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ricordi

“Non ‘sembrava’ gentile, ‘era’ proprio così”. Un ricordo di Paolo Rossi dalla città che ha continuato ad amarlo

16/12/2020

di Elvio Bissoli

Il nostro socio e amico Elvio Bissoli ha partecipato all’omaggio che Vicenza ha dedicato a Paolo Rossi dopo la sua morte, avvenuta il 9 dicembre 2020. Ci ha scritto per ricordare i tempi in cui RossiGol (non ancora Pablito) giocava con il Lanerossi Vicenza, e spiegare perché la città ha continuato ad amarlo, fino a perdonargli perfino di aver vestito la maglia dell’Hellas Verona. Ritratto sentimentale di un giovane calciatore.

Quasi diecimila persone, un lungo serpentone che circondava le mura scrostate del vecchio stadio “Menti”, in attesa di poter entrare nel campo di gioco dove era depositata la bara di Paolo Rossi e salutare un amico tornato nella città che ha continuato ad amarlo, anche dopo tante peregrinazioni in squadre molto più blasonate del Lanerossi Vicenza. Eppure Paolo Rossi (per i tifosi vicentini RossiGol) è rimasto solo tre stagioni al Vicenza, ma nessuno come lui è entrato in sintonia con questa città sonnolenta, un po’ ipocrita e troppo spesso immobile e impegnata a rimirare le sue bellezze architettoniche. Così amato da perdonargli di aver concluso la sua breve carriera (a trentun anni) nell’odiatissimo – calcisticamente parlando – Hellas Verona: il più diffuso quotidiano locale lo ha ricordato pubblicando le sue foto con le maglie di tutte le squadre dove ha militato omettendo, piamente o perfidamente, quella in gialloblù.

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Archiviato in:Elvio Bissoli, La città invisibile Contrassegnato con: Lanerossi Vicenza, Paolo Rossi, ricordi, Vicenza

Spine meticolosamente svitate. Frammenti dell’immediato dopoguerra da carte di famiglia (1945-1948)

30/01/2020

di Andrea Lanza

Il nostro amico e socio Andrea Lanza ha recuperato tra le carte di famiglia cinque lettere ricevute da suo nonno, Giuseppe Lanza, tra il 1945 e il 1948. Ricostruisce così alcune scene della vita di chi era sopravvissuto e riprendeva un’esistenza dopo la guerra e il genocidio. La moglie Ania Goldstein (di origine russa ed ebraica) era morta di tubercolosi nel 1943; il cognato Ramik aveva lasciato l’Italia per gli Stati Uniti all’indomani delle leggi razziali del 1938; la suocera Anastasia era stata deportata dopo essere stata arrestata dalle SS nella casa di cura di Milano in cui aveva cercato di nascondersi. Giuseppe apriva le lettere di chi cercava di avere notizie in una casa ancora spoglia di tutto per via di una requisizione tedesca nel 1944, e ora condivisa con una famiglia di esuli fiumani. I primi passi di una ricerca da fare.

Degli anni del primissimo dopoguerra, non ho che due foto in cui si possa vedere mio nonno, Giuseppe Lanza: una del 1946 e una del 1947. 

La prima, scattata in estate durante una gita fra il lago di Lugano e il lago Maggiore, è una foto di famiglia. Giuseppe porta una camicia a maniche corte e dei pantaloni corti dalla vita altissima. Oggi si direbbe che sembrava molto più vecchio dei suoi quarantasei anni; nato il 16 dicembre 1899, a Valguarnera nell’entroterra siciliano, era stato registrato all’anagrafe il 1° gennaio seguente, evitando così il fronte della Prima guerra mondiale. Dopo il militare si era trasferito “al Nord”, dove si era sposato con Ania Goldstein nel 1935, che morì meno di otto anni dopo. Nella foto, vicino a Giuseppe stanno mio padre Diego, di nove anni, e i quattro membri della famiglia di esuli fiumani che vivevano nel loro stesso appartamento a Milano. 

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Archiviato in:Andrea Lanza, La città invisibile Contrassegnato con: deportazione, Giuseppe Lanza, ricordi, seconda guerra mondiale, storiografia

Uscite di sicurezza. Sui passi dei miei avi, ebrei piemontesi (XIX-XX secolo)

23/12/2019

di Alberto Cavaglion

Ci siamo rivolti al nostro amico Alberto Cavaglion per la nostra tradizionale strenna di fine anno (tra l’altro Alberto ci ha fatto notare che quest’anno Hanukkah coincide con il periodo natalizio).

Cavaglion ci ha permesso di riprendere e rielaborare due saggi – scritti a quasi 25 anni di distanza l’uno dall’altro – per ricavarne uno scritto originale. Letture, documenti e ricordi di famiglia per ripercorrere alcuni aspetti di un secolo e mezzo di storia degli ebrei piemontesi, tra primo Ottocento e Seconda guerra mondiale, seguendo il filo di piccoli spostamenti, di uomini e donne – tra case, botteghe e rifugi – e delle loro masserizie. 

Come sempre quando pubblichiamo saggi lunghi, ne offriamo qui di seguito una breve anteprima, per leggere il testo integrale (illustrato da due documenti), cliccare qui.

