• Passa alla navigazione primaria
  • Passa al contenuto principale
  • Passa alla barra laterale primaria
storiAmestre

storiAmestre

storia e documentazione del tempo presente

  • Chi siamo
    • Informativa sulla privacy e l’utilizzo dei cookie
  • Rubriche
    • La città invisibile
    • Letture
    • Oggetti
    • Centro documentazione città contemporanea
    • Agenda
  • Quaderni
  • Autori e Autrici
  • Altrochemestre

polizia

Da Gezi Park, Istanbul, 27 maggio-10 giugno 2013

14/06/2013

Valentina Marcella intervistata da Elena Iorio

Elena Iorio, socia e membro del direttivo di storiAmestre, ha intervistato la sua amica, Valentina Marcella, che dagli ultimi giorni di maggio partecipa, a Istanbul, alle manifestazioni in difesa di un parco cittadino. Il Gezi Park è diventato un simbolo della salvaguardia del paesaggio urbano, della resistenza a decisioni imposte dall’alto e in base a calcoli economici, a scapito della vita quotidiana dei cittadini, e della libertà di manifestare: in Turchia, ma non solo.

Valentina Marcella è un’amica e compagna di studi che da poco più di un anno ha deciso di trasferirsi definitivamente a Istanbul, città dove aveva già vissuto in passato, per periodo più brevi, e che ormai conosce bene, anche per il fatto di parlare correntemente il turco. Valentina sta per concludere una tesi di dottorato in storia su satira ed esercito in Turchia negli anni Ottanta.

[Leggi di più…] infoDa Gezi Park, Istanbul, 27 maggio-10 giugno 2013

Archiviato in:Elena Iorio, La città invisibile, Massimo Maso, Patrick Adams, Valentina Marcella Contrassegnato con: cronaca, Istanbul, manifestare, polizia, Resistenza

Gustave Lefrançais e Arthur Arnould, comunardi in esilio, parlano della polizia svizzera (1871-1874)

23/04/2009

di Filippo Benfante

Nel suo «Storie di anarchici e di spie», Piero Brunello compara rapidamente l’organizzazione e i modi di operare delle polizie italiana e svizzera negli anni Settanta dell’Ottocento. In conclusione, sottolinea l’assai minore brutalità e invasività del controllo in Svizzera rispetto a quanto accadeva in Italia negli stessi anni. Questo si doveva anche a una diversa concezione dei rapporti tra istituzioni e cittadini (o sudditi) nei due Paesi: «Del resto, ci sarà pure un motivo se gli anarchici italiani scelgono in questi anni la Svizzera come terra d’esilio». Partendo da queste considerazioni, Filippo Benfante presenta due punti di vista sulla polizia svizzera nei primi anni 1870, tratti dai ricordi di due comunardi francesi in esilio, pubblicati qualche anno fa dallo studioso Marc Vuilleumier.
[Leggi di più…] infoGustave Lefrançais e Arthur Arnould, comunardi in esilio, parlano della polizia svizzera (1871-1874)

Archiviato in:Filippo Benfante, La città invisibile Contrassegnato con: Arthur Arnould, Comune di Parigi, Gustave Lefrançais, polizia, ricordi

Storie di anarchici e di spie

06/04/2009

di Piero Brunello

Su concessione dell’editore Donzelli, pubblichiamo un ampio estratto del «Prologo» e un altro breve brano del nuovo libro di Piero Brunello, Storie di anarchici e di spie. Polizia e politica nell’Italia liberale (per una scheda completa del libro, si veda il sito dell’editore, tra le novità). Brunello ha dedicato il suo lavoro alla memoria di Federico Aldrovandi, ragazzo di Ferrara morto a 18 anni, il 25 settembre 2005, durante un controllo di polizia (il processo penale per la morte è tuttora in corso presso il tribunale di Ferrara).

Prologo

Nove uomini, quasi tutti ventenni, si incontrano segretamente in un’osteria di Abano, un paese poco fuori Padova, sulla strada per Rovigo. La polizia, che ne è a conoscenza, li aspetta e li arresta con l’accusa, allora consueta nei confronti degli anarchici, di «cospirazione contro la sicurezza interna dello Stato». Era il 1881, e i tribunali del regno perseguivano l’Internazionale in quanto «associazione di malfattori». I giovani finirono nel carcere milanese di San Vittore.

Pochi giorni dopo il viceconsole di Ginevra Giuseppe Basso manda un telegramma a un dirigente del ministero degli Esteri, a Roma, per chiedere di fare il possibile per liberarli tutti, perché tra di loro c’è un suo agente in partenza per un incontro dell’Internazionale in Belgio. Otto su nove escono dal carcere. Di lì a qualche settimana Giuseppe Basso torna a scrivere a Roma perché sia scarcerato l’unico ancora in prigione, cioè Carlo Monticelli, il promotore dell’incontro. Una volta libero, avrebbe ricevuto da una terza persona i soldi per recarsi all’imminente congresso anarchico di Londra, da dove avrebbe spedito i verbali che sarebbero finiti tra le mani del viceconsole. Monticelli, precisa Basso, non è un agente, ma grazie alla sua «lingua sciolta» il consolato aveva potuto conoscere molte cose. Diversamente da Basso, il dirigente del ministero degli Esteri, che trasmette la richiesta al capo della polizia, definisce Monticelli «confidente del consolato». E Monticelli, di Monselice nel Padovano, è il fondatore dell’Internazionale nel Veneto, primo segretario della Camera del Lavoro di Venezia, autore di poesie e di canzoni, tra cui La Marsigliese del lavoro, entrata nel repertorio anarchico e tuttora conosciuta.
Tra gli arrestati di Abano, oltre a Carlo Monticelli, ci sono due suoi amici: Oreste Vaccari, un ferrarese suo coetaneo, appassionato lettore e collaboratore di riviste della Scapigliatura, e Giuseppe Alburno, scrivano e giornalista di Venezia, l’unico dei nove ad aver passato la trentina. Entrambi sono in contatto col tipografo Carlo Terzaghi, uno dei fondatori dell’Internazionale a Torino, che all’epoca dell’incontro di Abano aveva trentasei anni ed era rifugiato a Ginevra, proprio dove operava il viceconsole Basso1.

[…]

Avrei potuto scegliere l’angolo di visuale del direttore di Pubblica sicurezza a Roma (dal fascismo in poi «capo della polizia»), che smista i rapporti, ricostruisce trame, tralascia alcune piste di indagine per privilegiarne altre. Sul suo tavolo i documenti prendono ciascuno la propria strada. Questo avrebbe messo in chiaro il fatto che è la polizia a scrivere il copione di questa vicenda, disseminandola di trappole, errori e fraintendimenti. Alcuni amici si trovano a pranzo in un locale di un piccolo paese come Abano, in attesa di recarsi la sera a Padova per assistere al Mefistofele di Boito. Di giorno la politica, di sera l’opera. Ma Giovanni Bolis, direttore di Pubblica sicurezza, avvertito con un telegramma, ordina di arrestarli. È lui a isolare quella compagnia di nove giovani, a fissare la scena (l’osteria del giorno e non il teatro della sera), e ad attribuirle un significato: e su quella base produce la documentazione storica. Del resto la polizia non si limita a sorvegliare la vicenda dall’esterno, ma vi è direttamente implicata, come si vedrà, mediante l’utilizzo di agenti provocatori.
Seduto a fianco del direttore di Pubblica sicurezza, invisibile al suo tavolo, avrei seguito la trafila dei documenti dal basso all’alto della scala gerarchica e viceversa, ma non avrei potuto farmi un’idea degli ambienti in cui avvengono le vicende che alla fine confluiscono negli arresti di Abano. Passare da una città all’altra – ogni capitolo una città – mi ha consentito invece di vedere come i primi internazionalisti entrano in contatto tra di loro, e di capire come funziona un controllo di polizia in piccoli contesti e nei rapporti faccia a faccia.

Niente omicidi, niente bombe. Sorveglianza, piuttosto: una sorveglianza muta e perlopiù inavvertita, che produce segnalazioni, fotografie, rapporti, prospetti, schede, bollettini, registri, fascicoli, archivi; una raccolta di dati per quanto misteriosi o poco chiari, anzi, tanto più scrupolosa quanto più il loro significato sfugge.
Osservare, prevenire, reprimere, scoprire: questi gli scopi dichiarati dalla polizia nei primi decenni dell’Unità. Di questi, il più importante – così si leggeva nei manuali – era il primo, e cioè la capacità di osservare «gli indizi che sogliono annunziare il male, prima ancora che avvenga», raccogliendo «anche ciò che sembra di nessuna importanza», «anche il buono e l’indifferente, per districarne il cattivo che vi può essere nascosto, o confuso». Quindi, non solo consuetudine col codice penale, ma soprattutto esperienza nel penetrare «l’indole, gli usi ed i vizi dei cittadini»2. Discrezionalità, in altre parole3.

