltando e seguendo i modelli culturali senegalesi che si fondano sull’uso di spazi collettivi, in cui l’accoglienza, lo scambio sociale, il confronto, il mangiare insieme, la polifunzionalità degli spazi di vita si contrappongono all’individualismo e alla frammentazione degli spazi di vita occidentale. “In Senegal siamo tanti, siamo uniti. Abbiamo l’abitudine di stare insieme e a casa di tutti. Non sai mai dove mangerai ma ovunque ti trovi mangerai. La sfida è come portare questi valori a Barcellona, per vedere come possiamo trasformare le nostre mura in qualcos’altro. Qui è tutto frammentato, non conosci la persona che abita dall’altra parte del muro. La frammentazione europea rende difficile trovare spazi comuni, ma se sei pronto a condividere vivi meglio.”

Dall’ Università di Architettura sono state individuate tre sfide.

La prima riguarda la ridefinizione delle mense sociali seguendo l’abitudine che avevano questi giovani di incontrarsi e mangiare insieme. "Da molto tempo, la comunità dei venditori ambulanti pensava di trasferire questa pratica in un locale aperto, di quartiere e replicabile. Un luogo accessibile a tutti, che accolga e favorisca gli scambi, che produca una cucina variegata fatta di prodotti locali".

La seconda, chiamata teranga, prevede delle residenze collettive temporanee per offrire cure e sostegno a chi è appena arrivato in città perché non si perda. "Un luogo di qualità dove trascorrere il tempo necessario per ricomporre una vita. Una casa sempre aperta".

La terza sfida, chiamata sutura, prevede la conversione di locali a piano strada come catalizzatori di usi sociali trasformativi.

"La sfida ha preso forma osservando il retrobottega del negozio “manter” nel quartiere del Raval. Uno spazio che risolve il problema del magazzino, ma che è diventato una piccola struttura sociale. E’ il luogo dove ci si incontra, si organizzano le lotte, si preparano i manifesti, dove ci si riposa, si prega, si fanno i compiti, si caricano i cellulari, si mangia. Attività che garantiscono la loro presenza al piano strada, aperte a tutti, dove si può stare insieme. Questo modello, raro, sottovalutato, quasi inesistente nei generici esercizi commerciali, fa parte di un’idea di comunità che migliora la qualità della nostra convivenza. Una strategia che dota il quartiere di un sistema locale di spazi commerciali rimasti vuoti finora. Soluzioni di piccole dimensioni, strutture diffuse e ibride".

Al termine della visita, vi è stato un lungo parlare insieme tra i giovani senegalesi e i rappresentanti delle diverse associazioni presenti. I manteros hanno raccontato la loro esperienza, le difficoltà, i problemi aperti, i progetti che hanno in animo, rispondendo alle numerose domande che si incrociavano nel confronto. Sentire la loro voce, i loro racconti, i loro nomi, vederli fieri del loro lavoro e della loro cultura, orgogliosi dei risultati finora ottenuti, sia pure parziali, convinti nel proseguire in questo percorso, ci ha fatto capire che qualcosa può succedere e cambiare nelle relazioni all’interno delle città. Un qualcosa in cui tutti ci guadagnano: i manteros che possono sentirsi più sicuri sul piano economico e del riconoscimento della loro presenza e la città di Barcellona che collaborando può rivitalizzare una parte della città e favorire una migliore convivenza tra tutti i cittadini.

Ma ci ha colpito anche constatare, con un certo sconforto, che le traversie e le fatiche dei migranti si somigliano tutte alle varie latitudini e longitudini, dove i paesi ricchi e nello stesso tempo bisognosi di forze giovani per il loro stesso sviluppo hanno ancora un lungo cammino da affrontare per aprirsi all’accoglienza, alla dignità del lavoro, al riconoscimento dei diritti fondamentali. Ci è parso anche evidente che il cammino per trovare le soluzioni è di certo lento e tortuoso, richiede sofferenza, tenacia e forza d’animo, ma è possibile percorrerlo se vi è l’apertura di istituzioni, associazioni, gruppi di cittadini che vedono, non chiudono gli occhi, si mettono in gioco e offrono un appoggio che, come nel caso di Top Manta, può essere determinante per dare visibilità al problema della convivenza civile e dignitosa tra comunità di provenienza diversa nella medesima città.

