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Dubbi sull’esistenza di Mestre e prove della sua inesistenza

20/02/2009

di Piero Brunello

Ripubblichiamo questo testo, scritto da Piero Brunello nel 1990, con grandissimo piacere e per tanti motivi. Dice tantissimo su «Mestre» alla fine degli anni Ottanta, ma non è così facile trovarlo nelle biblioteche (fate conto, per curiosità, di cercarlo nel sistema bibliotecario del Comune di Venezia), perciò averlo in rete è una comodità. Risale ai primi passi di storiAmestre e – per stile, tono, temi – contiene molto dello spirito e delle discussioni che hanno caratterizzato i primi vent’anni della vita dell’associazione. E poi il «Piano del Capitale» ha funzionato, il compito è stato svolto: gli anni Novanta (e Duemila) sono diventati davvero quelli di «Mestre è bella» e di «Greetings from Mestre». L’ultima ragione per cui presentiamo il testo è la più ovvia: per il piacere di pubblicare, in futuro, l’aggiornamento che Brunello annuncia.

Nota dell’Autore. Questo testo, nato da conversazioni con Bepi Molin, è il discorso tenuto presso il Centro Civico di Carpenedo-Bissuola il 19 aprile 1990 per l’uscita dei primi due volumi di storiAmestre. Non era pensato per la stampa. Fu Bruno Anastasia, presente all’incontro, a ospitarlo nella sezione «C’è dell’ordine in questa follia» della rivista «Oltre il ponte» (VIII, 1990, 31, pp. 147-161). È apparso poi in appendice a Mestre finestre e controfinestre. Canzoni scritte e cantate da Gigio Brunello, Stamperia Cetid, Mestre 1993, pp. 34-41. Qui viene ripubblicato con qualche taglio alla Premessa, troppo legata all’occasione. A distanza di quasi vent’anni, il testo avrebbe bisogno di essere aggiornato, ed è quanto mi riprometto di fare. (p.b., febbraio 2009)

Premessa

I due libri che oggi vengono qui presentati hanno per titolo La città invisibile. Storie di Mestre, a cura di Domenico Canciani, Venezia 1990 e Mestre infedele. Confini comunali in terraferma e rapporti tra Mestre e Venezia, a cura di Piero Brunello, Portogruaro 1990; il primo raccoglie gli Atti di un Convegno promosso dal Movimento di Cooperazione Educativa e da storiAmestre nel marzo 1988, il secondo gli Atti di un Convegno promosso da storiAmestre nel maggio 19891.

Premetto subito che, pur condividendo molte delle cose contenute nei due libri, è sulla loro impostazione che mi trovo in disaccordo. Se è buona regola infatti che i libri, prima di essere scritti, accertino scrupolosamente l’esistenza degli oggetti su cui essi vertono, devo dire che nel caso dei due volumi che stiamo esaminando, questa semplice avvertenza è stata purtroppo trascurata.

Si trattasse di un aspetto marginale, anche il critico più severo avrebbe chiuso un occhio; ma nel nostro caso l’inavvertenza è particolarmente grave perché riguarda l’oggetto centrale che i libri prendono in esame. Mi riferisco a Mestre, la cui esistenza tutti gli autori senza eccezione (anche quelli normalmente attenti e scrupolosi, e nella vita di tutti i giorni sobri ed equilibrati) accettano non solo senza verifica alcuna, ma – quel che è peggio – senza dubbi o almeno senza apparenti incertezze.

Per quanto senta la gravità delle cose che sto per dire attorno alla presunzione dell’esistenza di Mestre, solleverò molti e legittimi dubbi a tale riguardo; e mi sforzerò di illustrare come e in quali fasi storiche una sorta di abbaglio si sia imposto a tutti, non solo alla gente comune, ma agli stessi intellettuali cittadini chiamati a esercitare un’attenta funzione critica.

1. L’orrore del vuoto tra educazione permanente e socializzazione primaria

Cominciamo da una semplice e banale osservazione che tutti senz’altro abbiamo fatto: chiediamoci per quale motivo sempre più frequentemente nei vuoti tra gli edifici che ci circondano vengano eretti monumenti bronzei, fontane, elementi lignei a forma di menir, enormi palle in pietra, colonne e basamenti in cemento armato (preferibilmente nel mezzo di parchi), edicole contenenti fotografie e cartoline, capannoni per la vendita di oggetti i più vari, palchi adibiti a esibizioni canore rifiutate da Venezia eccetera.

L’elenco potrebbe essere lungo, ma già possediamo un paio di preziosi elementi di osservazione, che possiamo esporre in questo modo: 1. siamo attorniati e direi perfino accerchiati dall’orrore del vuoto che porta appunto a riempire qualsiasi interstizio; 2. l’erezione di questo variegato insieme di elementi negli interstizi tra edifici in cemento non ha altro scopo che quello di dare l’illusione che quegli stessi vuoti costituiscono in realtà dei luoghi e degli spazi. Per quanto possa essere spiacevole, confessiamolo a noi stessi: se togliessimo gli elementi che abbiamo prima ricordato – colonne, basamenti, edicole, fontane, palle, menir – cosa vedremmo? vedremmo la realtà per quella che essa è, e cioè dei vuoti (o se si preferisce, degli interstizi, oltretutto di modestissima se non irrisoria dimensione) tra un edificio e un altro: solo questo e niente di più.

Cerchiamo ora di approfondire quest’ultima osservazione, e chiediamoci se ci troviamo dinanzi a un fenomeno nuovo, o se non si tratti invece di un fenomeno di medio-lungo periodo: e nel caso di una risposta positiva, vediamo di stabilire delle prime approssimative periodizzazioni.

Chi ha costruito gli edifici che ci circondano e nei quali viviamo, era senz’altro determinato a non lasciare nessun vuoto in mezzo, e questa constatazione risulta evidente proprio dalla lettura, per quanto frettolosa, dei due volumi che stiamo esaminando. E basterebbe, per rendersene conto, aprire ad esempio il volume La città invisibile a p. 18 e lasciar parlare un capo dell’ufficio tecnico del comune di Venezia per oltre vent’anni, il quale (come viene opportunamente citato da uno degli autori) nel 1963 individuava la bellezza di questo territorio nel fatto di essere «l’incrocio di sette linee ferroviarie, di cinque strade statali, di tre autostrade, alle quali si spera presto di aggiungere la Venezia Monaco», e inoltre nel fatto di possedere «un’estensione di aree si può dire senza limiti perché tutte le barene dalle Tre Palade a Chioggia possono essere utilizzate per sedi di officine industriali».

Ma poiché questo intendimento non si è poi potuto compiere fino in fondo; poiché in altre parole, per quanto si sia fatto, l’orrore del vuoto non si è interamente placato con la costruzione di strade e di manufatti in cemento, e vuoti e interstizi malgrado ogni sforzo continuavano qua e là a esistere, ecco che in questi vuoti si è cominciato a vedere una presenza, e più precisamente la manifestazione stessa di una città denominata Mestre. Se l’orrore del vuoto ha portato dapprima alla soppressione per quanto umanamente possibile degli spazi vuoti, in un secondo momento, vista l’impossibilità di eliminare interamente tali vuoti, ha cominciato a vedere una presenza laddove in realtà si manifesta solo una assenza, o meglio il nulla.

Ma perché un individuo dotato di medie capacità intellettive è tratto in inganno? perché, a mano a mano che vengono costruiti edifici in cemento di vario genere, uno è portato a vedere qualcosa (detta Mestre) negli interstizi vuoti che rimangono casualmente in mezzo? Perché uno, in altre parole, è indotto in perfetta buona fede a credere nell’esistenza di una città chiamata Mestre?

Vedremo che a tale riguardo si scontrano l’interpretazione marxista, l’interpretazione neo-kantiana e quella psicoanalitica freudiana. Ma prima di prenderle separatamente in esame e di dimostrare che queste interpretazioni non sono affatto in contrasto tra di loro ma possono benissimo incontrarsi e fondersi assieme, vale la pena di elencare i diversi modi con i quali una persona è tratta nell’errore di credere nell’esistenza di Mestre.

Il primo modo nel quale si instilla l’illusione consiste nella reiterazione di usi linguistici, e più precisamente nell’uso reiterato di enfatizzazioni e di iperboli. Troviamo infatti una Riviera XX Settembre laddove non v’è traccia né di fiume né di lungofiume, una Piazza Carpenedo per intendere uno slargo stradale, un Parco Ponci dove non c’è un solo filo d’erba, una Piazza Barche dove non si vedono né piazza né tanto meno barche, una Via Torre Belfredo dove non c’è ombra alcuna di torri, un Municipio dove non si riunisce mai consiglio comunale, un Ponte della Campana dove, per quanto si giri lo sguardo, non c’è modo di scorgere nemmeno in lontananza né ponti né fiumi né campane, una Pescheria Vecchia quando non si sa se e dove sia quella Nuova, per non parlare di usi linguistici talmente iperbolici, quale Duomo di San Lorenzo, Corte del Castello o Biblioteca Comunale, che non richiedono ulteriori commenti. 