È importante capire i criteri in base ai quali qualcosa finisce in un dossier. Le donne vi compaiono raramente e, quando succede, sono ritenute delle poco di buono. Le persone istruite e in grado di parlare in pubblico sono giudicate più pericolose di chi non sa né leggere né scrivere. Sono tenute d’occhio le osterie, i bassifondi, i luoghi di assembramento e di ritrovo popolare, gli «oziosi, vagabondi e mendicanti» e tutte quelle «classi pericolose» a cui il direttore di Pubblica sicurezza Giovanni Bolis dedicò un volume di un migliaio di pagine4. Nei movimenti collettivi viene fatta una distinzione tra i mestatori, che perseguono obiettivi personali, in genere per ambizione, dalla massa di creduloni che si lasciano abbindolare. Ogni contatto fuori dell’ordinario, cioè da un’idea di gerarchie sociali immutabili, diventa sospetto. Inutile cercare per esempio notizie sulla frequentazione dei bordelli da parte dei giovani sottoposti a controllo per motivi politici, perché frequentare i bordelli era considerato normale (erano le prostitute le persone da censire e da controllare), e così via.
Altrettanto importanti sono il tono e l’intreccio narrativo. I rapporti scritti sulla base di pedinamenti rendono misterioso qualsiasi incontro. Quanto all’informatore, ha una tendenza professionale a drammatizzare. Più allarmistiche sono le notizie, più il mestiere di spia rende.
Questo è un mondo popolato da avventurieri, bugiardi, doppio o triplo giochisti, millantatori e fanfaroni. Siccome vivono vendendo informazioni, quando non ne hanno le spie ne fabbricano di false, confermando e ingigantendo le paure delle autorità. E così le carte di polizia sono piene di cospirazioni inventate di sana pianta e utili solo a giustificare l’esistenza degli apparati che le prendono per buone5.

Ma questo non deve far perdere di vista che qui si tratta di un controllo reale sulle persone, un controllo che produce pedinamenti, perquisizioni, diffide, denunce, sequestro della corrispondenza, convocazioni in questura, arresti, misure di polizia (dall’ammonizione al domicilio coatto), prove in un procedimento giudiziario. I documenti di polizia costruiscono in altri termini delle verità («il tale si è incontrato con il tal altro in un certo luogo a una data ora»), che hanno conseguenze sulla vita delle persone: non solo in quelle direttamente colpite, ma anche in quelle che ne avvertono la presenza. I fogli, muti negli archivi, a un certo punto cominciano a parlare6.

Gli anni in cui si chiude la vicenda, tra il 1880 e il 1881, segnano una fase importante nell’organizzazione della polizia in Italia. Con Giovanni Bolis alla direzione dei servizi di Pubblica sicurezza, viene istituito infatti un Ufficio politico, prende forma un registro biografico delle persone sospette, le questure cominciano a usare le foto segnaletiche e ad assumere agenti in borghese, e viene organizzato un servizio di polizia internazionale in collaborazione con il ministero degli Esteri. Quest’ultimo servizio era iniziato pochi anni prima proprio dai rapporti di quel Giuseppe Basso, viceconsole di Ginevra, che interviene a favore di uno degli arrestati ad Abano. Chi intraprese la carriera nella Pubblica sicurezza sotto la direzione di Giovanni Bolis ricordò quel periodo come «un’epoca di radicali riforme» e di «rosee promesse»7. Detto in altre parole, in quegli anni si andò costruendo in Italia un sistema di polizia basato sul sospetto e sulla criminalizzazione di chi dissente, secondo una prassi ereditata dallo Stato assoluto, che a sua volta riprendeva procedure inaugurate dalla Santa Inquisizione8. Creando la figura del nemico, gli apparati mettono in riga la società, ribadiscono il controllo sui cittadini e giustificano il mantenimento di una legislazione che reprime e soffoca i diritti civili.

I recenti studi sulla polizia fascista mostrano l’utilizzo sistematico, capillare e generalizzato di delatori, spie e fiduciari di vario tipo9. Queste cose non s’improvvisano. Il regime fascista trovò a disposizione sistemi di sorveglianza, procedure di schedatura, metodi di archiviazione, strumenti preventivi e repressivi, una routine burocratica e in generale un rapporto tra cittadini e Stato che si erano andati costruendo fin dall’Unità, e di cui questo libro offre un’esemplificazione. La polizia politica all’estero, a cui il regime fascista si appoggiò per controllare esuli e oppositori politici, nasce, come si è detto, all’epoca del viceconsole Basso. Il Casellario politico centrale accresciuto dal regime di Mussolini è istituito nel 1894: e dietro ci sono, fin dai primi anni del regno, le Biografie degli individui più influenti dei partiti ostili al governo accumulate nel gabinetto del ministero dell’Interno sulla base delle Biografie raccolte da questure e prefetture10. Lo stesso vale per le foto segnaletiche, anch’esse introdotte all’epoca di Bolis: le impronte digitali, quelle verranno utilizzate solo all’inizio del secolo, quando nella burocrazia statale si insediano gli antropologi criminali allievi di Lombroso11.

È sufficiente un sondaggio per lo stesso periodo 1870-1880 negli archivi svizzeri (e la vicenda che ho preso in esame portava a farlo), per capire che paese sia l’Italia. In Svizzera la Confederazione si occupò di sorveglianza politica a partire dal 1888-89. La polizia federale raccoglieva fascicoli personali (Personaldossier) anche prima, però la qualità della documentazione non ha niente a che vedere con quella raccolta negli stessi anni in Italia.
La polizia italiana spia, fa spiare, raccoglie voci e pettegolezzi, sistematicamente, giorno dopo giorno, pagando informatori e confidenti, e distribuendo fondi segreti. Spie al servizio di ispettori, di questori, di prefetti, di consoli, ma non solo: non c’è direttore postale in Italia che non controlli o non trattenga la corrispondenza su richiesta della polizia. L’ideale cui tende la riorganizzazione della Pubblica sicurezza del nuovo regno è quello di poter disporre di tanti archivi quante sono le questure, nei quali «Ogni persona onesta o criminale, vi trova la sua biografia»12.
La polizia svizzera al contrario pare non avere interessi per le opinioni religiose e politiche, o la vita privata dei cittadini. Tranne qualche caso – per esempio il fascicolo di Carlo Cafiero che raccoglie le carte sequestrate al momento del suo arresto – i Personaldossier sono piuttosto poveri13, come ho detto, almeno rispetto ai fascicoli italiani dello stesso periodo, e prima dell’istituzione, di lì a pochi anni, della polizia politica anche nella Confederazione elvetica14.
Diverse oltretutto sono le strutture dello Stato. Nel Regno d’Italia un ministro dell’Interno, quando si rivolge a un prefetto, dà ordini. Quando il Consiglio federale scrive al governo cantonale, si rivolge invece con un «Cari e fedeli confederati». Rapporti come questi rendono più difficile l’accumulo delle informazioni volte alla sorveglianza di polizia, tipico invece di uno Stato centralizzato come il Regno d’Italia. Del resto, ci sarà pure un motivo se gli anarchici italiani scelgono in questi anni la Svizzera come terra d’esilio.