L’Associazione Ramon Llull, la Casa Produttrice Leve, il Comune di Barcellona, l’Università di Architettura hanno amplificato la voce dei giovani senegalesi che già con il loro impegno, costituendosi in cooperativa, avevano fatto un passo importante verso il riconoscimento della loro presenza e del loro lavoro nella città di Barcellona. Avevano conquistato il diritto al riconoscimento del loro nome, messo per iscritto sull’atto di costituzione della cooperativa, e quindi della loro identità, fino ad allora ignorata ed invisibile. Avevano dato dignità al loro lavoro e offrivano anche la possibilità ad altri migranti di trovare aiuto, accoglienza, lavoro.

NOTE

1. Per identificare i migranti morti in mare è stato costituito in Italia il Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense) dell’Università di Milano, braccio tecnico dell’ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse del ministero dell’Interno, che ha iniziato lavorando sui corpi dei morti nei naufragi di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015. Per raccontare la sua esperienza Cristina Cattaneo, a capo del laboratorio, ha scritto il libro Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, Raffaello Cortina Editore, 2018.

NOTA DELLA REDAZIONE

La foto: Il padiglione della mostra Top Manta è di Flavio Coddou.

Le altre foto sono di Maria Marchegiani e Anna  Maria Mazzucco.

Le parti del testo in corsivo  tra " sono citazioni dai pannelli espositivi della mostra.

 

 

 

Archiviato in:Anna Mazzucco, Maria Marchegiani, Voci fuori luogo Contrassegnato con: andare a vedere, biennale, la voce migrante, mostra, urbanistica

Un bene comune non è uno spazio vuoto: il campo di calcio del Real San Marco.

31/05/2023

di Paola Sartori

Paola Sartori presenta, attraverso testimonianze e dati quantitativi, il valore civico del progetto di Villaggio San Marco elaborato dagli architetti Luigi Piccinato, Giuseppe Samonà, Egle Renata Trincanato e la funzione sociale dello spazio, vincolato dal progetto a verde pubblico, dove per decenni si è allenato il Real San Marco e dove ora la Giunta del Comune di Venezia, con una variante urbanistica al piano, ha dato il via libera alla costruzione di una Torre ad uso commerciale ed abitativo, togliendo un bene pubblico alla città.   

L'intervento continua l'analisi storica di questo spazio conteso, avviata nel sito dalla lettera di Lucia Gianolla, dagli interventi all’assemblea pubblica del 3 maggio 2021 che si è opposta al progetto di Torre in quanto priverebbe il quartiere e la città di uno spazio pubblico dove poter sviluppare relazioni sociali e dall'articolo di Piero Brunello, Quartieri invisibili, città immaginate. Considerazioni a partire dall’assemblea del Villaggio San Marco, (3 maggio 2021).

 

 

In questi ultimi mesi molte sono le questioni che fanno discutere i cittadini della terraferma veneziana e soprattutto di Mestre: dai problemi legati allo spaccio di eroina e alla sicurezza variamente intesa, fino a quelli inerenti l’idea urbanistica e sociale di città: dal Buco dell’ex ospedale Umberto Primo1, alla bocciatura europea per il finanziamento, via fondi PNNR, del così detto Bosco dello sport alla prospettata Torre del Villaggio San Marco.

Sono temi non nuovi per la città, che facilmente riportano alla mente altri interventi drasticamente problematici, tipo l’abbattimento in una notte del Parco Ponci2. L’idea che ha dominato la Mestre del secondo dopoguerra sembra permanere a dispetto di ogni cambiamento culturale, sociale ed economico: un territorio da “occupare” perché privo di significatività, storia e memoria e chissà, forse allora, anche di significative interlocuzioni da parte dei suoi cittadini.