Occorre precisare che questi modi di dire sarebbero prontamente irrisi da qualsiasi adulto dotato di buon senso, soprattutto se proveniente da altre località; e infatti il segreto del loro successo sta nel fatto che tali usi vengono instillati nei bambini in età prescolare e fin dalla più tenera infanzia. «Mamma, dove siamo?» «Siamo al Parco Ponci, Pierino», e dinanzi ai fondati dubbi del bambino, che non è ancora perduto ai guizzi della ragione: «Prova a dire: Parco Ponci, Par-co Pon-ci», fino a che il pargolo sarà un po’ alla volta indotto a credere che a tutti questi nomi corrispondano altrettanti luoghi, e che essi nell’insieme esprimano realmente la manifestazione di una città chiamata Mestre: «Mamma, dove abitiamo noi?» «Lo sai che stiamo a Mestre, Pierino», e un po’ alla volta il bambino, che pure non è mona e non vede né parco né riviera, si abituerà a sopprimere ogni ragionevole dubbio e riuscirà a dire con sicurezza e con sguardo sereno «Parco Ponci» senza pensare a un parco, o «Riviera XX Settembre» senza pensare a un lungofiume, o «Piazza Barche» senza pensare a una piazza (o ancora peggio, come poi vedremo, si abituerà davvero a pensare che lì ci sia realmente un parco, lì realmente una piazza, lì realmente una riviera, e che tutto questo costituisca la città in cui vive). Col tempo divengono nomi normali e ovvi: Parco Ponci, Riviera XX Settembre, Biblioteca di Mestre, Ponte alla Campana.

Fin qui per quanto attiene alla socializzazione primaria. Ma ciò non sarebbe ancora sufficiente se non ci fossero istituzioni che si occupano specificamente dell’età adulta e dell’educazione permanente. Una parte grave di responsabilità ricade innanzitutto nei due giornali Il Gazzettino e La Nuova Venezia, i quali subdolamente dedicano ogni giorno alcune pagine alla cosiddetta «Cronaca di Mestre», spegnendo ogni residuo dubbio e buon senso, e ribadendo in tal modo nelle lettrici e nei lettori una illusione cui viene conferita progressivamente parvenza di realtà.

Se fossero solo questi due giornali a spargere il seme dell’errore con tanta leggerezza, il compito di smascherare la mistificazione sarebbe tutto sommato facile, dal momento che la consapevolezza che tali organi di stampa calpestano quotidianamente la verità è per fortuna piuttosto diffusa nella popolazione. Ma, quel che è più grave, vi sono numerosissime associazioni che fin dal nome e dallo statuto si richiamano espressamente a Mestre. Duole ricordare che tra queste ci sia anche l’associazione che ha promosso la pubblicazione dei due libri che stiamo esaminando, la quale associazione ha scelto in modo perlomeno incauto una denominazione che, proprio per il fatto di risultare ovvia e scontata quante più volte viene pronunciata, contribuisce a perpetuare un equivoco cui sarebbe opportuno porre la parola fine.

Altre associazioni (come quella che vedo con rammarico coinvolta in una delle due pubblicazioni in esame), promuovono addirittura continui corsi di aggiornamento per insegnanti sulla cosiddetta storia di Mestre, astutamente confidando sull’influsso che tali insegnanti avranno a loro volta nella formazione delle giovani menti, facili ad assorbire qualsiasi affermazione venga loro proposta da chi si presenta in veste di educatore.

Incontri per ribadire una credenza, abbiamo detto, ma anche per sopprimere l’insorgere del dubbio: il fatto che i membri di tali associazioni organizzino reiterati incontri, a cosa può essere addebitato se non al bisogno di confermare una fede che essi stessi per primi sentono vacillare? quale altro scopo, in altre parole, si prefiggono riunioni come questa cui oggi partecipiamo, se non ribadire la fede in una entità sulla cui esistenza ciascuno di noi, nel nostro intimo, avverte sempre più di frequente il sussulto e il fremere del dubbio?

2. Falsa coscienza e lotta di classe nel XX secolo: l’interpretazione marxista

Fin qui ci siamo limitati a delineare alcuni modi attraverso i quali un equivoco o, se si preferisce, una menzogna riesce a imporsi presso tutti gli strati – anche i più avvertiti – della popolazione. Detto in termini più rigorosi, ci siamo attenuti ai criteri di uno studio sulla fenomenologia psichica in un contesto metropolitano alle soglie del Duemila. Quello che resta da fare è inserire queste osservazioni fenomenologiche entro una cornice teorica in grado di illuminarle alla luce di una analisi complessiva della realtà.
La prima interpretazione che prenderò in esame è l’interpretazione marxista, la quale – per riassumere – attribuisce la diffusione della credenza nell’esistenza di Mestre a un preciso Piano del Capitale che si impone in un arco cronologico che va dagli inizi del Novecento alla fine del secolo: il quale Piano, come ora dirò, è duplice, nel senso che agisce sia sul piano strutturale che in quello sovrastrutturale, e si articola in tre fasi cronologicamente successive.

In un primo momento dunque, a partire grosso modo dal 1917, il grande padronato che con Porto Marghera dà il via alla costruzione di una delle più imponenti aree industriali d’Europa, si pone il problema di come far affluire manodopera in un territorio fino ad allora praticamente deserto e alla fine, dopo aver preso in considerazione alcune soluzioni in contrasto tra loro (riflesso del temporaneo emergere di conflitti inter-capitalistici) decide di reclutare operai dalle aree rurali contermini, senza contemporaneamente – e questo aspetto si rivelò determinante – senza contemporaneamente dare il via a un serio e coerente piano di trasporti (che però secondo alcuni, dato il livello medio di sviluppo delle forze produttive, sarebbe stato forse prematuro e inattuabile): il che in ogni caso costringeva i lavoratori, gettati sul lastrico da una concomitante e grave crisi economica, ad abbandonare le proprie case per risiedere vicino alla fabbrica. Per parecchi anni la classe operaia, composta di giovani poco qualificati ma altamente combattivi, lottò con coraggio contro questa forma di deportazione, ma col tempo dovette cedere: uno a uno, dapprima in gruppi sparuti e poi sempre più numerosi, i giovani lavoratori, sconfitti, divisi e soprattutto stroncati dalla fatica dei viaggi, si adattarono alla volontà padronale e trovarono casa vicino al luogo di lavoro, dapprima per sé (in genere una camera in affitto) e poi chiamando tutta la famiglia.

Questo piano, che agiva esclusivamente a livello strutturale, non era tuttavia sufficiente a convincere la gente a dormire sotto le ciminiere delle fabbriche, sicché il grande padronato dovette affrontare una battaglia ideologica, che fin dall’inizio fu consapevolmente articolata in tre fasi, le quali avrebbero dovuto convincere per gradi successivi la classe operaia ad accettare le seguenti tre presupposizioni: 1. «Mestre esiste»; 2. «Mestre è la mia città»; 3. «Mestre è bella».

In altre parole fin dall’inizio il Capitale si rese perfettamente conto che il solo motivo economico non avrebbe mai piegato una classe operaia consapevole della propria forza, e che nessun proletario avrebbe mai confessato davanti ai propri bambini di aver accettato la deportazione solo per poter dormire più vicino al luogo del suo sfruttamento e della sua alienazione (mentre, al bambino o alla bambina che affacciandosi alla finestra si poneva i primi angosciati perché, sarebbe stato facile rispondere «questa è Mestre, questa è la tua e la nostra città»).

Il Capitale decise allora di agire, come si è detto, anche a un livello sovrastrutturale, insinuando gradatamente e con successo l’idea che i vuoti tra i palazzoni e i condomini assegnati alla riproduzione della forza lavoro (e sostanzialmente al minimo necessario di ore di sonno) costituissero una città denominata Mestre. Una volta fosse andato a buon fine, questo progetto avrebbe conculcato nei proletari una forma di falsa coscienza, deviandone la giusta lotta verso obiettivi sovrastrutturali; avrebbe in altri termini spostato la loro attenzione dai condomini, dai palazzoni, dalle scuole e dalle fabbriche (cioè dalla realtà) agli interstizi tra gli edifici (e cioè al nulla). Tutti avrebbero visto il vuoto, che non esiste, e si sarebbero dimenticati dell’assetto sociale realmente esistente, avrebbero discusso dello spirito e non della materia: e in particolare i proletari, dimenticando di liberarsi dalle proprie catene, sarebbero divenuti degli astratti cittadini impegnati nella ricerca o nella costruzione di una mitica e comune identità urbana.

Ora, delle tre fasi previste nel Piano del Capitale, la prima (riassumibile nell’assunto «Mestre esiste») va grosso modo dal 1917 a tutti gli anni Sessanta; la seconda fase («Mestre è la mia città») comprende gli anni Settanta e Ottanta; la terza fase («Mestre è bella») costituisce il compito degli anni Novanta e comunque rappresenta il futuro.

Se osserviamo infatti il periodo che va fino alla fine degli anni Sessanta, vediamo che la deportazione di grandi masse di operai in edifici prossimi alle fabbriche si accompagna ai tentativi di vincere la diffusa resistenza all’emigrazione dimostrando l’esistenza di una città, come è testimoniato ad esempio dalla decisione di dare ai nuovi insediamenti costruiti sottovento rispetto alle fabbriche dapprima il curioso nome di «Città Giardino» e successivamente dei nomi che dessero ai proletari (questa volta veneziani) addirittura l’illusione di continuare a trovarsi nella loro città (ed ecco San Marco un po’ ovunque, e poi le varie Corte Todaro, Corte Lunardo, Corte Colombina, Corte Mirandolina, Corte Corallina, Corte Orsetta eccetera).

Verso la fine degli anni Sessanta il compito di istillare la credenza nell’esistenza di Mestre poteva dirsi concluso con successo. Da allora infatti le famiglie si sono talmente abituate a non vedere più gli edifici dove abitano, e a scorgere solo i vuoti tra le costruzioni, che non c’è nemmeno il bisogno di ricordarglielo: perciò i nuovi insediamenti degli anni Settanta e Ottanta non hanno più nomi, ma semplici sigle o insieme incomprensibili di lettere quali Cep, Peep, Cita, Iacp.