Individuare un inizio significa attribuire già un significato alla storia. Ho cercato, come ho detto, di utilizzare le fonti di polizia non per raccontare il movimento anarchico e la Prima Internazionale, bensì per capire come funzionano i meccanismi di controllo messi in atto dagli apparati statali. Avrei potuto iniziare dalla carriera del viceconsole di Ginevra o del direttore di Pubblica sicurezza o di un ispettore della questura di Venezia, o dall’organizzazione del ministero degli Interni. Oppure, considerando come protagonista di questa storia la schedatura – laddove cioè l’occhio del poliziotto s’incontra con la pratica dell’archivista –, avrei potuto raccontare in che modo si viene formando una scheda biografica, per esempio di un Carlo Monticelli, e un intero sistema documentario. Ma allo stesso tempo mi dispiaceva che andasse perduto il contesto delle vicende, costituito dagli ideali internazionalisti e dalla generazione di giovani uomini che diedero vita al primo anarchismo. Comincerò quindi raccontando di un gruppo di studenti universitari che a Ferrara fanno notte nei caffè discutendo di donne, di scapigliatura, di una società di liberi e uguali, e poi di nuovo di donne, di scapigliatura, di una società di liberi e uguali…
[…]

Dieci regole

1. Il buon funzionario raccoglie qualunque informazione anche quando non la capisce, contando sul fatto che il senso possa emergere col tempo, dall’accumulo delle informazioni e dei dettagli.
2. Il funzionario difende l’anonimato della sua fonte.
3. La spia non è al servizio di una istituzione ma di un funzionario.
4. Un individuo è un confidente per un ispettore di polizia e un rivoluzionario per tutti gli altri ispettori.
5. Le istituzioni dello Stato tendono ad assicurare l’impunità del confidente.
6. Le singole notizie viaggiano in via gerarchica dal basso verso l’alto. Il capo della polizia, che sta al vertice, mette tutte le notizie assieme, le verifica e le compara.
7. Il confidente migliore è quello che non sa di esserlo.
8. Un apparato, che sa di doversi difendersi da gente che vende notizie, cerca di verificare le informazioni che riceve, mediante controlli incrociati o mediante fonti di altra provenienza.
9. Un buon ispettore di polizia è innanzitutto un buon archivista.
10. La polizia usa le confidenze delle spie per giustificare la propria esistenza.

***

Nota. I brani qui presentati sono tratti da: Piero Brunello, Storie di anarchici e spie. Polizia e politica nell’Italia liberale, Donzelli, Roma 2009, rispettivamente pp. IX-XV e p. 131.
Copyright © Donzelli editore 2009

 


1 Il carteggio tra Basso e il dirigente del ministero degli Esteri è pubblicato in P. Brunello – P. Di Paola, Giuseppe Basso viceconsole di Ginevra e Carlo Monticelli. Note d’archivio (1880–81), in «Terra d’Este. Rivista di storia e cultura», XI (2001), 22, pp. 55-76. Si vedano i rilievi critici e la nuova documentazione di T. Merlin, Confidenti di polizia e movimento anarchico nel Padovano (1875-1883), ivi, XII (2002), 2, pp. 23-65, e la replica di P. Brunello, Chi spiava Monticelli e gli anarchici a Monselice? Note sul controllo di polizia a Ginevra e a Venezia (1877-1881), ivi, XV (2005), n. 30, pp. 57-76. Su Carlo Monticelli e il suo ambiente si vedano i primi studi di L. Briguglio, I socialisti di Monselice e di Padova (Carlo Monticelli), in «Movimento operaio», settembre-ottobre 1955, pp. 728-60, e poi soprattutto i lavori di T. Merlin, in particolare: Gli anarchici, la piazza e la campagna. Socialismo e lotte bracciantili nella Bassa Padovana (1866-1895), Odeonlibri, Vicenza 1980, e il volume da lui curato, Carlo Monticelli. Poeta e drammaturgo, Società operaia, Monselice 2001. Cfr. E. Civolani, Monticelli Carlo, in Dizionario biografico degli anarchici italiani, II, Bfs edizioni, Pisa 2004, ad vocem, pp. 212-4.
2 Si veda P. Celli, Della polizia (1880), Tipografia Luigi di Giacmo Pirola, Milano 18812, qui pp. 56, 58, 60-61 (il cap. «Polizia osservatrice» è alle pp. 55-103). Cfr. la recensione alla prima edizione, in «Manuale del funzionario di sicurezza pubblica e di polizia giudiziaria», XVII (1880), pp. 140-1.
3 G. Alongi, in Polizia e delinquenza in Italia, Luigi Cecchini, Roma 1887, seconda edizione aumentata, p. 43, scrive che la polizia «per la vastità ed indeterminatezza delle sue attribuzioni, per le speciali modalità della sua azione, del suo affermarsi nella infinità dei casi, non può sottostare a predeterminate prescrizioni, a limiti intangibili». Sulla discrezionalità cfr. D. Della Porta – H. Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla Liberazione ai «no global», il Mulino, Bologna 2003, pp. 18-20, 38.
4 G. Bolis, La polizia in Italia e in altri Stati d’Europa e le classi pericolose della città, Zanichelli, Bologna 1871.
5 Cfr. ad esempio E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra (1963), trad. di B. Maffi, il Saggiatore, Milano 1969, II, pp. 43-54; R. Cobb, Polizia e popolo. La protesta popolare in Francia (1789-1820), trad. di V. Mortara, il Mulino, Bologna 1976, pp. 19-28. Avvertenze sull’uso delle fonti di polizia in M. Franzinelli, Sull’uso (critico) delle fonti di polizia, in Aa. Vv., Voci di compagni schede di questura. Considerazioni sull’uso delle fonti orali e delle fonti di polizia per la storia dell’anarchismo, Elèuthera, Milano 2002, pp. 19-30, e A. Giannuli, Il trattamento delle fonti provenienti dai servizi di informazione e sicurezza, ibid., pp. 31-72. Naturalmente ci sono i romanzi, a cominciare da G. Greene, Il nostro agente all’Avana (1958), trad. di B. Oddera, Mondadori, Milano 2005.
6 Marius, La Pubblica Sicurezza in Italia, Carlo Aliprandi, Milano s.d., p. 113.
7 E. Saracini, I crepuscoli della polizia. Compendio storico della genesi e delle vicende dell’amministrazione di Pubblica Sicurezza, Siem, Napoli 1922, pp. 1, 55. Anche Celli, Della polizia cit., p. XI, scrive che «una scuola nazionale» nella polizia «si può dire cominci soltanto coi recenti e dotti scritti del valente G. Bolis». Su Giovanni Bolis (1831-1884), direttore dei servizi di Pubblica sicurezza dall’agosto 1879 al dicembre 1883, cfr. G. Tosatti, Il ministero dell’Interno. Uomini e strutture 1861-1961, EffeDiErre, Roma 2004, pp. 75-7; A. Paloscia – M. Salticchioli (a cura di), I capi della polizia. La storia della sicurezza pubblica attraverso le strategie del Viminale, Laurus Robuffi 2003, pp. 17-23.
8 I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Bompiani, Milano 20003, pp. 327-67. 
9M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1999 Id Delatori. Spie e confidenti anonimi. L’arma segreta del regime fascista, Mondadori, Milano 2001; M. Canali, Le spie del regime, il Mulino, Bologna 2004. E l’Italia repubblicana? Chi studia il fenomeno denuncia l’esistenza di «gigantesche banche dati» che «consentono un monitoraggio impressionante della vita di ciascuno di noi». Nel 1989, per esempio, solo la banca dati del Sismi disponeva di diciotto milioni di schedature (G. Boatti, Enciclopedia delle spie, Rizzoli, Milano 1989, ad nomen «Megacervellone», pp. 247-8).
10 G. Tosatti,Il ministero degli interni. Le origini del casellario politico centrale, in Isap, Le riforme crispine, n.s., I, Amministrazione statale, Giuffrè, Milano 1990, pp. 447-85. Sulle «biografie dei sovversivi» cfr. E. Cecchinato, Camicie rosse. I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 151-84.
11 M. Gibson, Nati per il crimine. Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica (2002), trad. di G. Agrati e M. L. Magini, Mondadori, Milano 2002, pp. 177-246.
12 Alongi, Polizia cit., p. 48. Sull’importanza di archivi e registri in ordine, soprattutto quando un capo ufficio viene trasferito, cfr. anche Celli, Della polizia cit., pp. 92-100.
13 G. C. Maffei (a cura di), Dossier Cafiero, Biblioteca «Max Nettlau», Bergamo 1972.
14 M. Vuilleumier, La police politique à Genève. Un aperçu de ses activités (1889-1903), in «Bulletin de la Société d’Historie et d’Archéologie de Genève», XXII-XXIII, 1993-94, pp. 91-110. Pur basandomi solo sui fascicoli degli esuli italiani, ritengo che la documentazione sia sufficiente per un confronto, anche perché pare che il controllo più attento fosse esercitato proprio sugli stranieri, per evitare problemi nei rapporti internazionali.