Il torto di nascere ebreo diventò un diritto con Napoleone, poi tornò a essere un torto sotto Carlo Felice, per ritornare a essere un diritto con Carlo Alberto e di nuovo un torto con Mussolini. Infine il diritto venne riconquistato con la Resistenza e sancito dalla Costituzione della Repubblica. La storia degli ebrei in Italia è riassumibile in questo processo di andate e ritorni: una vittoria di diritti che si affermano dall’alto (lo Statuto) o si conquistano dal basso (la lotta partigiana) e una sconfitta di torti che ritornano a ondate periodiche fino a esplodere, in forma traumatica, sotto il fascismo.

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Archiviato in:Alberto Cavaglion, La città invisibile Contrassegnato con: Cuneo, Piemonte, ricordi, storia degli ebrei italiani, storiografia, strenna, Vercelli

Il 25 luglio di due antifascisti: in Italia e in esilio

24/07/2019

a cura della redazione di storiAmestre

Ricordiamo l’anniversario del 25 luglio 1943 riprendendo alcune pagine di Emilio Lussu e di Piero Calamandrei. Lussu venne a conoscenza delle dimissioni e dell’arresto di Mussolini il 26, mentre era impegnato in una riunione clandestina a Lione (era esule dal 1929, dopo essere evaso dal confino di Lipari insieme a Carlo Rosselli). Calamandrei ascoltò l’annuncio radiofonico la sera del 25 nella sua casa estiva al Poveromo, sulla costa apuana.

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Archiviato in:Emilio Lussu, Piero Calamandrei, redazione sito sAm Contrassegnato con: 25 luglio, anniversari, antifascismo, diari, pagine scelte, ricordi

Piazza Ferretto. Com’era, com’è

30/05/2019

di Claudio Pasqual

Pubblichiamo il testo dell’intervento che Claudio Pasqual ha tenuto a Forte Mezzacapo, nello “spazio storiAmestre”, durante la festa dell’associazione del 25 maggio scorso. Immagini e usi degli spazi di piazza Ferretto sul filo dei ricordi e delle esperienze dell’autore.

Un’avvertenza: quanto segue non si basa se non marginalmente su una ricognizione nelle fonti; c’è poca ricerca documentaria, scritta e iconografica, dietro le mie parole, molto di più un viaggio nella memoria personale. Attualmente, sarà perché divento vecchio, inclino all’autobiografismo; ed è al periodo giovanile che per una pulsione irresistibile si rivolge il mio pensiero. Considerato il tempo trascorso, e per il naturale decadimento della memoria che si accompagna all’età non più verde, non ci si aspetti una trattazione sistematica: riguardo al passato procedo per singoli fotogrammi, per frammenti, sparsi e sconnessi ricordi personali della mia gioventù. 

Com’era piazza Ferretto quando nei primi anni Settanta il sottoscritto, adolescente nato e cresciuto in periferia, sbarcato in centro con il liceo, ne fa la scoperta? Direi parecchio diversa da quella di oggi. 

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Archiviato in:Claudio Pasqual, La città invisibile Contrassegnato con: descrizione, festa sAm, Mestre, piazza Ferretto, ricordi

Un’officina sotto la chiesa. Figure e affabulazioni teatrali di un quartiere operaio 

11/05/2019

di Gigio Brunello

Riprendiamo i brani iniziali di Vite senza fine, uno dei testi teatrali della “Trilogia su Mestre” di Gigio Brunello, composto e rappresentato la prima volta al Centro Candiani di Mestre nel 2007 e ora pubblicato nel volume Tragedie e commedie per tavoli e baracche (2017). Ricordi di persone e di luoghi, fatti di cronaca sono trasfigurati e messi in scena in un racconto visionario, in cui riprende vita un vecchio quartiere operaio. 

Vite senza fine

Egidio era nato nel 1921 e a dodici anni fu messo sotto padrone alle Officine Darin di San Polo di Piave dove aggiustavano trattori e macchinari agricoli. Divenne un grande meccanico, di quelli che nel novecento ancora riparavano le ali alle mosche. Col tempo imparò a far bene tutto: il fabbro, il calzolaio, il falegname, l’orologiaio, l’elettricista, il muratore. Avevo sempre sognato di raccontare a teatro il suo universo della Meccanica e aspettavo solo l’idea buona. In quel periodo stavo costruendo una grande ruota di mulino per pescare l’acqua dal fiume che passa sotto casa mia. Volevo realizzare una coclea. Avevo tutto in mente ben chiaro: ci voleva una copia conica che moltiplicasse il numero di giri per azionare una pompa di sollevamento e ci volevano buone saldature, cosa non da me. Qualcuno mi suggerì di portare la ruota nei sotterranei della chiesa del Villaggio San Marco, un vecchio quartiere operaio di Mestre, lì avrei trovato quello che cercavo. Mi presentai in chiesa incredulo con la ruota a seguito e si affacciò Sergio in tuta blu. Mi accompagnò in visita alla grande officina allestita nei sotterranei. Una fabbrica sotto la chiesa: era quella l’idea buona per uno spettacolo su mio padre.

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Archiviato in:Gigio Brunello Contrassegnato con: pagine scelte, ricordi, storia del lavoro, storia del movimento operaio, teatro

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