Rispetto alla seconda metà del Novecento però oggi, a Mestre, le prese di posizione di diversificati gruppi di cittadini non sono mancate soprattutto relativamente al progetto di costruire una Torre di 70 metri, poi ridotti a 60, nel bel mezzo del Villaggio San Marco, considerato che, come ben scriveva Piero Brunello in questo sito, “Il campo su cui un costruttore ha messo gli occhi per costruire una torre di oltre 70 metri, con l’appoggio della Giunta comunale di Venezia, non è uno spazio vuoto e quindi da edificare, bensì un’area pensata per il quartiere fin dal progetto costitutivo del Villaggio San Marco nei primi anni Cinquanta del Novecento”3. Si tratta infatti di un terreno destinato a “verde” che l’INA Casa, nel 1973, concede in rapporto di occupazione d’area alla società calcistica Real San Marco, sorta nel 1959 e che da qualche anno perseguiva il “sogno proibito” di avere un campo nel quartiere. Infatti fino ad allora i giocatori avevano utilizzato per gli allenamenti, cambiandosi sotto i tralicci dell’Enel, il così detto campo ex Domenichelli, situato in quella che oggi è via Sansovino, bretella che collega Viale San Marco a Viale Ancona. Per le partite casalinghe di campionato (terza o seconda categoria) la società, con le sue varie squadre, era costretta a peregrinare in diversi campi della provincia di Venezia 4.

Prime partite del Real San Marco nel campo Bellio cintato da una corda.

La vicenda di questa prospettata Torre si intreccia variamente con altre mie lontane ricerche ed esperienze. Da un lato mi torna la memoria di alcune ricerche fatte alla fine degli anni Ottanta proprio sul Villaggio San Marco e i processi di inserimento e integrazione dei suoi primi abitanti, pubblicate nel volume La città invisibile. Storie di Mestre5. Dall’altro non posso non ricordare le mie esperienze giovanili, dalla metà degli anni Settanta alla metà anni Ottanta, con le attività e i gruppi che ruotavano proprio attorno al campo di calcio “E. Bellio” del Real San Marco e alla funzione sociale che la presenza della società calcistica, con le sue diverse squadre, ha svolto, in primis per gli abitanti del Villaggio, ma anche per molti altri ragazzi provenienti da diverse zone della città.

Provo quindi a mettere a fuoco alcuni elementi che, a mio parere, rinforzano la rappresentazione che lo spazio di quel campo di calcio, attualmente in disuso perché in attesa di bonifica, non è un “vuoto” che si possa riempire con edifici più o meno alti, ma uno “spazio potenziale” che dovrebbe svolgere la funzione sociale di incontro, scambio e reciproca conoscenza per cui allora era nato e di cui l’oggi, così frammentato e a rischio disgregazione, tanto necessiterebbe per la vita quotidiana dei residenti nel Villaggio, ma anche nell’intera città.

Senza voler tornare sul valore urbanistico del Villaggio San Marco e del progetto elaborato e realizzato allora da Piccinato, Samonà e Trincanato, che altri hanno già ricordato e illustrato, vorrei soffermarmi su come il Villaggio sia stato il primo progetto locale dichiaratamente pensato, e poi costruito, con l’obiettivo di accogliere e integrare nello stesso contesto abitativo persone e famiglie di diverse provenienze.

Molte sono le aree di Mestre e di Marghera sorte negli anni Sessanta e Settanta per dare “casa” ai lavoratori che arrivavano qui per lavorare e alle loro famiglie. Tuttavia nessun altro quartiere è stato progettato pensando ad una struttura urbanistica che metta al centro la vita extralavorativa delle persone, per favorire scambi sociali quotidiani, per sostenere la reciproca conoscenza e l’integrazione, per vivere meglio insieme. Era esplicita, nel progetto, la presenza di spazi intesi come “beni comuni”: un quartiere composto di piccoli nuclei detti “corte” quale prosecuzione della casa all’aperto per favorire così l’integrazione con gli altri, permettere che gli abitanti si riconoscano, si ritrovino all’aperto e vivano assieme6.