 

Archiviato in:La città invisibile, Piero Brunello Contrassegnato con: anarchismo, ordine pubblico, pagine scelte, polizia, storiografia

Memoria difensiva di Christian Giuseppe De Vito

05/05/2008

di Christian De Vito

Nell’agosto del 2004, il nostro amico e compagno Christian De Vito, autore del quinto quaderno di storiAmestre dedicato al quartiere San Lorenzo di Firenze, dove vive, si è trovato a discutere, praticamente sotto casa sua, con alcuni poliziotti che eseguivano un controllo dei documenti di due uomini di origine straniera. Christian contestava la rudezza dell’azione e intendeva far valere i suoi diritti di cittadino: controllare e testimoniare il modo di fare delle cosiddette «forze dell’ordine». Qualche mese dopo, i poliziotti lo hanno denunciato per ingiurie e minacce.

Il procedimento si è svolto davanti al giudice di pace di Firenze. Dopo molti rinvii, si è concluso il 9 aprile 2008, con una condanna per Christian; la pena consiste in un’ammenda di 1000 euro più le spese processuali (che Christian non dovrà pagare, in quanto ha goduto del gratuito patrocinio) e naturalmente costituirà – almeno per cinque anni – uno sgradevole precedente.

La sentenza è stata clamorosa perché persino il pubblico ministero, alla luce dei fatti appurati, delle dichiarazioni di Christian e dei poliziotti che l’avevano denunciato, aveva chiesto l’assoluzione piena. Il giudice di pace si è schierato con i poliziotti e ha voluto pronunciare una «condanna esemplare». Viste le proporzioni del caso, tutto potrebbe essere classificato come una disavventura, ma noi di storiAmestre pensiamo che anche questi, in fondo piccoli, segnali descrivano un atteggiamento, un clima, un senso comune che si impone, e lo rafforzino. Dunque esprimiamo la nostra solidarietà a Christian, e lo ringraziamo per quello che fa, ospitando sul sito la sua memoria difensiva, scritta in vista dell’ultima udienza. Si tratta anche, come si vedrà, di una sorta di antefatto a «Cronache di anni neri» (Quaderni di storiAmestre, 5, 2006).

Il 13 agosto 2004, verso le ore 22.15, uscii dalla mia abitazione, in via Taddea 33, nel quartiere di San Lorenzo. A causa della pulizia delle strade, che nel settore C si teneva alle ore 0-6 del giorno successivo, dovevo infatti spostare la mia auto dal luogo in cui era parcheggiata.

Uscito dal portone, vidi delle luci come di sirene di autoambulanza o di macchine di polizia e una volta giunto in via Panicale notai che l’intera via era bloccata da numerose macchine di polizia o comunque dotate del dispositivo luminoso sul tetto, che era in funzione: almeno tre auto erano parcheggiate di traverso all’imbocco di via Panicale, dalla parte della piazza del Mercato Centrale e nella piazza stessa; altre due bloccavano la via all’altezza dell’incrocio con via Guelfa; due erano infine parcheggiate lungo via Panicale, sempre con il dispositivo luminoso acceso, all’altezza del cantiere di Sant’Orsola. Complessivamente, erano presenti sul luogo una ventina di agenti di polizia, alcuni di essi (cinque-sei) in divisa, gli altri in abiti civili ma con un distintivo di polizia al collo.

Il dispiegamento di forze dell’ordine faceva pensare a una grossa operazione. Vidi che l’azione degli agenti si concentrava su due ragazzi di colore e notai subito che verso di essi, cinque-sei tra gli agenti presenti usavano modi assai bruschi, in particolare gridando da pochi centimetri di distanza dai loro volti e pronunciando frasi come: «che cazzo ci fate qui?» e «perché cazzo non capisci?».

Non avendo una particolare fretta (mancava ancora oltre un’ora e mezza all’inizio della pulizia delle strade), decisi di restare a osservare la situazione. Mi spostai dunque sul marciapiede dal lato del cantiere di Sant’Orsola, restando relativamente defilato.

Da lì cercai di informarmi sulla situazione chiedendo ad alcuni ragazzi che lavoravano in un negozio di kebab, al numero civico 55r; poi a un agente di polizia, che non rispose ma mi intimò di allontanarmi; infine a una ragazza affacciata a una finestra al secondo piano del numero civico 14, vicino alla scena dell’operazione.

Fu quest’ultima ragazza a dirmi che, da quanto aveva capito, l’operazione era scattata a seguito della telefonata di un/una residente della via, che aveva riferito alla polizia la presenza di una persona di colore che urinava nella strada. Sempre secondo la ragazza, erano rapidamente giunte in zona le macchine sopra citate, ma gli agenti non avevano comunque trovato la persona segnalata. Avevano allora iniziato a presidiare la via (chiedendo i documenti ad alcuni degli immigrati presenti), in particolare bloccando la circolazione su via Guelfa all’altezza dell’incrocio con via Panicale. Nel fare ciò, avevano fermato i due ragazzi, di nazionalità nigeriana, perché circolavano in due su un ciclomotore.

Desidero sottolineare come questa versione non sia stata mai confutata anche in seguito, quando la riferii agli agenti di polizia presenti, e segnatamente a colui che credetti un funzionario, di cui dirò più avanti, con l’intento di comprendere cosa stesse realmente accadendo.

Ecco quindi la situazione che vedevo in quel momento: la strada completamente bloccata da una ventina di agenti di polizia, una metà dei quali circondavano letteralmente due ragazzi nigeriani spaventati; cinque-sei agenti che a turno gridavano contro di loro.

I due ragazzi nigeriani parlavano in lingua inglese e non comprendevano assolutamente l’italiano. Per tutto il tempo dell’operazione, nessuno degli agenti tradusse loro quanto veniva detto – anzi sempre gridato – relativamente alla mancanza del documento di identità di uno dei due (erano entrambi in possesso del permesso di soggiorno). Solo occasionalmente uno degli agenti utilizzò singole parole della lingua inglese per rivolgersi a loro.

Da parte loro, i nigeriani ripetevano frasi in inglese, chiedevano la ragione del controllo dei documenti, spiegavano di voler fornire comunque i dati sulla propria identità. Quest’ultima, al momento del mio arrivo, era stata già fornita dai ragazzi nigeriani e accertata dagli agenti mediante il computer di una delle macchine; gli agenti continuavano tuttavia a richiedere il documento.

Come ho sopra accennato, gli agenti non si limitavano a effettuare i controlli sui documenti. Mentre una decina di essi – comprese le tre agenti donne presenti – sono sempre rimasti appoggiati alle macchine e sostanzialmente privi di funzioni, l’altra decina circondava i due ragazzi in modo minaccioso e una metà di essi gridavano loro in faccia e a turno si rivolgevano a loro in maniera offensiva.

Ricordo distintamente ad esempio che un agente non molto alto e piuttosto robusto gridò a distanza di pochi centimetri dal volto di uno dei ragazzi: «Qui siamo in Italia. In Italia si parla l’italiano, perché cazzo tu non parli l’italiano?». Il tono generale era provocatorio e sarcastico, le domande sui documenti si univano a epiteti come «stronzo» e «bastardo»; il clima era complessivamente intimidatorio. Inoltre, sottolineo di nuovo che i nigeriani non comprendevano nulla di quanto veniva loro detto. Questa situazione andò avanti sostanzialmente fino alla fine dell’operazione, ossia per oltre un’ora dopo il mio arrivo.

Infine, in almeno due occasioni, di fronte al fatto che soprattutto uno dei due nigeriani alzava la voce infastidito dall’impossibilità di comunicare e dall’atteggiamento degli agenti, l’agente di cui sopra e un altro più alto si avventarono contro di lui afferrandolo per la maglietta e spingendolo violentemente contro la cancellata di ferro della chiesa di San Barnaba.

Un altro agente mi intimò di andare via e, avendo io chiesto il motivo per cui me lo diceva, mi rispose con tono alterato di andare via e basta perché a suo dire ostacolavo con la mia stessa presenza una operazione di polizia. In quell’occasione non replicai e solo mi accostai maggiormente al muro dalla parte del cantiere di Sant’Orsola. Avrei voluto a quel punto telefonare ad alcuni miei amici, tra i pochi rimasti in città per Ferragosto, per riferire la situazione che stavo vivendo. Avevo però lasciato il cellulare a casa (proprio perché pensavo di rientrare in breve tempo) e non ritenni di andare a prenderlo in quel momento, data la tensione esistente.

In generale, gli agenti non solo non permettevano ai cittadini di transitare per via Panicale dai lati bloccati con le auto (ossia provenendo dalla piazza del Mercato Centrale e da via Guelfa); essi cacciavano sistematicamente e con modi molto bruschi tutti coloro che provenivano da via Taddea o che uscivano dai portoni della stessa via Panicale.