Attualmente anche la seconda fase può dirsi conclusa. La consapevolezza che Mestre non solo esista, ma sia anche quella che viene definita «la nostra città» non trova praticamente più opposizione; nascono anzi di continuo gruppi di studio, movimenti e perfino partiti politici che si dedicano alla celebrazione e alla diffusione di questa sorta di religione civica. (Non sempre i celebranti di questo culto laico sono a loro volta dei credenti genuini; talvolta devono soffocare le proprie opinioni e adeguarsi loro malgrado al clima generale che li circonda. Ad esempio quegli stessi che hanno promosso due referendum per staccare Mestre da Venezia al solo scopo di dimostrare che se qualcosa può essere staccato, allora esiste, questi stessi promotori, come leggo nel volume Mestre infedele a p. 125, invitano poi in un loro volantino a votare Sì «per entrare nel Veneto»: ma se Mestre non si trova nel Veneto, dove mai esiste? è chiaro che non esiste ed essi, con questo lapsus, dimostrano di esserne consapevoli. È molto probabile inoltre che qualche sacca di scetticismo si annidi perfino nei gruppi preposti alla celebrazione dell’esistenza di Mestre, come starebbe a indicare il titolo del primo volume che oggi presentiamo, La città invisibile, titolo che potrebbe celare un conflitto sotterraneo e un compromesso tra due gruppi rivali, l’uno dei quali nega l’esistenza della città senza però trovare il coraggio di proclamare pubblicamente la propria incredulità o quanto meno il proprio agnosticismo).

Abbiamo detto che la seconda fase messa in atto dal Grande Capitale è praticamente finita. Di più: allorché Domenico Canciani, nell’Introduzione a La città invisibile, individua oggi il «riconoscersi» degli abitanti in Mestre e nella sua storia (p. 11), egli dimostra chiaramente che siamo al punto di snodo tra la seconda fase e l’inizio della terza, alla fine della quale tutti saranno convinti che Mestre non solo esiste ed è «la nostra città», ma è perfino bella.

Se mi sono dilungato a illustrare l’interpretazione marxista, è perché (come del resto voi sapete) credo che essa sia in grado di spiegare meglio di altre la complessità del sociale. Tuttavia non sarò così dogmatico da ritenere che essa sia esaustiva. Riconosco che altre questioni restano aperte, in particolare le seguenti: se è vero che il Capitale ha tutto l’interesse a inculcare nel proletariato una falsa coscienza, come mai il proletariato stesso, che come abbiamo visto è vigile e combattivo, si lascia così facilmente persuadere ad andare contro i propri interessi di classe? e come mai la fede nell’esistenza di Mestre è fatta propria da tutti, anche dagli strati non operai della popolazione? Su questi punti io credo ci soccorrano le altre due interpretazioni attualmente più accreditate, e cioè l’interpretazione neo-kantiana e quella psicoanalitica, come cercherò brevemente di dimostrare.

3. Rumori e odori urbani: l’interpretazione neo-kantiana

Prima di prendere in esame l’interpretazione neo-kantiana, sarà opportuno richiamare sommariamente gli elementi fondamentali della teoria della conoscenza in Kant, il quale osserva che la conoscenza si ha nell’unione di determinazioni o intuizioni sensibili e di concetti puri o categorie a priori. Le forme empiriche che noi percepiamo (quali rumori, odori, spigoli, intralci o impedimenti fisici eccetera) di per sé non ci direbbero niente se esse non fossero organizzate, e quindi rese intelligibili, da forme a priori che le collocano nello spazio e nel tempo e quindi conferiscono loro un senso. Torniamo ora al nostro tema e ricordiamo quanto si diceva all’inizio, che cioè nessuno di noi vedrebbe gli interstizi se non fossimo stimolati da qualche intuizione o determinazione sensibile (causata da elementi lignei, bronzei o di pietra) che ci costringe a farlo; ma a loro volta queste intuizioni sensibili non sarebbero intelligibili se noi non le organizzassimo attorno a una categoria a priori – ad esempio l’idea di pieno contrapposto a vuoto, o l’idea di Pòlis –, in base alla quale siamo portati ad affermare: esistono luoghi e spazi i quali rappresentano per così dire un pieno – in contrapposizione al vuoto – e contengono una città detta Mestre.

Ora, se la costruzione di elementi lignei, bronzei e di pietra a forma di totem, colonne, sfere o menir, persegue l’obiettivo di rivelare luoghi organizzati attorno all’idea di Pòlis laddove esiste il nulla, ciò significa che la popolazione tende per sua natura ad assopire le intuizioni sensibili e a percepire sempre di meno l’esistente attorno a sé, e deve perciò essere di continuo stimolata da nuove e più forte determinazioni sensibili che possano essere collegate in qualche modo all’idea di Pòlis (con la conseguente classificazione interna di Centro e di Periferia), o meglio di Mestre come Pòlis, con il suo centro e le sue periferie.

Vanno così sorgendo tangenziali ed enormi cavalcavia a pochi passi dalle case, di modo che la popolazione, affacciandosi alla finestra, possa dire: «Questa è una superstrada, quindi questa è una città»; gli odori industriali devono essere abilmente miscelati e mantenuti a un certo livello e anzi incrementati se si vuole che la popolazione ammetta a se stessa: «Questa è una città industriale»; le discariche devono essere molte e ben visibili e continuamente alimentate dalle pubbliche amministrazioni (non solo di giorno, ma anche di notte), affinché si possa dire senza tema di smentita: «Qui c’è una discarica, dunque qui c’è una periferia, mentre lì c’è il centro» (e per analogia: «Se questa è la Biblioteca Comunale, io vivo a Mestre»; «Se non riesco a salire su questo autobus, questa è Mestre» eccetera).

Come si è visto, le categorie che rendono intelligibili le intuizioni sensibili non sono solo quelle newtoniane legate allo spazio e al tempo (come erroneamente riteneva Kant), bensì anche quelle legate all’archetipo di Pòlis. In questo senso possiamo dire che nessun dato fenomenico (nemmeno il fatto di annusare o vedere una discarica o di sbattere in bicicletta contro il pilone di una tangenziale) sarebbe di per sé intelligibile se non fosse immediatamente illuminato da questo archetipo.

Diventa ora più chiaro il motivo di nomi quali «Riviera», «Castello», «Torre», «Piazza», «Parco», che non hanno alcun riferimento reale e che si spiegano solo coll’esistenza di un archetipo di Pòlis (nel nostro caso si direbbe una città medievale su modello di Siena), il quale archetipo richiede appunto che una città abbia le sue Piazze, il suo Duomo, le sue Torri, il suo Castello: e stupisce di non trovare per esempio un «Lungomare» («Lungomare Daniele Manin», perché no?) in un territorio al quale per il resto non manca niente di quello che si suppone debba costituire una città ideale2.

Tutto ciò sta a dimostrare inoltre che Mestre, frutto di un bisogno oscuro e primitivo di dare una forma nota e perciò rassicurante a ciò che viene percepito come esterno e altro da sé, non è niente di più che il prodotto dell’inconscio collettivo. Ma questo punto va ulteriormente chiarito: se è abbastanza comprensibile infatti il peso che giocano determinazioni sensibili – quali barriere fisiche e architettoniche, odori, rumori, colori – nella costruzione dell’idea di Mestre, resta da capire come possa venire unanimemente accettata l’idea stessa che rende intelligibili le determinazioni sensibili. Questo tema ci porta ad affrontare la terza e ultima interpretazione, che è appunto quella psicoanalitica.

4. Nevrosi ossessiva e ambivalenza dei sentimenti: l’interpretazione psicoanalitica

L’interpretazione psicoanalitica, nella versione freudiana, chiarisce un quesito che finora non ha avuto risposta: come mai l’esistenza di Mestre, pur essendo manifestamente infondata, raccoglie una così vasta, anzi totale, adesione di massa? Riprendendo alla lettera gli insegnamenti di Freud, tale scuola di pensiero risponde: 1. che siamo dinanzi a un classico esempio di segreto tribale; 2. che la coazione nevrotica a pensare e a ribadire l’esistenza di Mestre si spiega col fatto che Mestre «esprime due opposti significati: in un senso significa sacro, consacrato, nell’altro, sinistro, pericoloso, proibito, impuro»3.

La caratteristica principale di questa nevrosi ossessiva consiste dunque in una sorta di atteggiamento ambivalente del soggetto verso l’oggetto-Mestre: nel mentre desidera prepotentemente compiere un’azione in qualche modo connessa con Mestre, il soggetto aborre da tale azione e ne prova orrore; è consapevole del divieto imposto dalla ragione, ma desidera inconsciamente e intensamente violarlo; sa che ogni azione connessa con Mestre (e perfino l’idea stessa) è proibita dal buon senso, ma prova contemporaneamente una fortissima attrazione a soddisfare il desiderio proibito; è attratto dalla trasgressione e la teme, ed è perciò diviso tra la paura della tentazione e il piacere di assecondarla.

Tale nevrosi ossessiva, per sua natura contagiosa, si traduce collettivamente in un segreto tribale, da tutti condiviso e da tutti religiosamente rispettato: la popolazione infatti si aspetterebbe chissà quali punizioni (quasi le venisse letteralmente a mancare la Terra sotto i piedi e all’improvviso la Storia sospendesse il suo cammino) nel caso qualcuno osasse svelare il segreto della non-esistenza di Mestre e affermasse pubblicamente la verità che essa conosce e vuole tenere nascosta ai profani.