L’obiettivo di supportare, attraverso l’impianto urbanistico, i processi di conoscenza e socializzazione tra chi sarebbe andato ad abitare, non era, e non è nemmeno oggi, irrilevante se guardiamo alla provenienza di coloro che per primi tra il 1954 e il 1957 sono andati ad abitare al Villaggio: nelle sole corti femminili e maschili e in piazza Canova, vivevano circa 2400 unità pari a 527 nuclei familiari distribuiti in 492 numeri civici. Una popolazione il cui 38,5% era costituito di bambini e ragazzi di età inferiore ai 14 anni, giusto per dare un significato alla presenza di spazi come quello del campo di calcio.

Se guardiamo, poi, alle provenienze territoriali dei primi abitanti scopriamo che il 40% dei capifamiglia indica come luogo di nascita Venezia-estuario, il 23% Mestre-terraferma, ma un non trascurabile 37% proviene da territori vari tra cui la campagna trevigiana, il sud, altre regioni d’Italia e l’ex Jugoslavia. Provenienze extra territoriali di persone di non recentissima immigrazione, stante che circa l’88 di questi risultava presente già da qualche tempo nel comune di Venezia. Presenza che però non impedisce che “le diverse abitudini di vita, acquisite precedentemente in paese oppure in città, contribuiscano a rendere più eterogeneo il quartiere”7. Eterogeneità confermata anche dai dati relativi al profilo occupazionale dei capifamiglia che a fronte di un 75% di occupati nell’industria mostra un, comunque significativo, 25% di occupati nel terziario.

Trovo assai interessante che questa eterogeneità sia stata pensata e ritenuta un’opportunità fin dalla progettazione del quartiere, perché la storia successiva non solo di Mestre, ma sicuramente italiana ed europea, evidenzia il rischio di inserimenti monoculturali nello stesso quartiere e/o condominio come avvenuto nei decenni successivi. Se intendiamo per cultura non solo le provenienze territoriali/nazionali, ma anche le culture di appartenenza sociale, gli inserimenti monoculturali hanno prodotto isolamento, ghettizzazione e non di rado fenomeni di scontro tra il “dentro” e il “fuori”.

Mi chiedo se si possa imparare qualcosa dalla storia. Aver pensato, allora, di poter accompagnare i processi di interazione e integrazione sociale anche attraverso una scelta urbanistica orientata all’incontro, rappresenta un esempio assai evoluto di intervento di edilizia pubblica. Sottolineo il piano della struttura urbanistica, perché poi, come hanno variamente testimoniato i primi abitanti, il processo di sviluppo di strade, servizi, scuole non è stato rapido e ha causato non pochi disagi alla popolazione, che però ha potuto viverli come “necessari” al processo di crescita umana e sviluppo lavorativo. In questa situazione di disagio, in cui c’erano paludi e dune al posto del viale San Marco e acqua e fango nella stagione invernale, viene in soccorso la struttura urbanistica del quartiere che offre un luogo che privilegia il rapporto con gli altri, almeno con i vicini: la corte rappresenta innanzitutto il luogo di gioco per eccellenza, vissuto dalle madri come posto sicuro, tranquillo dove lasciare i figli, che diventava motivo per gli adulti di sedersi fuori della porta di casa e chiacchierare così tra vicini: “ci si sedeva fuori, seduti sui gradini, si stava fino a mezzanotte, fino a che giocavano, a volte si giocava insieme, altrimenti si stava qua, si ciacolava, si passava la sera…..Con l’arrivo della televisione in alcuni casi la corte diventa un prolungamento della casa che possiede l’apparecchio: andavamo là la sera, con i scagnei, ci sedevamo fuori della porta, perché la mettevano in entrata la televisione”8.

Quel progetto urbanistico aveva pensato anche ad un altro “bene comune”: uno spazio verde che sarebbe potuto diventare ulteriore luogo di incontro e scambio e che, divenuto campo di calcio, ha in effetti esercitato la sua funzione per decenni. Il campo, che si trova nel mezzo del territorio definito complessivamente Villaggio San Marco, fa parte di una zona che comprende la chiesa, il patronato, l’asilo nido, la scuola dell’infanzia, il servizio adolescenti, e la ex sede del quartiere ora sede di ambulatori medici, servizi sociali e spazi associativi, configurando un territorio “di passaggio” tra le corti del Villaggio e i Quartieri San Teodoro e Aretusa, dedicato all’incontro sociale, alla crescita dei più piccoli e dei più giovani.