Ricordo in particolare una coppia di anziani turisti tedeschi (anche loro non comprendevano la lingua italiana) che furono allontanati a spintonate da tre agenti. Alla stessa ragazza affacciata alla finestra con cui avevo parlato, fu rapidamente intimato da un agente di rientrare in casa, di chiudere la finestra (a Firenze, in agosto) e di non affacciarsi più. Analogamente, agli esercenti e ai clienti del negozio di kebab al numero civico 55r fu intimato di restare all’interno del negozio, dopo che gli agenti ebbero controllato anche i documenti di alcuni di loro.

Preciso tutto ciò anche perché proprio questa azione di sistematico allontanamento dei passanti è il motivo per cui non esistono di fatto testimoni diretti degli eventi, ad eccezione degli stessi agenti di polizia, dei due nigeriani e del sottoscritto.

Di fronte alle ripetute urla in faccia ai due ragazzi e nel momento in cui uno di essi veniva violentemente spintonato contro la cancellata della chiesa, dissi ad alta voce: «Ma cosa state facendo?». Fu un intervento istintivo, dovuto più che altro all’incredulità per quanto stava accadendo davanti ai miei occhi. Credo l’avrebbe fatto chiunque.

Ripetei la frase più volte nel tempo in cui rimasi lì, cercando di attirare su di me l’attenzione e di rompere la continuità dell’azione intimidatoria degli agenti. Di fronte a quanto accadeva, dicevo ad alta voce: «Cosa state facendo?»; «Perché gli mette le mani addosso?»; «Ma cosa fa?»; «Perché gli urla in faccia così?»; «Ma come si permette di dirgli queste cose?».

Dissi anche: «Si rende conto che non capiscono quello che lei dice?». E poi, sempre ad alta voce e tenendomi a distanza, provai in un paio di occasioni a tradurre agli agenti ciò che i nigeriani stavano dicendo in lingua inglese in merito alla loro disponibilità di consegnare i propri documenti.

Andai avanti così per un po’, con gli agenti che in modo sempre più minaccioso mi ordinavano di andare via, finché l’agente più alto di cui ho detto in precedenza, di scatto distolse l’attenzione dai ragazzi nigeriani, mi venne incontro minaccioso e urlandomi in faccia mi intimò di consegnargli i documenti. Cosa che naturalmente feci subito, senza opporre alcun tipo di resistenza, approfittandone anche per esplicitare all’agente i motivi per cui intendevo restare lì. Parlai dunque a lui, ad alta voce, del fatto che a mio parere essi erano tenuti a rispettare le leggi e i regolamenti di polizia nel corso di questo tipo di operazioni. Credo che questa conversazione sia stata poi ‘tradotta’, al momento di sporgere querela contro di me, nella frase: «…vergognatevi, non sapete fare il vostro lavoro». Una frase semplicistica, estranea al mio modo di pensare e che non ho mai pronunciato.

A questo punto un paio di agenti attorno a una macchina controllavano la mia carta d’identità; una decina di essi continuavano a circondare i due ragazzi nigeriani e a trattarli come ho descritto sopra; altri infine erano appoggiati alle macchine. In attesa di rientrare in possesso dei miei documenti, mi appoggiai al muro accanto al negozio sito al numero civico 88r di via Guelfa, all’angolo con via San Zanobi. Da lì, tutte le volte che l’intervento degli agenti si faceva minaccioso o violento contro i due nigeriani, continuavo a pronunciare le frasi sopra citate.

Si avvicinò a questo punto un agente in borghese che, per l’età relativamente più avanzata e per il modo più autorevole di porsi, ritenni di individuare come il funzionario responsabile dell’operazione. Iniziò con degli apprezzamenti per il mio intento di cittadino che si interessa attivamente a quanto avviene nella società, arrivando ad affermare che era auspicabile che i cittadini fossero vigili anche sull’operato delle forze di polizia. Anche incoraggiato da questo atteggiamento, con quel funzionario tentai di iniziare un discorso più ampio, non solo sulle modalità di quell’operazione, ma anche sulla situazione generale del quartiere e sulle politiche sull’immigrazione.

Descrissi dunque le trasformazioni del rione di San Lorenzo da quando vi risiedevo (allora, circa 9 anni), provando a collegarle con le trasformazioni più ampie della società italiana, con particolare riferimento ai fenomeni migratori, dei quali tentai brevemente di mettere in rilievo le cause globali e le ricadute sulle situazioni locali. Tornai così a trattare di San Lorenzo per parlare della necessaria priorità da assegnare a mio avviso alle politiche sociali (non solo per gli immigrati peraltro) su quelle meramente repressive; ciò ritenendo queste ultime troppo spesso rispondenti a una mentalità discriminatoria divulgata dai media e latentemente presente nell’opinione pubblica. Provai a dire che anche operazioni di polizia come quella in corso in quel momento, attraverso l’impiego così ampio di personale a fronte di un obiettivo minimo e neppure ben identificabile (un ragazzo che urina in strada), poteva contribuire a dare di San Lorenzo un’immagine a mio avviso erronea, di ghetto abbandonato al degrado e alla criminalità. Ribadii infine che le modalità specifiche con le quali quella operazione veniva condotta non mi sembravano conformi a quanto previsto dalle leggi e dai regolamenti di polizia.

Esposi quindi alcune idee generali e ascoltai le repliche del funzionario. Questo dialogo si protrasse per circa mezz’ora, sia pure in mezzo ai commenti sarcastici, alle risatine, agli sguardi minacciosi degli altri agenti, in particolare di quelli appoggiati alle macchine all’imbocco di via Panicale.

Ricordo che un agente sostenne che, abitando in quella zona, avrei dovuto ringraziarli per quello che facevano per «tenere pulito il quartiere dal degrado», con non velato riferimento agli immigrati presenti nella zona. Rimasi colpito anche dal fatto che gli agenti apparissero del tutto increduli di fronte al mio rifiuto a considerare quelle strade come un ghetto, di fronte alla mia non adesione alla logica della «tolleranza zero» e ai miei ragionamenti sulla necessità di politiche sociali e non di sistemi di videosorveglianza e di controllo repressivo del territorio.

Alle risate e al sarcasmo si aggiunse il comportamento dell’agente non molto alto e robusto che, con metodicità, a brevi intervalli e per una durata di una mezz’ora almeno, continuò a fissarmi negli occhi e a ripetere ad alta voce il mio cognome e il mio indirizzo: «De Vito, via Taddea 33».

Tutto ciò si svolgeva durante la conversazione con il funzionario, che in nessun momento, neppure dietro mia insistenza, ritenne di dover dire qualcosa su quanto gli altri agenti stavano facendo, sia nei miei confronti che verso i due nigeriani, che continuavano a essere circondati e intimiditi da alcuni agenti. Egli stesso anzi, a un certo punto, con un cambiamento brusco anche del tono, riprese il ragionamento iniziale aggiungendo che però i cittadini non dovevano impedire alle forze dell’ordine di svolgere le operazioni di controllo del territorio, né metterne in discussione l’utilità, altrimenti si rendeva necessario denunciarli penalmente. (Nessuno degli agenti peraltro preannunciò querele).

La tensione si allentò in parte solo con l’arrivo del carro-attrezzi, che nel giro di una ventina di minuti portò via il motorino dei due ragazzi. Anche durante quel periodo, comunque, alcuni agenti continuarono a intimidire i due nigeriani e me stesso (soprattutto quell’agente che continuava a ripetere: «De Vito, via Taddea 33»).

Poco dopo che se fu andato il carro-attrezzi, mi fu restituita la carta d’identità. Poi gli agenti rientrarono nelle autovetture e andarono via, alcuni non mancando di lanciare verso di me altre occhiate tra lo sprezzante e il minaccioso. Salutai allora velocemente i due nigeriani e mi incamminai per via Guelfa, per andare a spostare la mia autovettura. A circa dieci metri dal luogo dei fatti vidi a terra un casco (seppi poi che era stato scagliato lì da un agente all’inizio dell’operazione, prima del mio arrivo). Pensai fosse di uno dei due nigeriani, li rintracciai sempre lungo via Guelfa, quasi all’angolo con via Santa Reparata, e glielo restituii. Con l’occasione, comunicando in lingua inglese, ci fermammo due minuti a parlare: il tempo di comprendere che non avevano capito quasi nulla di quanto gli agenti avevano loro detto e gridato, salvo cogliere il tono intimidatorio; il tempo di vedere la loro rabbia e impotenza per quello che era loro accaduto; il tempo di ricevere i loro abbracci di ringraziamento per essermi fermato vedendo quelle scene. Ne fui profondamente commosso.