Questo spiega il motivo di un’usanza apparentemente strana, ma in realtà perfettamente comprensibile, l’usanza cioè dei membri della tribù di usare il termine «Mestre» solo ed esclusivamente quando si rivolgono ai non-iniziati, in particolare quando si rivolgono ai bambini (che devono ancora essere iniziati e perciò devono credere nell’esistenza reale di Mestre) e agli stranieri (che sono tenuti all’oscuro del segreto). Tra gli iniziati invece, i quali sono al corrente del segreto, il termine «Mestre» non viene mai nominato. Mentre infatti, nel rivolgersi ai non-iniziati (bambini e stranieri), i custodi del segreto tribale dicono «Sto a Mestre», quando parlano tra di loro e sono certi di non essere ascoltati dai profani, evitano accuratamente il nome «Mestre» (che, come si è detto, percepiscono come termine interdetto, sacro e impuro allo stesso tempo) e ricorrono alle denominazioni più varie: astenendosi dall’usare il termine proibito, dicono ad esempio «Sto a Favaro», «Sto a Chirignago», «Sto a Catene», «Sto a Ca’ Solaro» eccetera.

Abbiamo detto che le denominazioni cui essi ricorrono per evitare l’uso di «Mestre» sono molto varie; finora ne sono state raccolte almeno 38 e cioè, in ordine alfabetico: Altobello, Aretusa, Asseggiano, Bissuola, Bottenigo, Ca’ Brentelle, Campalto, Carpenedo, Ca’ Sabbioni, Ca’ Solaro, Catene, Cavergnago, Cep, Chirignago, Cipressina, Cita, Dese, Favorita, Gatta, Gazzera, Giustizia, Macallè, Malcontenta, Marghera, Marocco, Peep, Piave, Piraghetto, Quattro Cantoni, San Giuliano, San Giuseppe, San Teodoro, Terraglio, Tessera, Trivignano, Villaggio San Marco, Villaggio Sartori, Zelarino.

Conclusioni

Mi avvio rapidamente alla conclusione del discorso. Spero di aver portato argomenti convincenti. (Ma se aveste ancora qualche dubbio residuo, pensate alla seguente dimostrazione per assurdo: ammettiamo per assurdo che Mestre esista; ma allora perché mai, quando una persona che pure ammette di abitare a Mestre, dice «Vado a Mestre» quando esce di casa? non è questo un residuo linguistico del tempo in cui l’abbaglio doveva ancora imporsi e appariva per quello che effettivamente era?)

Riassumendo quello che ho cercato di illustrare: nella prima interpretazione, quella marxista, Mestre è l’oppio dei popoli, nella seconda, di ispirazione neo-kantiana, Mestre è una sintesi a priori, nella terza, psicoanalitico freudiana, Mestre è un totem e perciò un tabù.

Lungi dall’essere in contrasto tra di loro, come gli studiosi hanno fin qui affrettatamente sostenuto, le tre interpretazioni si sorreggono a vicenda l’un l’altra. Mi auguro che almeno una di queste vi convinca.

Non vorrei comunque aver dato l’impressione di un giudizio totalmente negativo sui due volumi che oggi vengono presentati. Torno a dire che il materiale è ben distribuito, lo stile è vivace e a tratti anche piacevole: nel complesso si leggono volentieri. Se questi libri appartenessero al filone della letteratura d’evasione o dei viaggi fantastici (come le opere che ci parlano di Atlantide, del Cipango o del Catai) non troverei anzi niente da dire, e mi sentirei di consigliarne la lettura perfino ai bambini. Ma quando vogliono contrabbandare per una verità storica quello che, nel migliore dei casi, è il frutto di un inconscio collettivo, è nostro dovere denunciare l’inganno.

Devo confessare che per lungo tempo sono vissuto anch’io nell’errore, e ho cercato anzi di propagarlo e di diffonderlo. Non solo ho partecipato ai due volumi che oggi vengono presentati, ma ho anche concorso nella mia vita alla pubblicazione di un altro libro di analoga intonazione, seppure falsamente circoscritto a questioni relative ad alcune fortificazioni militari4. Con il discorso di oggi ho finalmente l’occasione di liberarmi da un peso che mi era diventato negli anni troppo pesante. Spero che anche voi troviate il coraggio di fare altrettanto.

Vi prego, liberatevi dal segreto che vi opprime, ora che ne avete l’opportunità. Trovate qui due volumi che rappresentano un esempio insuperabile del livello di mistificazione a cui siamo giunti. Smascherate questo gioco, ponete fine alla Grande Menzogna. Evitate che tali opere vadano in mano a gente sprovveduta, risparmiate ad altri l’esperienza dell’errore. Togliete di mezzo questi libri prima che siano diffusi, fate che non venga immesso nelle librerie nemmeno un esemplare. Acquistateli adesso, quando sono in vendita a prezzo intero, prima che gli editori, disposti a tutto pur di spargere il loro veleno, li distribuiscano su bancarelle improvvisate a prezzo ridotto e perfino dimezzato, perché allora le pubblicazioni entreranno in ogni ambiente sociale, anche il meno preparato, e nessuno sa quale sorte il futuro vorrà riservarci. Comperate questi due volumi e comperatene in più copie, fate che siano tolti per sempre dalla circolazione.

Se avessi convinto anche una sola persona a ravvedersi e a seguire il mio consiglio, sentirei di aver raggiunto il mio scopo.

Grazie, cittadine e cittadini di Mestre.

  1. Autori del volume La città invisibile sono Sergio Barizza, Piero Brunello, Domenico Canciani, Collettivo 150 ore «Bandiera e Moro», Rosalia Di Blasi Burzotta, Gianni Facca, Maura Mosena Zanin, Giovanna Lazzarin, Roberta Pellegrinotti, Chiara Puppini, Giorgio Sarto, Paola Sartori, Maria Teresa Sega, Alessandro Voltolina.

    Autori del volume Mestre infedele sono Sergio Barizza, Armando Bonetto, Piero Brunello, Domenico Canciani, Delia Murer, Giorgio Sarto, Paola Sartori, Maria Teresa Sega, Alessandro Voltolina, Gabriele Zanetto. [↩]

  2. Oltre all’influsso esercitato dall’archetipo di Pòlis, probabilmente gioca anche un ruolo la geometria euclidea, e cioè l’idea che se esiste un punto per il quale passa una retta, ne esiste necessariamente anche un altro: il quale postulato, una volta banalizzato dalla scolarizzazione di massa, si traduce nell’affermazione che se esiste una cosa ne consegue che deve necessariamente esistere anche un’altra, e che perciò se esiste Siena o se è esistita un tempo Venezia, deve necessariamente esistere anche Mestre. Ma questo apre il problema, da lungo tempo dibattuto, di una seria e radicale riforma della didattica della geometria, o almeno dell’introduzione a scuola della geometria non-euclidea. [↩]
  3. S. Freud, Il tabù e l’ambivalenza dei sentimenti, in Id., Totem e tabù, a cura di F. Maineri, Roma 1970, p. 80. [↩]
  4. N. Anoè, P. Brunello, G. Facca, C. Zanlorenzi, I forti del campo trincerato di Mestre: storia, ambiente, prospettive di riuso, a cura di P. Brunello, Libreria Utopia Due, Venezia 1988. [↩]

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Primo maggio a Parigi negli anni Novanta

15/05/2007

di Antonio Canovi e Marco Fincardi

I nostri amici Canovi e Fincardi ci hanno concesso di ripubblicare il loro articolo Osservazioni sul tradizionale corteo nella capitale francese negli anni Novanta, apparso per la prima volta in “Il Calendario del popolo”, a. LII, n. 603, novembre 1996, pp. 6-10. Si riprende qui con alcune minime modifiche.

Negli anni Novanta abbiamo assistito ad alcuni Primo maggio. Proviamo a descriverli.

Nel 1996 il concentramento è stato alla Gare du Nord, consueto capolinea per chi arriva dalla banlieue operaia e comunista. Il corteo, imboccati i grandi viali, si è ingrossato dirigendosi verso place de la République. L’ha fiancheggiato – nella reciproca indifferenza – l’esiguo presidio musicale della Joc: l’organizzazione giovanile operaia cattolica. Di là, si è diretto verso la piazza dalle più forti simbologie politiche: place de la Bastille. Sono queste due piazze a costituire abitualmente i due poli di riferimento per il percorso della grande manifestazione popolare, patrocinata dalla Cgt, a cui si affiancano talvolta altri sindacati. Sono importanti punti di raccordo nella viabilità del centro cittadino, contrassegnati da grandi monumenti che evocano la storia rivoluzionaria nazionale. [Leggi di più…] infoPrimo maggio a Parigi negli anni Novanta

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“Rockgarage”. Musica e politica

30/03/2007

intervista di Piero Brunello a Marco Pandin, a cura di Filippo Benfante

Il 9 novembre 2001, presso il municipio di Mestre, l’associazione storiAmestre ha presentato il libro di Stefano Giaccone e Marco Pandin, Nel cuore della bestia. Storie personali nel mondo della musica bastarda, Zero in Condotta, Milano 1996. Piero Brunello ha condotto un’intervista pubblica a uno degli autori, Marco Pandin. Si presentano alcuni brani di quella conversazione, che si è allargata al pubblico; la selezione e il montaggio sono a cura di Filippo Benfante. Si ringrazia Marco Pandin, che non ha rivisto il testo, per la fiducia e la generosità.