Quell’area verde ha radunato gruppi di diverse età, dai piccoli pulcini alla prima squadra, passando per i giovanissimi, gli esordienti, gli allievi, favorendo con l’attività sportiva la crescita, il confronto, l’uscita dall’isolamento, l’autostima, l’acquisizione delle regole sociali. Ma soprattutto, all’interno delle squadre dei più giovani, ha permesso a ciascun ragazzo di sperimentare la convivenza tra diversi. Diversi perché il campo ha accolto non solo abitanti del Villaggio, ma molti ragazzi provenienti da diverse zone cittadine, compreso negli anni Novanta il campo di accoglienza dei Rom kossovari di San Giuliano.

Tutti ugualmente desiderosi di giocare, seppur differenti tra loro per contesti di vita: da quelli più consueti della classe operaia, a coloro che venivano da famiglie in condizioni di disagio, fino a quelle con genitori insegnanti o dirigenti. Durante gli allenamenti e le partite, avvenivano incontri e scambi, in primis tra ragazzi, ma anche tra gli accompagnatori adulti. Confronti che talvolta diventavano anche scontri, soprattutto tra gli adolescenti, ma che, se ben guidati dagli allenatori, potevano rappresentare un’occasione di sperimentare le possibilità evolutive, individuali e collettive, insite nei conflitti così detti “costruttivi”.

Ecco perché, quando un paio di anni fa si è saputo del progetto di costruire una Torre ad uso commerciale ed abitativo facendo una variante urbanistica al piano che vincolava lo spazio “a verde”, sono rimasta interdetta.

Da anni si aspettava una bonifica che avrebbe permesso di riprogettare uno spazio ad uso sociale per gli abitanti non solo del quartiere, ma dell’intera città, stante la favorevole ubicazione territoriale dello spazio che ora si trova proprio sulla strada che collega il centro cittadino al parco di San Giuliano, affiancata da una preziosa pista ciclabile.

Forse ingenuamente, forse a causa del mio impegno nei servizi sociali per l’infanzia e l’adolescenza, avevo pensato che sarebbe stato riprogettato uno spazio ad uso sportivo nuovo, magari attraverso un processo di co-progettazione con bambine e bambini, ragazze e ragazzi, giovani e adulti, quasi a compensazione dei molti spazi che sono stati via via soppressi nel centro cittadino.

Il ripetersi di logiche del passato credo sia da considerarsi non rispondente alle attuali esigenze dei cittadini, se non pericoloso. Il lavoro socio-culturale realizzato in città negli ultimi decenni può fungere da base per capire quali siano davvero i bisogni delle nuove generazioni e quali siano gli spazi sociali, ricreativi e di incontro utili agli abitanti di diverse età per sostenerli nel diventare, insieme, cittadini del mondo di oggi.

Che dire? Credo che spetti non solo agli abitanti del Villaggio San Marco mostrare l’importanza di bonificare lo spazio verde e di riprogettarlo a uso dei cittadini, ma a tutta la città e soprattutto a chi potrebbe variamente contribuire ad evidenziare l’importanza urbanistica, storica e sociale di quel territorio. Un territorio che va valorizzato e non stravolto, che andrebbe attualizzato sulle esigenze degli abitanti che non sono, evidentemente, quelle rappresentate dalla costruzione di una Torre di 60 metri ad uso commerciale e residenziale di lusso.

NOTE

1 Si veda in questo sito, 9 maggio 2023, l’articolo di Claudio Pasqual: La chiesetta dell’ex ospedale Umberto I rivive nel “buco nero” di Mestre.

2 La distruzione del parco Ponci in una notte viene raccontata da Stefano Pittarello, in Il sacco bello, CLEUP 2017.

3 Piero Brunello, Quartieri invisibili, città immaginate. Considerazioni a partire dall’assemblea del Villaggio San Marco, (3 maggio 2021), pubblicato su questo sito nella primavera del 2021.