Poi ci lasciammo. Mi incamminai di nuovo verso la mia macchina. Ero pensieroso, abbattuto. Avevo addosso un enorme senso di impotenza rispetto a quel clima intimidatorio, quelle violenze, quelle minacce. Rivedevo i volti spaventati dei due ragazzi nigeriani e provai un senso di impotenza insostenibile. Ricordo di aver pianto quella sera. Di tutto ciò parlai al telefono a una mia amica, Elena Mazzini, appena rientrai in casa.

Il 29 dicembre 2004 fui convocato in Questura per l’elezione di domicilio per il presente procedimento. Da allora mi sono chiesto moltissime volte quale motivo possa avere spinto cinque degli agenti di polizia presenti quella sera a denunciarmi per ingiurie e minacce. Come spero di chiarire con la presente ricostruzione, io infatti non ho mai pronunciato le frasi che essi hanno riportato al momento delle querele. Non essendo abituato in generale ad andare in giro per la città a offendere, ingiuriare o minacciare né agenti di polizia né alcuna altra persona, anche in quella situazione oggettivamente intimidatoria provai a spiegare le mie ragioni in modo forse incompleto ma comunque privo di attacchi personali, ingiurie e minacce che sarebbero state oltretutto completamente superflue.

Provai invece a dialogare, ma circa un’ora di quel tentativo di dialogo è stato condensato al momento delle querele in quindici secondi di inutile sproloquio. Il mio tentativo di analizzare la complessa realtà del quartiere in cui vivo è stato banalizzato in un «io abito qui e ci sono tutte persone perbene». La mia argomentazione sul fenomeno delle migrazioni, sulle politiche a esso relative e sull’essenza del razzismo è stata ridotta a una frase banale quanto grave: «siete dei razzisti».

Un intero discorso, completamente decontestualizzato, è stato così tradotto in un linguaggio che non mi è proprio («…state guardando anche i peli del culo a quei ragazzi…»; «vi faccio vedere io cosa vi succede») e – lo ripeto – mettendomi in bocca frasi che non ho mai pronunciato.

Perché? In questi mesi ho riflettuto su questo interrogativo e mi sono dato le due spiegazioni seguenti.

1) Credo che alcuni agenti abbiano temuto che li denunciassi io per gli abusi, le violenze, le intimidazioni, le ingiurie e le minacce a cui avevo assistito rispetto ai ragazzi nigeriani e che avevo anche personalmente subito. Denunciandomi, essi avrebbero dunque preventivamente provato a difendersi dalla mia eventuale denuncia. Io non sporsi denuncia per i fatti a cui avevo assistito. Semplicemente, spaventato e abbattuto, non pensai a farlo. E, trovandomi in quello stato d’animo, tanto meno pensai che querelare gli agenti per fornire ‘a caldo’ la mia versione dei fatti avrebbe potuto essere utile in occasione di un eventuale procedimento contro di me, dal momento che non potevo certo immaginare che alcuni agenti avrebbero potuto querelare me per delle frasi che non avevo mai pronunciato. La mattina successiva partii dunque, come previsto, per le vacanze estive.

2) Ho l’impressione che gli agenti abbiano facilmente colto nelle mie parole il mio impegno sociale e possano aver voluto, attraverso le denunce, intimidirmi nel proseguire le mie attività in questo ambito. Una domanda ulteriore che mi pongo è se nel farlo, essi abbiano anche avuto accesso a segnalazioni particolari su di me, dovute alla mia attività politica e sociale (partecipazione e organizzazione di manifestazioni, assemblee, riunioni, presidi). Non intendo attribuire una particolare rilevanza a questa ipotesi, anche perché comprendo di trovarmi nell’impossibilità di dimostrarla. Riferisco però qui di seguito l’episodio specifico sul quale tale ipotesi si fonda, accaduto all’aeroporto fiorentino di Peretola il 29 marzo 2005. Al momento di passare il controllo del documento di identità prima di recarmi all’imbarco, l’agente di polizia in servizio sgranò gli occhi guardando lo schermo del computer. Io feci solo in tempo a vedere una grande scritta «SEGNALATO», seguita da un testo che non riuscii a leggere. Accorsero diversi agenti e fui ‘invitato’ a uscire dalla fila in attesa di ‘accertamenti’; fui poi richiamato e mi vennero rivolte domande sul mio viaggio (data del rientro, località in cui sarei andato, persone con cui avrei eventualmente viaggiato, ecc.). Solo dopo oltre mezz’ora mi fu permesso di oltrepassare il blocco senza ulteriori spiegazioni.

Per quanto riguarda il mio attivismo sociale, esso si lega anche alla mia attività professionale. Attualmente sono dottorando in storia presso la Scuola Normale di Pisa, studio la storia del sistema penitenziario, della psichiatria e dei servizi di salute mentale e le questioni sociali connesse ai flussi migratori. Cerco di non disgiungere mai questa attività professionale dall’impegno civile. Da anni sono impegnato in attività di volontariato nelle carceri (Firenze-Sollicciano e Prato), con i senza fissa dimora e con gli immigrati. Ho attraversato nell’ultimo decennio luoghi e gruppi di discussione collettiva tanto diversi quanto il Firenze Social Forum, il Partito della Rifondazione Comunista, il Laboratorio per la Democrazia, il Forum per la Salute Mentale, il gruppo permanente sul carcere «Dentro e Fuori le Mura» e poi l’osservatorio «Voci dal carcere», stabilendo contatti permanenti con il composito mondo dell’associazionismo: dall’Altro Diritto alla «Associazione Giovanni XXIII», dal Movimento di Lotta per la Casa all’Arci, ai centri sociali cittadini, l’Associazione Antigone, la Fondazione Michelucci, Fuori Binario, la Comunità di Base dell’Isolotto e quella delle Piagge. La lista potrebbe continuare a lungo.

Cerco di capire la realtà che mi circonda, di essere un cittadino attivo. Mi pare di comprendere la complessità dei problemi sociali vecchi e nuovi, globali e locali, e vedo con preoccupazione l’incedere di una tendenza forte, da parte di molti, a imboccare scorciatoie repressive che – credo – non possono che peggiorare la situazione. Ciò a cominciare da quella nel quartiere in cui vivo da oltre dieci anni che, come altri quartieri analoghi di altre città, è luogo del non facile, quotidiano incontro/scontro di abitudini, culture, mentalità, problematiche, bisogni, insicurezze. Su questa situazione del quartiere e sui modi per affrontarla, ho più volte riflettuto negli ultimi tempi all’interno delle iniziative pubbliche promosse dal gruppo ‘la voce migrante’, insieme ad amici, residenti e commercianti italiani e immigrati, volontari di associazioni, attivisti politici, operatori sociali.

I fatti di cui si occupa il presente procedimento sono avvenuti prima della costituzione del gruppo ‘la voce migrante’, prima di questo sforzo di azione collettiva e di lungo periodo su tali questioni. Simile era comunque il contesto esistente quel 13 agosto 2004 nel quartiere e nella città con riferimento alle politiche sull’immigrazione. Simile era anche, allora, la mia sensibilità per i diritti sociali, non solo degli immigrati. Essa ha fatto sì che non abbia voluto voltare la testa altrove di fronte a ciò che alcuni agenti di polizia stavano commettendo quella sera ai danni di due ragazzi nigeriani.

Che questa sensibilità sociale sia stata presentata a posteriori in modo da configurare un reato penale, rovesciando completamente la realtà dei fatti, mi sembra più che altro un ulteriore e preoccupante segnale di una situazione grave e da affrontare pazientemente in altro modo.

Archiviato in:Christian De Vito, La città invisibile Contrassegnato con: cronaca, Firenze, memoriale, polizia, razzismo

Perquisizioni pesanti. 15 aprile 2007, Unione-Pro Sesto

16/04/2007

di Matteo Di Lucca

Prologo

Venerdì 13 aprile. Il Padova gioca all’Euganeo l’anticipo contro la Massese. Io e la Vale, dopo aver bevuto in compagnia di amici un paio di spritz, passiamo in macchina accanto allo stadio e intoniamo una serie di cori nella speranza che la squadra toscana faccia uno “scherzetto” ai biancoscudati. La Vale mi avverte che in curva del Padova c’è il ragazzo di una sua collega, che sicuramente incontreremo domani a un matrimonio. La speranza di un passo falso delle “gallinacce” aumenta ma, rientrato a casa dopo la serata, il televideo è brutale: il Padova ha vinto 3-1. 