Il testo è stato pubblicato in precedenza in “Venetica. Rivista di storia contemporanea”, s. III, n. 8 (2003), n. monografico “Cambiare musica. Generazioni, gusti, ideologie”, pp. 139-152.

Piero Brunello. Leggendo il libro scritto da te e da Stefano Giaccone, Nel cuore della bestia, mi sono fatto delle idee. Approfitto della tua presenza per alcuni chiarimenti. Leggo nella copertina del libro che sei del 1957, quindi appartieni a una generazione successiva a quella del Sessantotto, che è la mia. Leggo: “Ero spesso sulla luna, sempre informato di notizie assurde e a conoscenza di novità strampalate […] in qualche manifestazione di piazza a gridare potere-a-nessuno invece che potere-operaio come tutti gli altri”. Ecco un altro brano che riguarda la primavera-estate del 1978, quando “l’intero staff dirigenziale di ferrei compagni-con-i-peli-sul-petto” piomba nella radio nella quale tu, allora giovanissimo collaboratore, avevi trasmesso due dischi giunti in regalo da Londra, Never mind the bollocks dei Sex Pistols e il primo album dei Clash, dichiarando che il punk «altro non era che un fenomeno fascista che doveva restare fuori dalle onde della “nostra” emittente».

Sono colpito prima di tutto dalla differenza con la mia generazione, che si vede, come tu stesso scrivi, dalla scelta delle letture, dai giornali. A questa differenza generazionale si sovrappone un atteggiamento che si distanzia dal tono operaista tipico delle organizzazioni della sinistra e della nuova sinistra a Mestre.

Marco Pandin. Mio papà è stato per più di trent’anni operaio alla Montedison, e come lui erano operai a Marghera tutti i nostri vicini di casa e i nostri vicini di quartiere. Ho abitato alla Cipressina per trent’anni. Voglio dire che mi sono sempre sentito diverso, ma non mi sono mai contrapposto a mio padre. Lui era socialista: mi sentivo sì diverso da lui, ma non all’opposto. Lo stesso, non compravo né “Lotta Continua” né il “Quotidiano dei Lavoratori” perché non mi sentivo comunista. Compravo ogni tanto, quando riuscivo a trovarla, la “Rivista Anarchica”. Andavo a Venezia alla libreria Utopia perché mi sentivo attratto da quel giro. Mi sentivo più vicino, mi sentivo come dire identificato in quel leggere, meglio, mi sentivo contento di leggere dentro quei giornali e non altri delle parole che sentivo più mie. Cose che nel “Quotidiano dei Lavoratori” e in “Lotta Continua” non ho trovato. Comunque non è vero che non li ho comprati e non li ho letti. […]

Col punk tante cose sono state del tutto nuove rispetto a prima, sono stati messaggi nuovi specialmente per i ragazzi più giovani. Ad esempio il messaggio: “noi suoniamo, anche se non ne siamo capaci”, che del punk è stato un aspetto fondamentale. E ancora: noi vogliamo una rottura col passato buttandola sul brutto: mi presento brutto, quindi senza offrire alcun modello da imitare, non il tipo palestrato o la ragazza bellissima tutti vestiti bene, che erano il modello base che allora si seguiva. I Sex Pistols – che comunque sono stati un grosso prodotto industriale travestito da “rivoluzione culturale” – si sono presentati brutti, sporchi e cattivi e schifosi, non sapevano suonare ed è stata una fortuna. Non tanto per loro, quanto piuttosto per il loro padrone, che aveva inventato quel look e che aveva il negozio dove si poteva comprare quel genere di vestiti, e per il padrone dell’etichetta discografica che aveva stampato il loro disco. In Italia il punk è stato una cosa diversa. Qui cose come i Sex Pistols non sono mai successe, prima di tutto perché “quel” punk era un’espressione sociale distantissima dalla nostra: in fondo i musicisti punk sono diventati tutti famosi ed erano tutta gente che stava piuttosto bene a livello economico. Se si andava a fare come ho fatto io nei primi anni Ottanta un giro a Londra, quando ormai il punk era già cosa morta, si scopriva che i punk che c’erano in giro erano gente molto più ricca di noi, che aveva vestiti fighi e faceva tutto il giorno passeggiate a King’s Road vivendo di rendita. Si potevano permettere degli strumenti costosi, chitarre di marca, cosa che noi non siamo riusciti a fare neanche dopo anni di sbattimenti. Facevano schifo perché avevano vestiti schifosi, ma firmati. […]

Penso che del punk prima del concerto di Patti Smith a Bologna, cioè fine settembre del 1979, nessuno di qui ne sapesse niente. Dopo, qualcuno ha saputo qualcosa per passaparola. Come si diceva prima, queste cose non sono passate attraverso gli ambienti culturali o pseudo tali, né tramite il circuito delle radio libere, specialmente nel primo periodo, perché il punk era considerato un fenomeno neofascista. C’era ‘sta gente che andava in giro con le spillette, le borchie e le svastiche, ed era una cosa… Era una cosa immonda agli occhi di mio papà il fatto che avessi portato a casa il disco dei Sex Pistols con le svastiche in copertina. “Questa roba la tieni fuori di casa” – mi disse. E io a spiegargli che quelli facevano schifo sì, ma era così, tanto per suonare. Secondo me era provocazione, ma fino a un certo punto. Ci marciavano sopra, direi, sull’ambiguità.

Piero Brunello. Vorrei che ci parlassi del rapporto che tu hai e senti con Marghera – raccontami se ci hai mai lavorato – e con il lavoro industriale. Questo aveva un senso nella vostra musica, nei vostri incontri?

Marco Pandin. La mia esperienza di lavoro all’interno degli stabilimenti a Marghera è durata solo otto giorni. Lavoravo in nero per una piccola ditta, un’impresa che aveva un sub-sub-sub-appalto, e sono stato intercettato per una soffiata, probabilmente una vendetta. Sono stato contento che sia finita così, perché lì dentro nel giro di una settimana ho visto cose orrende. Un giorno pioveva e l’acqua delle pozzanghere prendeva colori diversi sotto le tubature, penso fosse a seconda di quello che ci circolava dentro. A me sembrava di stare dentro un film di fantascienza. Sì, sono stato contento che mi abbiano beccato, così non sono dovuto più andare a lavorare là. Mio papà è stato contento quanto me e anche di più quando mi hanno cacciato. Avrebbe voluto che io continuassi l’università, mi laureassi e me ne andassi via di qui, magari all’estero. Quando ho deciso di mollare gli studi ho fatto con lui l’unico litigio della mia vita. Sono una persona fortunata, ho avuto genitori con i quali non ho mai avuto degli scazzi, solo uno grosso, appunto, quando ho mollato l’università e ho detto a mio padre che sarei andato a lavorare in fabbrica. I miei mi hanno sempre sostenuto, hanno sempre ben visto i miei giri di amicizie, i miei viaggi e le mie avventure, ed il via vai di gente che suonava che gli ho sempre portato in casa. Mi hanno sempre aiutato, insomma, non economicamente perché eravamo una famiglia povera, ma con un grosso e continuo sostegno d’amore, nonostante il disco con le svastiche che mio papà non voleva vedere in giro a casa. L’orientamento mentale di noi ragazzi allora era di scappare o almeno di tagliare a tutti i costi dall’ambiente che ci stava intorno.

Poi c’è un senso estetico del degrado nella nostra musica, meglio in una parte della nostra espressione artistica. Certe cose potevano venire pensate e fatte solo a Mestre, musicisti e gruppi di musica elettronica che magari non hanno mai registrato niente di ufficiale e che si sono soltanto offerti in concerti organizzati da “Rockgarage”.

Piero Brunello. Hai scritto: “La simbologia cimiteriale divenne il contrassegno di certo punk, […] la colonna sonora obbligatoria del non futuro”.

Marco Pandin. Questa cosa è successa nelle città più grandi, qui in zona è successo poco nel senso che avevamo sì vari contatti i giri punk e new wave di altre città come Bologna, Milano, Roma eccetera ma questa era più una caratteristica loro. Penso comunque che anche loro l’abbiano vissuta più come un fatto d’importazione che come cosa vissuta sulla propria pelle. Qui noi avevamo già dei begli stabilimenti che ci rovinavano l’aria, loro no. A Milano il giro grosso del punk era in mano a gente di buona famiglia, a Bologna era in mano a gente ricca che già nei primi anni Ottanta poteva permettersi personal computer e videocamera, cose che io sono riuscito ad acquistare soltanto adesso, dopo più di vent’anni.

Dico questo per mettere dei paletti, per fare delle differenze. I giri che avevano preso in mano questo “fenomeno punk” volevano essere esclusivi e ci riuscivano anche, perché potevano andare a Londra tutti i mesi a comprare dischi e magliette e importandoli qui in Italia. Da noi non c’era niente. Erano anche obbligatori gli anfibi, roba da matti d’estate. Meglio i sandali, no? Eppure ai concerti punk c’era tutta quella gente rovinata con gli anfibi e il giubbotto anche d’estate, roba da morire… Chi c’era tra noi che aveva il giubbotto di pelle? Costava allora più di 300.000 lire, era una grossa cifra, un mese di paga. Compro il giubbotto però non mangio niente e non faccio niente per un mese, non do soldi in casa, non riesco a mantenermi. Come faccio? Niente giubbotto, allora. È proprio un fatto di necessità: penso che da noi non abbia mai attecchito quel tipo di cultura perché è una mentalità che non ci appartiene.