4 Informazioni tratte dal fascicolo 1959-2009 Real San Marco, 50° anniversario- Protagonisti nella storia del calcio a Venezia, redatto a cura di Franco Landi nel 2009.

5 La città invisibile. Storie di Mestre. Atti del Convegno 25-27 marzo 1988 realizzato da storiAmestre in collaborazione con Mce, a cura di D. Canciani, Arsenale, Venezia 1990 . Atti che presentano interventi di P. Brunello, S. Barizza, G. Sarto, F. Piva, M. Mosena Zanin, D. Canciani, R. Blasi Burzotta, C. Puppini, G. Facca, P. Sartori, R. Pellegrinotti, M. T. Sega.

6 P. Sartori, “ I primi anni del Villaggio San Marco”, in La città invisibile. Storie di Mestre, Arsenale Venezia 1990, pg.107.

7 Ibidem, p.109.

8 Ibidem, p.111.

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“Il mio sogno? Una città della cura”. Una chiacchierata sul futuro prossimo di Mestre e Venezia

29/09/2021

di Monica Coin, a cura di Maria Giovanna Lazzarin

Due socie di storiAmestre – una da tempo nell’associazione, l’altra fresca di iscrizione – si ritrovano al parco Hayez in un giorno di fine estate. Maria Giovanna Lazzarin fa qualche domanda a Monica Coin, immaginando quale futuro potrà avere Mestre, alla luce delle ultime decisioni del sindaco e della giunta comunale in carica. “Hub” e “terminal” al posto di parchi e ambienti naturali; “water-front” e “overturismo”; logistica e lavoro precario; una idea “maschile” della città da scongiurare con una idea “femminile”: la “città della cura”.

Domenica 29 agosto 2021 passando in bici per Mestre intravedo un titolo civetta della Nuova Venezia sui due “Hub” di San Giuliano. Volendo capire meglio, compro sia la Nuova che il Gazzettino di Venezia e, leggendoli, noto alcune differenze. 

La Nuova ha in prima pagina, neretto grande: Nuovo terminal per turisti rivoluzione a San Giuliano; dedica l’intera prima pagina di Mestre a questo argomento con uno specchietto sull’attuale traffico passeggeri per Venezia e l’alleggerimento previsto dal nuovo progetto comunale, e due articoli – uno generale, l’altro con le critiche dell’opposizione – sui due Hub: san Giuliano Nord e san Giuliano Sud (cioè i Pili, sui terreni della società Porta di Venezia, parte del trust di Brugnaro).

[Leggi di più…] info“Il mio sogno? Una città della cura”. Una chiacchierata sul futuro prossimo di Mestre e Venezia

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Radici nel cemento e nelle frasi fatte. Consigli di lettura

29/08/2021

di Piero Brunello

Piero Brunello parte da un articolo recente in cui l’urbanista Chiara Mazzoleni mostra come la cementificazione del Veneto proceda a livelli record, a dispetto della retorica del “consumo zero” di suolo sbandierata dal presidente della Regione Luca Zaia: la realtà è ben diversa dalla retorica. Brunello lo affianca a un documento deliberato dal Consiglio regionale veneto nel luglio 2020, 2030: La strategia regionale per lo sviluppo sostenibile: un esempio di strategia retorica e discorsiva che riesce a costruire un’immagine della realtà distante dal vero, a impedire che si crei un’opinione pubblica che sa distinguere i fatti dalla propaganda, e a suggerire l’idea che si tratta di scelte frutto di processi partecipativi (il documento è pubblicato in un  sito intitolato “Il futuro lo decidi tu”).

In un articolo recente, l’urbanista Chiara Mazzoleni spiega come la Regione Veneto, che pure per bocca del suo presidente Zaia dichiara di perseguire l’obiettivo del “consumo zero” di suolo, in realtà continua a registrare i maggiori indici di cementificazione in Italia: i mezzi con cui ciò avviene sono un disinvolto maquillage delle statistiche e delle classificazioni dei terreni, e il ricorso sistematico a deroghe e proroghe normative. 