Sabato 14 aprile. In attesa degli sposi, costringo la Vale e un suo collega ad andare a bere un caffè. Usciti dal bar scorgo in lontananza la collega della Vale e il suo ragazzo, che si avvicina con ghigno impertinente e mi fa a bruciapelo: “+ 3”. Non accenno alcuna reazione e anche per tutto il periodo del pranzo (nota: 5 ore) non reagisco alle provocazioni e alle continue “gufate” del padovano fiducioso che domani una buona prestazione dell’Unione ci riporti appaiati in classifica.

Allo stadio

1. A mezzogiorno siamo già pronti per partire verso Sant’Elena con in mente ancora le parole e gli sfottò dell’ultras padovano. All’ultimo momento si aggregano un nostro amico padovano che insieme alla sua ragazza e a sua sorella vogliono venire a vedere la partita per poi fare un giretto in compagnia a Venezia. Accettiamo con qualche perplessità e incominciamo il solito lungo viaggio per raggiungere il Penzo.

La giornata è splendida e Venezia si mostra in tutta la sua bellezza. Giunti a Sant’Elena corriamo a fare i biglietti e decidiamo di entrare allo stadio con mezz’ora di anticipo. Entrati rimango stupito nel vedere il settore ancora vuoto: i gruppi che occupano di solito la curva sud non hanno fatto il loro ingresso, nessun capo ultras gironzola nei pressi della balconata.

Ipotizzo che sia stato organizzato uno sciopero del tifo mentre la Vale ritiene che il motivo sia il solito ritardo dei vaporetti che portano allo stadio. Ad un tratto dall’ingresso del settore arriva a petto nudo e con la maglietta in mano uno dei capi ultras che, salito sulla balconata tira un calcio fortissimo alla struttura in tubi innocenti. Con lui entra molta altra gente che ha l’aria di essere parecchio “incazzata”. Mentre il settore incomincia a riempirsi, decido di andare a bere un caffè e raggiungendo il bar, posto proprio accanto all’ingresso dei distinti, mi accorgo che molti ragazzi – di cui molti vestono la maglietta del gruppo “Nuova guardia” – si appoggiano uno a fianco all’altro alla rete metallica nella classica posizione di che deve essere perquisito. Non capisco bene che sta accadendo, la gente ha l’aria spaesata se non incredula: molti dei ragazzi sulla rete sono giovanissimi. Gli animi mi sembrano tranquilli e non resto a guardare più di tanto. 2. Quando riprendo posto sulle gradinate, vedo che il settore si è ormai riempito e le squadre stanno per fare il loro ingresso in campo. Il capo ultras sale sulla balconata e a gran voce spiega a tutti quello che è successo all’ingresso dei distinti. Durante le perquisizioni la polizia ha infatti imposto a molti ragazzi di togliersi le magliette recanti scritte come “Nuova guardia”, “Rude Fans” e addirittura “Ultras unisce razzismo divide”. Tutto questo per seguire i dettami della nuova legge Amato contro la violenza negli stadi che dal 30 Marzo di quest’anno vieta l’introduzione all’interno dello stadio di tutti quegli oggetti che possono diventare contundenti come megafoni, tamburi, aste per le bandiere ecc. Inoltre vieta la preparazione di coreografie e l’esposizione di striscioni a meno che non vengano inviate in questura non oltre il venerdì prima dell’avvenimento sportivo le fotografie che ne mostrino il contenuto.

Poiché non ero presente all’ingresso dei distinti durante quei momenti, riporto alcune lettere ricevute e pubblicate dal portale www.vesport.it. Spiegano perfettamente quel che è accaduto.

sono un tifoso che segue il Venezia da 30 anni e sono qui a scrivervi questa mail di protesta perché domenica ho assistito a scene che mai avrei voluto vedere in un contesto di festa come è per me la domenica in stadio!
Sono circa le 2 e 30 e come ogni domenica mi metto in fila, abbonamento in mano, fuori del settore distinti per assistere al match tra Venezia e Pro Sesto; la giornata è delle migliori e infatti la gente che affolla in quell’ora i cancelli d’entrata è molta.
Una volta entrato nel settore però tutto l’entusiasmo che avevo è venuto meno davanti a scene che, a mio dire, hanno veramente dell’incredibile: alla solita perquisizione gli agenti della Polizia di Stato, senza dare più di tante spiegazioni agli interessati (forse perché neanche loro sapevano bene del perchè stavano compiendo quei gesti), incominciavano a costringere i ragazzi che animano da qualche mese il settore distinti a togliersi le maglie sequestrando inoltre loro anche sciarpe e aste delle bandiere.
Ma la cosa che mi ha lasciato veramente stupefatto è vedere come questo nuovo decreto legge venga applicato senza quel “buon senso” che servirebbe in un contesto tranquillo come quello che si è venuto a creare negli ultimi anni a Venezia.
Ho assistito personalmente al sequestro da parte degli agenti di una bandierina e una sciarpa a un bambino che avrà avuto sì e no 10-12 anni che, tutto felice perché andava a vedere una partita di pallone, alla richiesta dell’agente, si riversa in una valle di lacrime perché privato della sua bandierina!
Inoltre, parlando con altre persone, sono venuto a conoscenza anche del fatto che a molte persone, donne incluse, è stato intimato di levarsi o comunque girarsi la maglietta per motivi che non sono stati delucidati con chiarezza.
Ora io mi domando questo: se veramente l’obiettivo è quello di eliminare la violenza negli stadi, perchè creare queste situazioni di tensione […]?
A mio modo di vedere domenica, impedendo alla gente di entrare con sciarpe e bandiere della propria squadra, non fornendo chiare spiegazioni di tali gesti, si è violata la più importante norma che vige nel nostro stato: la libertà individuale!
Antonio

Agli stilisti della Questura di Venezia non piacciono le t-shirt. Non piacciono le sciarpe. Non piacciono le felpe. Insomma non piace il look da tifoso. Preferiscono il blu notte.

De gustibus…..

E così è arrivato il divieto di accesso allo stadio per chi sfoggia le magliette del FUTBOL REBELDE, quelle antirazziste di ULTRAS UNISCE RAZZISMO DIVIDE, quelle dei RUDE FANS e della NUOVA GUARDIA. Non piacciono neppure quelle degli ormai scomparsi ULTRAS UNIONE.

Naturalmente tutto questo rigore estetico viene applicato a singhiozzo. Tu sì e tu no. Tu entri, tu o ti spogli o resti fuori. E via con lo strip alla Full Monty. Potevano almeno attrezzare dei camerini…

Agli stilisti della questura non piacciono neppure le bandierine arancioverdi sventolate da bambini di 7 anni. Quell’astina di plastica di 60 cm è un’arma davvero pericolosa. E poi le coreografie sono sovversive…

Gli stilisti della Questura di Venezia, veri esperti di look da stadio, non sopportano manco i tatuaggi. Peccato non poterli scuoiare ‘sti tifosi…. Questo è accaduto domenica allo stadio Penzo all’entrata del settore DISTINTI. E ci risulta che lo stesso sia avvenuto anche in altri settori.

In base a quale norma sia stata attuata questa umiliazione di massa di centinaia di cittadini non ci è dato sapere. Ci hanno detto che così si combattono violenza e razzismo negli stadi italiani. Quello che si combatte davvero è la libertà dei cittadini. Di pensiero. Di espressione. Di aggregazione. Non abbiamo chiesto permessi per i nostri striscioni. Non chiederemo il permesso per vestirci come ci pare. NON SI CHIEDE IL PERMESSO PER ESSERE LIBERI.

VMFC A SOSTEGNO DI UN IDEALE

[…] ciò che han visto i miei occhi domenica al P.le Penzo di Venezia mi ha fatto ACCAPPONARE LA PELLE!!!

Non ho visto dei celerini in divisa che, in una normale domenica di routine controllano se si introduce allo stadio materiale contundente o accendini pericolosissimi, NO, ho visto poliziotti in assetto di guerra (veramente) che con aria minacciosa vietavano l’ingresso di qualunque tipo di sciarpa, cappellino, MAGLIETTA(!), recante il nome ultras (o sinonimi, badate non sono esperto in materia ma mi sembra di aver letto tipo Nuova Guardia e RudeFans) a ragazzi e ragazzini. “Quella maglietta la deve girare, se no non può entrare!”, COSA!? Ma stiamo scherzando vero??? Ditemi che siamo su scherzi a parte! Vi prego.