Piero Brunello. Nel libro ricordi di ragazzi che si truccano da punk o da dark nei cessi dei bar: è un indizio di una moda e contemporaneamente della loro esclusione sociale. Ti risulta che a Mestre avvenisse altrettanto?

Marco Pandin. Sì, giri di ragazzi così ce n’erano. Era una cosa in un certo senso agevolata in alcuni posti. Al Banale a Padova, ad esempio, vicino ai cessi c’era un grande specchio davanti al quale ci si poteva truccare. Molti ragazzi ne approfittavano: era tutta gente normalissima, vestita in modo normale che poi si preparava per la serata e restava nel locale fino a tardi. A mezzanotte o all’ora di chiusura ritornavano nei cessi, si lavavano e ritornavano a casa. Senza cattiveria, era una cosa del tutto normale. Se si fossero presentati truccati da dark o da punk a casa sarebbero stati picchiati dai genitori. La prima volta che sono andato in vacanza a Londra più di vent’anni fa, sono tornato a casa con l’orecchino: mio papà l’ha presa molto male, è stato un colpo. In tutto il quartiere allora eravamo solo in due ragazzi con l’orecchino, e tutt’e due avevamo fatto il piercing a Londra. Mio papà era disperato, secondo lui avevo fatto una cosa assolutamente disdicevole. Chissà cosa direbbe adesso, conosco persone che hanno anche il piercing all’uccello. Adesso è una cosa normale, una cosa che si vede alla televisione.

Luciana Granzotto. Volevo sapere se si può parlare di un “periodo punk” a Mestre.

Marco Pandin. Credo che non ci sia stato alcun gruppo punk nella nostra zona, così come se ne può avere un’idea. C’è stato piuttosto un movimento di musicisti diversi, indipendenti, staccati tra loro, alcuni anche vogliosi di venire fuori allo scoperto ma non smaniosi di fama, di pubblicità a tutti i costi. Non era questo quello che si voleva, ripeto: l’importante per tutti era esprimersi liberamente. Sotto certi punti di vista il punk è stato un fenomeno d’élite, culturalmente ed economicamente. Sono passati attraverso il punk alcuni messaggi che solo in parte abbiamo ritrovato come “nostri” ed abbiamo provato a replicare. Ad esempio il fatto dell’autogestione, dell’organizzazione dal basso, della non verticalità. Restando nell’ambito musicale, organizzavamo i concerti tutti assieme, si scaricavano assieme gli strumenti e si puliva assieme la sala, si mettevano in piedi delle serate senza agenzie e intermediazioni, invitavamo cioè i musicisti contattandoli direttamente. Ci stampavamo da soli le nostre fanzine. Avevamo pochi soldi, facevamo dei ciclostilati, fregavamo le fotocopie al lavoro, a scuola o in qualche ufficio. Diffondevamo cultura in via orizzontale: nessun centro, nessun negozio. È una cosa importante. Facevamo tutto assieme.

Piero Brunello. È così che è partita anche l’esperienza di “Rockgarage”?

Marco Pandin. Certo, è venuta fuori proprio da questo: proviamo a fare un giornale per noi perché prima per noi non c’era niente. Appena si è saputo in giro della nostra idea ecco spuntare il tipo che ben conosciamo di quella certa associazione culturale che ci viene a dire che si potrebbe fare qualcosa assieme, che il giornale col suo aiuto potrebbe venire meglio, che potrebbero metterci dei soldi perché la cosa gli interessa… Una volta mi ha chiamato un tizio, cos’era, del CPS credo, voleva prendere un paio di pagine di pubblicità, le pagine centrali a tutti i costi… Voleva mettere le mani sopra a ‘sta cosa che invece era nostra. C’era sì della pubblicità su “Rockgarage”, ma erano due-tre pagine su una cinquantina, ed erano tutti negozietti di amici che ci davano una mano a dar via il giornale. Ci davano magari 50mila lire per un trafiletto, e quando andavamo in negozio a comprare i dischi o i biglietti per Londra ci facevano un po’ di sconto. Tutto qui, cose a livello casalingo.

Nel primo numero di “Rockgarage” abbiamo ficcato dentro tutto quello che ci sarebbe piaciuto leggere […] è stato una grande sega. Il secondo era già qualcosa di più personale, il terzo ancora di più. Abbiamo fatto un giornale perché avevamo delle cose da dire, perché volevamo provare un’esperienza. In zona una cosa simile non era mai stata fatta prima. […] Francamente, non avevamo alcuna idea rivoluzionaria, né avevamo interessi o orientamenti politici simili più che altro perché non era quello il nostro terreno di confronto. Semplicemente eravamo amici, vicini di casa, e un giorno abbiamo avuto quest’idea. A tutti noi piaceva la musica, c’era chi suonava, chi amava scrivere, chi amava disegnare. Ci siamo tassati: chi aveva un lavoro ha messo un po’ di più soldi, abbiamo fatto una colletta e pagato il primo numero. Abbiamo trovato una tipografia dove abbiamo implorato quasi piangendo e disperandoci uno sconto, e alla fine siamo riusciti a stampare il primo numero. Tremila copie, a noi sembrava un’esagerazione, eravamo convinti che sarebbero rimaste invendute per degli anni. Davamo via “Rockgarage” a mille lire, un prezzo vergognoso. A chi non poteva pagare neanche questo prezzo basso davamo il giornale comunque: a noi interessava diffonderlo. È andata benissimo: sono rientrati i soldi che avevamo anticipato e ne sono stati raccolti degli altri. Appena possibile abbiamo fatto uscire un altro numero, e poi un altro. Il giornale lo facevamo nei ritagli di tempo, tutti studiavamo o lavoravamo.

Non avevamo una sede, ci trovavamo una volta a casa mia, altre volte a casa di qualcun altro. Eravamo in pochi, bastava una stanza, ci ascoltavamo un po’ di dischi e pensavamo a cosa fare. Appena rientravano i soldi progettavamo il numero successivo del giornale. Il secondo numero, visto che potevamo permettercelo, lo abbiamo fatto con un po’ di pagine in più. È andata ancora meglio, perché oltre a vendere tutte le copie abbiamo avuto richieste per comperare dei piccoli spazi pubblicitari, ed erano soldi che sono serviti a recuperare prima le spese. Ci siamo ritrovati con quello che per noi era un sacco di soldi. Che ne facciamo? Visto che c’erano dei musicisti tra noi, abbiamo pensato di allegare a “Rockgarage” un disco con dentro le nostre canzoni. Abbiamo coinvolto i nostri amici e compagni di quartiere, altri da Spinea, da Murano e un gruppo di Marostica con cui avevamo fatto amicizia ai concerti. Un disco con le nostre canzoni, finalmente. Pensato, fatto, stampato tutto da noi. Abbiamo stampato solo mille copie del giornale col disco perché non avevamo abbastanza soldi per stampare tremila dischi. Ancora, tutto venduto di corsa. E ancora, siamo riusciti a pagare tutte le spese e a raccogliere altri soldi. Abbiamo venduto a 3mila lire il giornale col disco, era un prezzo assurdo. Allora un disco costava 4-5mila lire, in confronto offrivamo un disco e un giornale a meno di metà prezzo rispetto al prezzo dei negozi. Vendevamo “Rockgarage” ai concerti, non avevamo una rete di distribuzione, né degli intermediari.

Il nostro errore è stato questo: affidarci a un centro di distribuzione che ci ha promesso una diffusione a livello nazionale. Abbiamo consegnato l’intera tiratura del nostro ultimo numero e non ci è stato dato un soldo. Avevamo pronto per la tipografia il numero immediatamente successivo, a cui stavamo concordando di allegare un disco dei Litfiba e uno di un gruppo di San Donà, i Davai’Ciass. Siamo rimasti letteralmente inchiodati da questo. Il libro dei Crass che ho curato, contemporaneo a questi fatti, non mi è mai stato pagato da questo distributore. Lo stesso, un sacco di materiale da me pubblicato, dischi, cassette.

L’ultima volta che ho avuto contatti con questa persona risale alla morte di mio papà, una vittima della Montedison. Ero veramente in bolletta, non avevo soldi per il funerale e sono andato a chiedere almeno un acconto. Mi è stato risposto che non c’è alcun documento fiscale valido che prova il mio credito, e sono stato messo alla porta. Il funerale a mio papà è stato pagato da una colletta fra i parenti. A me spiace che questa persona non sia qui stasera.

Fortunatamente sono andato avanti, ho messo su famiglia, ho due bambine, ho una vita soddisfacente e un sacco di amici. Sono andato avanti, ecco, semplicemente. È stata comunque una mazzata non solo per me ma per tutti gli altri coinvolti. Io bene o male avevo un lavoro, ma a “Rockgarage” collaboravano studenti e disoccupati, e un paio di noi magari vedevano nel giornale una mezza speranza di lavoro: invece che aumentare ogni volta le pagine e allegare due dischi avremmo potuto far uscire un formato standard e ritagliare un po’ di paga. “Rockgarage” poteva essere una buona occasione di lavoro per almeno un paio di noi che avrebbero potuto mandare avanti una redazione. Ma non è detto che non possa succedere ancora.

Piero Brunello. Puoi raccontare altre esperienze di autogestione e di rapporti egualitari? Penso prima di tutto alla radio.