Mentre Chiara Mazzoleni fa vedere quanto la realtà sia diversa dalle dichiarazioni ufficiali e dal senso comune che esse costruiscono, a me interessa invece far luce sul percorso inverso: vorrei capire cioè come le strategie retoriche e discorsive possano costruire un senso di sé e un’immagine della realtà, che pure abbiamo sotto i nostri occhi, così distante dal vero. 

[Leggi di più…] infoRadici nel cemento e nelle frasi fatte. Consigli di lettura

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In attesa di altre voci. A margine di un commento dell’assessore all’Urbanistica del Comune di Venezia

06/07/2021

di Piero Brunello

Piero Brunello commenta le dichiarazioni dell’assessore all’Urbanistica del Comune di Venezia Massimiliano De Martin riportate dalla stampa il 2-3 luglio 2021, all’indomani dell’approvazione in Consiglio comunale della variante urbanistica che apre la strada alla costruzione di un grattacielo in viale San Marco. Riprendendo le parole dell’architetto Gianfranco Vecchiato di due mesi fa, che si chiedeva se mai IUAV, tra le altre cose depositario “del testamento culturale dei progettisti della pianificazione del Villaggio”, e Soprintendenza interverranno sulla questione, Brunello indica alcuni temi su cui auspica la nascita di un movimento di opinione pubblica sostenuto anche da chi si occupa professionalmente di urbanistica.

L’assessore all’Urbanistica del Comune di Venezia Massimiliano De Martin ha invitato a “festeggiare” dopo l’approvazione della variante urbanistica che apre la strada alla costruzione di una torre di oltre 70 metri e di un ennesimo centro commerciale in un’area prevista a verde attrezzato – in sostanza al tempo libero e allo sport – a metà viale San Marco a Mestre. Secondo De Martin la torre completerebbe il progetto dell’architetto Samonà (M. Chi., «Era l’idea di Samonà. Così rilanciamo il centro e portiamo investimenti», “La Nuova Venezia”, 3 luglio 2021, p. 19, e p. gui., L’asso nella manica di De Martin. «Anche il progettista delle Corti voleva delle torri», “Il Gazzettino”, 2 luglio 2021). 

De Martin è stato eletto al Consiglio comunale con 358 voti di preferenza ed è stato legittimamente nominato assessore dal sindaco Luigi Brugnaro. Perciò ha tutti i titoli per parlare a nome della Giunta comunale, e in primo luogo del Sindaco, ma non può inventarsi maestri e padri e madri (nel gruppo dei progettisti c’era Egle Renata Trincanato) ispiratori che non ha. 

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Quartieri invisibili, città immaginate. Considerazioni a partire dall’assemblea del Villaggio San Marco (3 maggio 2021)

11/05/2021

di Piero Brunello

Piero Brunello riprende alcune questioni sollevate dalla lettera di Lucia Gianolla e dagli interventi all’assemblea pubblica del 3 maggio 2021. Opporsi al progetto di torre varato dalla Giunta comunale nel Quartiere XXV Aprile, sul terreno a lungo utilizzato come campo sportivo, significa contrastare un’idea di città priva di quartieri e di spazi pubblici dove possano svilupparsi relazioni sociali e virtù civiche.

1. Il campo su cui un costruttore ha messo gli occhi per costruire una torre di oltre 70 metri, con l’appoggio della Giunta comunale di Venezia, non è uno spazio vuoto e quindi da edificare, bensì un’area pensata per il quartiere fin dal progetto costitutivo del Villaggio San Marco nei primi anni Cinquanta del Novecento. Lo hanno ribadito gli interventi degli abitanti del Quartiere XXV Aprile di Mestre all’assemblea del 3 maggio 2021, alcuni dei quali abbiamo pubblicato la settimana scorsa. 

Quello spazio fu utilizzato per decenni per lo scopo con cui era stato pensato, e cioè come campo sportivo e di gioco, sia della squadra di calcio del Real San Marco, sia per tornei di quartiere. Qualche anno fa è stato poi recintato perché è risultato essere composto da terreni tossici provenienti da Porto Marghera, come del resto tutto il quartiere, e da allora non è stato mai bonificato, a dispetto delle continue richieste degli abitanti. 

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