[…] Francesco Rigo

3. Ora il capo ultras scaglia parole pesanti contro la legge Amato che vuole ammutolire il tifo e che vuole svilire questa forma di aggregazione e di espressione; contro la polizia; contro la società del calcio Venezia; contro le televisioni che ammazzano il calcio. Molti alzano le magliette incriminate e tutti applaudono. I cori iniziano quando la partita è già iniziata. Per il primo quarto d’ora abbondante sono tutti contro ciò che era accaduto all’ingresso del settore e contro la nuova legge. In successione si canta: “Non ci avrete mai, come volete voi”, “Odio eterno al calcio moderno”, “Il calcio siamo noi”, “I tamburi siamo noi” (accompagnato da un battimani che simula il solito ritmo dei tamburi). Alcuni cori contro i “caschi blu” e il nuovo coro sull’aria di una canzone degli 883: “Se togliete pure noi che rispettiamo le tradizioni, e gli stadi noi riempiamo con i cori e gli striscioni, resterete solo voi con le vostre televisioni, e solo allora potrete capire che il calcio è fatto di emozioni!”. 

I cori di questo stampo si susseguono fino a che, verso il quindicesimo, viene assegnato un rigore all’Unione. Mentre Paolino Poggi si prepara a tirarlo il capo ultras invita tutto il settore a dare le spalle al campo in segno di protesta. Quasi tutti si girano, io mi metto a trequarti, vedo il rigore ed esulto, come altri, al gol. Un gesto non molto apprezzato dai capi ultras ma già da un paio di minuti, pur cantando e sostenendo la contestazione a questi ignobili episodi, avevo esternato alla Vale che secondo me era giunto il momento di sostenere la squadra.

Solo dopo venti minuti dall’inizio della partita inizia il tifo per l’Unione: partono i soliti cori come “Ricordo quand’ero bambino, sognavo una maglia e un pallone, ed ora che sono cresciuto l’Unione è il mio unico amor, se vedo il settore che esplode, sento un brivido al cuore, l’Unione è il mio unico amore, per te canterò fin che vivrò”; “Unione alè, Unione alè, in ogni stadio in tutta Italia siamo accanto a te, quando l’Unione segnerà dal settore s’alzerà, questo canto d’amor, che ci viene da cuor”. 

Proprio mentre stiamo intonando “Pope” la Pro Sesto pareggia con un bel tiro dal limite dell’area, che sbatte prima sul palo e poi finisce in fondo alla rete. Il coro simbolo della tifoseria unionista nonostante il gol avversario non si ferma e il tifo aumenta di intensità a seguito della buona reazione della squadra al pareggio e l’espulsione per doppia ammonizione di un giocatore avversario. Tra tutti i cori, il più riuscito e partecipato è stato quello in cui il settore si divide in due parti uguali che si ribattono: “E siamo qua – siamo qua/ siam sempre qua – sempre qua /ovunque giocherai saremo sempre qua – sempre qua / e canteremo – canteremo /e grideremo – e grideremo / (tutti insieme) VENEZIAMESTRE NOI SIAMO I TUOI ULTRA”.

4. Nell’intervallo mi siedo stremato dal gran caldo, parlo con la Vale e gli amici e leggo la fanzine autoprodotta dai ragazzi di “A sostegno di un ideale”. Quando le squadre rientrano in campo il tifo non si è ancora organizzato e ci impiega un po’ prima di ricominciare. Nel secondo tempo mi concentro più sulla partita in attesa di un gol dell’Unione che ci regalerebbe tre punti importantissimi per la nostra classifica. Tuttavia a parte uno sterile assedio alla porta avversaria la squadra dimostra il suo momento negativo e soprattutto un sensibile calo fisico. Tra un coro e l’altro impreco contro alcuni giocatori, in particolare contro “l’acquisto di gennaio” Cocco che a dieci minuti dalla fine viene finalmente sostituito. Alla sua uscita viene giustamente fischiato dai “vecchietti” dei distinti; lui risponde con un provocatorio applauso. Il suo sostituto, Momentè, altro “acquisto di gennaio” in dieci minuti riesce a sbagliare quasi tutti i passaggi e si mangia un gol quasi a porta vuota. E nonostante il caldo torrido, la Pro Sesto ci fa venire i “brividi” con alcuni contropiedi che con altri avversari ci sarebbero costati sicuramente la sconfitta. Poi quando al quarto minuto di recupero Moro butta fuori di testa l’ultimissima occasione, l’arbitro fischia la fine dell’incontro. I giocatori dell’Unione cadono a terra stremati e delusi. 

Nonostante il risultato, come in altre occasioni, chiediamo alla squadra di venire sotto il settore ma solo pochi di loro vengono a ricevere applausi e sostegno.

Epilogo

Mentre ricominciano i cori contro la legge Amato, ci avviamo sconsolati verso l’uscita. Mi fermo un attimo soltanto per ascoltare gli altri risultati del nostro girone. La gente sfolla delusa e convinta che sarà difficile raggiungere i play-off, visto il calo fisico della squadra rispetto ai primi mesi di campionato. Mentre ci avviamo a piedi verso Rialto per bere uno spritz in compagnia, esprimo tutto il mio disappunto e i miei compagni di viaggio fanno fatica a rincuorarmi. La Vale sostiene che comunque vada bisogna rimanere vicini alla squadra; le do ragione e intoniamo insieme “Noi non ti lasceremo mai/ noi non ti lasceremo mai/ al tuo fianco sempre noi sarem/ Veneziamestre alè”.

Questa domenica è andata così. Certo abbiamo passato una bella giornata e ci siamo un po’ abbronzati. Ma torniamo a casa con l’Unione che si allontana sempre più dai play-off, con la consapevolezza che questa nuova legge invece di frenare la violenza la istiga, grazie anche a certi atteggiamenti della polizia; e con la consapevolezza che i padovani “gufano” proprio bene.

Archiviato in:La città invisibile, Matteo Di Lucca Contrassegnato con: calcio, cronaca, ordine pubblico, polizia, Unione, Venezia-Mestre

Cronaca dal quartiere San Lorenzo. 27 ottobre 2006

31/10/2006

di Christian De Vito

Due settimane fa un ragazzo senegalese, Pape Diop, è stato ucciso all'alba con un fucile da caccia in via Baracca, verso la periferia di Firenze, mentre andava al lavoro. Le voci dicono si sia trattato di un «delitto d'onore», responsabile si sospetta sia l'ex (italiano) della ragazza (italiana) di Pape. Quest'ultimo aveva già ricevuto minacce di morte, a sfondo razzista per giunta. Nessuno risulta peraltro inquisito per il momento.

Per oggi pomeriggio l'associazione dei senegalesi aveva convocato un corteo da piazza San Marco alla questura (via Zara), per ottenere delle indagini approfondite da parte della polizia e per chiedere che il corpo del ragazzo possa tornare in Senegal, dove la famiglia è in attesa da giorni.

[Leggi di più…] infoCronaca dal quartiere San Lorenzo. 27 ottobre 2006

Archiviato in:Christian De Vito, La città invisibile Contrassegnato con: cronaca, Firenze, manifestare, ordine pubblico, polizia, razzismo

Barra laterale primaria

Per informazioni e per ricevere la newsletter scrivi a:

info@storiamestre.it

Cerca nel sito

Archivio

Ultimi commenti

  • Angelo Ferrari su L’estate del 1943 a Vicenza, con una nota sull’aria di una sinfonia. Dai ricordi di Mario Mirri
  • Andrea su Un restauro o un falso storico? Notizie da Sutrio (Udine)
  • Renato Rossetto su “Un’orribile carneficina”, “un vero macello” e “una delle più belle giornate della vita”. Un episodio della sortita di Forte Marghera, 27 ottobre 1848
  • Alexander su Un restauro o un falso storico? Notizie da Sutrio (Udine)
  • Giorgio su Da Trieste a Pola. Racconto del viaggio a piedi di quattro pensionati e uno no
  • Nidhira su «È possibile fare volontariato per accogliere i migranti?». Una settimana di luglio a Lampedusa

Copyright storiAmestre © 2022

Il sito storiAmestre utilizza cookie tecnici ed analytics. Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra in linea con la nuova GDPR.Accetto Ulteriori informazioni
Aggiornamento privacy e cookie (GDPR)

Privacy Overview

This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary
Sempre abilitato
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
ACCETTA E SALVA