Marco Pandin. “La radio” erano in realtà diverse radio. La cosa cominciò, mi sembra, quando ero in seconda o terza superiore, quindi verso il 1973-74. Una delle prime radio indipendenti e libere italiane è stata Radio Mestre 103, che aveva sede a Marghera al quartiere Cita. Se non sbaglio dietro alla radio di allora c’era il tentativo politico importante di aprire un’emittente privata regolare alternativa al monopolio Rai. La radio era stata messa in piedi da alcune persone che avevano avuto poco prima anche un’esperienza pionieristica di televisione privata via cavo a Castelfranco Veneto.

Radio Mestre 103 aveva iniziato a trasmettere da pochi giorni, mi ricordo che ho provato a telefonare in redazione e mi hanno invitato lì in sede, e un paio di giorni dopo ero lì che conducevo la “mia” trasmissione, in maniera assolutamente libera, senza filtri né imposizioni. Mi hanno messo davanti a un microfono, e mi hanno detto vai. Le prime volte mi ha aiutato un ragazzo un po’ più vecchio di me che sapeva adoperare il mixer, poi mi sono dovuto arrangiare. Avrò avuto si e no quindici-sedici anni. I dischi me li portavo da casa, e siccome suonavo con un gruppo di amici spesso trasmettevo anche la nostra roba registrata in garage e quella di altri gruppi della zona, che hanno cominciato a mandarmi il loro materiale. Assieme agli Area, al Perigeo, trasmettevo anche le nostre seghe da cantina. Arrivavano tantissime telefonate anche da lontano, anche da Ancona ricordo, perché non c’era ancora nessun’altra emittente e il segnale arrivava lontanissimo. E mi sono ritrovato improvvisamente a gestire una cosa impossibile, una mia compagna di classe veniva ad aiutarmi perché non riuscivo da solo a star dietro ai dischi e alle telefonate. Poi con alcuni amici, anche di altre radio, abbiamo cominciato a fare delle trasmissioni collettivamente, anche in due o tre conduttori. Ognuno portava i suoi dischi da casa, e inventavamo la scaletta al momento. Questa situazione è durata per degli anni, almeno fino ai primi anni Ottanta. Ho collaborato con numerose radio, almeno una decina, anche due contemporaneamente, andando via con una trasmissione da una per rientrare nell’altra. Questo serviva per mantenere sempre degli spazi aperti, degli spazi liberi.

Piero Brunello. Prima hai detto che con “Rockgarage” organizzavate concerti. Come vi regolavate coi soldi: domandavate un biglietto?

Marco Pandin. Riuscivamo ad avere gratuitamente il lunedì oppure il giovedì la sala del cinema Dante perché quei giorni non erano occupati dalla normale programmazione dei film. Al dopolavoro ferroviario ci hanno sempre dato volentieri la sala perché con noi non andava mai rotto niente e la riconsegnavamo sempre pulita e in ordine. Lì dentro abbiamo fatto tantissima attività, come anche alla biblioteca di Oriago: un sacco di cose, dai piccoli concerti a feste progettate semplicemente per stare insieme e ascoltare musica. Dei gruppi venivano a suonare, poi noi mettevamo su dei dischi e dei video. Chi voleva portava del vino o dell’altro, o da mangiare. Erano cose fatte per stare assieme.

Una cosa che mi fa moltissimo piacere ricordare è che tanta gente a Mestre, tra cui io e non me ne vergogno, andava a contestare pesantemente i vari concerti a teatro promossi dalle varie istituzioni, le rassegnone di jazz al teatro Corso e i concertoni al palasport. Si andava lì a sfondare, anzi per sfondare: non ce ne fregava niente di stare lì ad ascoltare quella roba, volevamo solo rompere i coglioni, stare cinque dieci minuti e poi andare via. I concerti di jazz invece io me li sono visti e sentiti quasi tutti, così come ho cercato di incontrare i musicisti che mi piacevano, spesso ci sono riuscito. Quando abbiamo cominciato ad organizzare i concerti tra di noi non avevamo bisogno di alcun servizio d’ordine: eravamo noi i cattivi. Si metteva un biglietto a prezzo basso, duemila lire che chiunque poteva pagare, poi chi non li aveva entrava lo stesso, erano amici nostri che non avevano soldi neanche a sufficienza per sopravvivere. Certo che entravano, dovevamo forse lasciarli fuori al freddo?

A, del pubblico. Volevo intervenire sul discorso generazionale. Io sono nato nel 1975 e mi è interessata molto la discussione, anche perché per certi versi mi ci ritrovo, sono un musicista e ho appena fatto un disco. Ammiro molto le vostre due generazioni perché avete avuto la possibilità di vivere nello stesso tempo della vostra musica. Io oggi ho grandi difficoltà a riconoscermi nella musica di oggi. Ritengo che siamo in pieno periodo di decadenza. Britney Spears non è musica, intendo. I concerti che vado a vedere oggi sono di gente che ha più di cinquant’anni. Qual è la differenza tra un John Lennon che alla fine degli anni Cinquanta ascoltava i dischi che arrivavano dall’America dei vari Chuck Berry e compagnia nel porto di Liverpool, e la situazione che hai vissuto tu? Oltre alle forme, come le spillette e gli anfibi, quali sono realmente i contenuti diversi, se ci sono, che ha portato il punk rispetto alla musica precedente? Il figlio che ha comprato il disco dei Rolling Stones ha creato forse ai genitori un disagio simile, forse maggiore rispetto a quello che hai creato tu quando sei tornato con l’orecchino da Londra?

Marco Pandin. La tua domanda in realtà sono tante. La differenza tra “una volta” e “adesso” è innanzitutto tecnologica. Una volta c’era molta più difficoltà di comunicazione. Quando andavo a scuola non esistevano i personal computer né internet né i compact disc. Non sto parlando di tantissimi anni fa, dopotutto mi sento ancora abbastanza giovane: ho 44 anni. Si girava col vinile, che si riusciva a comprare qui in zona solo in un paio di negozi decenti, oppure bisognava andare a Padova, dove c’erano dei negozi di dischi d’importazione. Ovviamente certe cose buone arrivavano tramite i normali negozi di dischi, tramite i distributori tradizionali delle major, i dischi di Frank Zappa, ad esempio. I giornali musicali di allora e i programmi radiofonici della RAI spingevano un certo tipo di musica: la tradizione melodica, i cantautori. Questi magari sarebbero andati comunque avanti, erano gli unici a fare tanti concerti, allora tutti compravano Guccini, Baglioni e Venditti eccetera. Molte cose buone le ho trovate nei bassifondi, negli scatoloni, nei negozi di dischi usati. Si scambiavano tantissime cassette. Le radio libere in Italia hanno contribuito a far conoscere moltissime forme musicali che prima ufficialmente non esistevano.

Come ho detto prima, trasmettevo alla radio i miei dischi e le cassette del mio gruppo e quelle dei gruppi dei miei amici, e non ero certamente l’unico a farlo. Ci si scriveva, ci si faceva mandare delle registrazioni da altre città. I nastri arrivavano e li si trasmetteva, questa è una cosa che adesso non si fa più. Ora qualsiasi gruppo musicale si produce in casa il proprio cd, e cerca un produttore e un’etichetta discografica che glielo paghino: la mentalità di adesso è questa. Il musicista di oggi non manda più la sua musica alla radio, caso mai ci pensa il suo agente, ci pensa l’ufficio stampa della sua casa discografica. È logico che in questo sistema solo certa musica riesca ad andare avanti, cioè solo quella che fa recuperare gli investimenti. […]

Nessuno tra noi – oltre a te vedo parecchi altri musicisti in sala – si è mai preoccupato di mandare a case discografiche o talent scout il proprio materiale. A me interessava suonare, mi interessava fare delle cose che avessero un minimo di coerenza, una parola bruttissima che però allora era importante. […]

Tutti noi avvertiamo che lì dentro, in quel meccanismo, c’è qualcosa che non va. Britney Spears non va. Magari a lei, dentro, non gliene frega niente: lo fa per lavoro. Anche a me fa schifo il lavoro che faccio. Forse fa tutto schifo anche a lei, però nei video è costretta ad apparire sorridente. Basta solo mettersi d’accordo sul prezzo. Se si accetta il meccanismo, bene. Se non lo si accetta, se ne resta fuori e magari se ne crea un altro. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta c’è stato un periodo in cui la musica popolare, la musica che parte dal basso, espressione delle persone e non del mercato, era arrivata ai vertici delle classifiche di vendita. Le grandi case discografiche, che pagano per mandare i loro dischi in cima alle classifiche, allora pagarono per togliere dalle classifiche certi dischi scomodi. Ad esempio, dei miei amici inglesi, i Crass, hanno venduto grossissime quantità di dischi – parlo di centinaia di migliaia di copie – eppure non sono mai entrati in classifica. Avevano reinventato completamente il modo di porsi rispetto al mercato, creandone uno parallelo in cui non c’è il profitto al primo posto. Vendevano i loro dischi a basso prezzo, quasi a prezzo di costo senza esagerare con i ricarichi, registrando la loro musica in maniera povera ma comunque decente e comunque decorosa. I Crass hanno dimostrato che si può portare tutto il mondo musicale da una dimensione più umana, mostrando che il re è nudo. Mtv non esiste, basta ignorarla. Basta non guardarla. Basta boicottarla. C’è adesso la campagna di boicottaggio di Mediaset: facciamola. Spegniamo queste televisioni. Oggi lo facciamo in tre, domani forse saremo in quattro, dopodomani in dieci. Creiamo un danno a questo meccanismo, a questo tipo di istituzione. È curioso che io mi ritrovi in una sala municipale a dire questo. […]

Abbiamo fatto anche dei concerti sui marciapiedi, perché non avevamo un posto. Adesso ci fanno le conferenze per spiegare quanto siamo stati bravi ad organizzare le rassegne di blues con i nostri soldi. […] A Spinea un collettivo di ragazzi ha organizzato tutto da solo un seminario con Amy Denio, una musicista americana bravissima che ho conosciuto quindici anni fa in Francia. Amy è una ragazza stupenda, tra qualche giorno sarà ospite a casa mia perché sono riuscito a organizzare un suo concerto ad Abano. Ecco una differenza: per noi i rapporti con i musicisti continuano. Il musicista se ne va via, Enrico Rava va via, Dizzy Gillespie torna a casa e buonanotte: tutto finito. Noi cerchiamo di riportare tutto ad una dimensione umana. Riportiamo tutto a me e a te. Non esiste la televisione, il fatto che il tuo cd sia in vendita nei negozi non fa di te un musicista arrivato. […]

B, del pubblico. Conosco anch’io “Rockgarage” e i suoi dischi che giravano tramite i miei compagni di stanza – a quell’epoca ero studente. Conoscevo il giornale anche se ho un background musicale diverso, più legato alla scena degli anni Sessanta. Mi chiedo: Bologna ha avuto gli Skiantos, Firenze i Diaframma eccetera, Mestre i gruppi di “Rockgarage”, ma nessuno di Mestre è diventato famoso, nessun gruppo trainante. È perché non c’era dietro un Dams come a Bologna?

Marco Pandin. Nessuno dei “gruppi di Rockgarage” come li chiami tu è diventato famoso perché non c’era dietro nessuna organizzazione a cui interessasse spingerli sul mercato. Chi è realmente venuto fuori in questi anni da Mestre? Le Orme, va bene, ma concentriamoci solo sugli ultimi vent’anni. I Pitura Freska? Direi di no. Secondo me è Visnadi, che vende migliaia di copie di dischi di musica dance. È primo in classifica in Inghilterra, qui a Mestre nessuno lo caga. Gianni Visnadi è una persona stupenda, ci conosciamo da tanti anni: produce le sue cose molto onestamente, è metodico e lavoratore, le sue musiche sono dirette verso un settore specifico, è vero, ma la sua è musica di ricerca, è molto particolare. È stato allievo di Robert Fripp, e ha una cultura musicale sconfinata ma questo a chi interessa? Non è famoso, eppure lui continua a fare le sue cose. Non è importante andare sui giornali per essere importanti, e non serve andare in televisione per dimostrare di avere delle cose da dire.

E, del pubblico. Mi definisco un ignorante musicale, ma nel mio archivio personale ho una copia di “Rockgarage”. Credo che la tua esperienza abbia dimostrato che non serve uno spazio ufficiale per produrre musica, però come ti sei posto tu rispetto alla necessità di avere uno spazio? So di alcune esperienze qui a Mestre – tu le citi di sfuggita nel libro – come il Palazzo d’Inverno in piazza Ferretto, e il Pastificio Santi. Ti sei mai posto il problema di avere il diritto di avere uno spazio dove poter suonare? Ti sei mai visto quindi come controparte rispetto agli amministratori? Un’altra cosa. Mi sembra di aver capito che per te è molto più importante il come produrre, piuttosto che cosa produrre. Può essere pessima musica, basta che sia eticamente prodotta?

Marco Pandin. Perché musica pessima? Nel senso di suonata male? Il fatto che ci sia della bella e della brutta musica è un’opinione assolutamente personale. Penso si debba trovare un giusto bilanciamento delle due cose. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato di occuparmi di musiche quanto più vicine al mio gusto personale. Cose anche diversissime tra loro, jazz, musica sperimentale, rumorismo, assieme a musiche più tradizionali. Bene o male dal 1980 ad oggi sono stato coinvolto a vario titolo nella produzione di una sessantina di dischi, cassette e cd. Secondo me non c’è roba bruttissima in giro, ovviamente ci sono delle eccezioni. Certe volte capita di inciampare in cose davvero orrende: indipendentemente da questioni di genere, l’orrore si manifesta quando i musicisti hanno la supponenza di fare delle grandi cose e vogliono convincerti delle loro opinioni, e tu non riesci proprio a sintonizzarti. Oppure quando incontri musicisti che vogliono piazzare le loro cose, vogliono vendertele a tutti i costi. Riguardo al problema degli spazi, mi ripeto: senza grossi problemi, allora, siamo riusciti a organizzare dei concerti per la strada, sul marciapiede. Non è stato difficilissimo ottenere degli spazi. Ricordo un’estrema disponibilità allora dell’amministrazione della biblioteca di Oriago per concederci la sala, non venivano neanche mai a controllare che cosa stavamo combinando. Dirò di più, a mia memoria non abbiamo mai subito operazioni di polizia, di controllo ai nostri concerti. Abbiamo utilizzato spesso il cinema Dante, nei giorni liberi. Abbiamo anche fatto qualcosa al teatro della Bissuola, nel 1984. A Marghera c’era il cinema Ariston, una sala che era chiusa da tempo, poi è stata ristrutturata ma credo che nessun altro l’abbia mai più utilizzata, non so neanche se ci sia ancora. L’occupazione del Pastificio Santi risale a molto prima, almeno al 1975, ci ho suonato dentro anch’io col mio gruppo di allora. Non era una cosa “nostra”, però. L’attuale Tag era una volta la nostra sala prove, la condividevamo con il circolo La Comune e con il collettivo che poi avrebbe appunto dato vita al Teatro alla Giustizia. Allora c’era anche la possibilità, che però non abbiamo mai sfruttata, di utilizzare il Teatrino della Murata, che conoscevo perché ho partecipato per qualche anno alle attività di Franco Demaestri. Di loro ho bellissimi ricordi, un’esperienza stupenda.

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Anomale colture invernali (Feltre, 14-15 febbraio 2006)

09/03/2007

di Matteo Melchiorre

Pubblichiamo alcune note di Matteo Melchiorre già apparse su "El Campanón. Rivista Feltrina", n. 17 (giugno 2006), pp. 45-48.

Nell’aprile 2004 sono iniziati lavori di sbancamento sulle Rive di Tomo. Si chiama così la strada che sale da Feltre a Tomo. Il ribaltamento del paesaggio conseguito a questi sterri è dovuto al fatto che, a mezzo delle Rive di Tomo, passerà la rettifila Fenadora – Anzù. E’ uno stralcio che comporrà, con altri, la superstrada (o strada a scorrimento veloce che dir si voglia) della Valbelluna. Tra 2004 e 2006 i lavori in questo cantiere sono andati, a modo loro, avanti; senza frette e patemi gli operai hanno tirato su un terrapieno, un cavalcavia e i piloni di un viadotto. Ho tenuto nota quotidiana. Propongo due di queste mie annotazioni giornaliere, parte di un lavoro più ampio in corso d’opera. In questo caso, però, esse non riguardano strettamente la Fenadora-Anzù.

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Ultras di sinistra

09/03/2007

di Filippo Benfante e Piero Brunello

Rispondendo alla lettera di Francesco Bianchini, un lettore del “manifesto” che si dichiara “tifoso della Roma” e di “estrema sinistra”, Sandro Portelli fa la seguente osservazione a proposito della differenza dei gruppi ultras “di sinistra” dai gruppi di estrema destra: “La differenza non può stare solo nel colore delle sciarpe o delle magliette, ma nel fatto che chi è di sinistra sta in una logica altra da chi è di estrema destra, non speculare ad essa. Cose incoraggianti da questi compagni ne abbiamo viste e sentite; sarebbe bello che insistessero e andassero oltre e fossero ancora più nitidamente diversi” (“il manifesto”, 10 febbraio 2007). Per continuare questa discussione nel nostro sito, che ha cominciato a pubblicare le cronache calcistiche di Matteo Di Lucca, riproponiamo un intervento di Filippo Benfante e di Piero Brunello (L’obiettivo è la nonviolenza, “il manifesto”, 27 giugno 2001), con lievi modifiche e un nuovo titolo. Benfante e Brunello sono autori di Lettere dalla curva sud. Venezia 1998-2000, Odradek, Roma 2001.

La partita VeneziaMestre-Verona, disputata allo stadio Penzo di Venezia, nell’aprile del 2000, è stata una delle più riuscite manifestazioni politiche a cui abbiamo partecipato negli ultimi anni. Quando il portiere Frey del Verona è venuto sotto la curva del VeneziaMestre per mettersi tra i pali della porta, noi abbiamo cominciato a fargli “buu, buu” come i tifosi della sua squadra fanno quando toccano palla i giocatori neri. Lui ha guardato in su con la coda dell’occhio e gli veniva da ridere. La Curva Sud è una struttura di tubi Innocenti e sovrasta la rete di recinzione del campo di gioco. Le facce dei giocatori si vedono bene. Frey è bianco come tutti i giocatori della sua squadra. 

Quel giorno una buona parte della curva Sud, incitata dal gruppo Ultras Unione, applicava a suo modo il decreto che il governo aveva promulgato contro gli episodi di razzismo, e che la polizia applicava anche lei a suo modo, sequestrando stelle rosse, Che Guevara e foglie di marijuana disegnate a pennarello.

Ecco un buon esempio di politica: divertimento, piacere di fare cose assieme, ironia. Ci sarebbe piaciuto trovare lo stesso clima sfilando a Vicenza l’anno prima, manifestando contro le bombe sul Kosovo. Allora ci era capitato di entrare in piazza, con un corteo pacifista, accompagnati dalla colonna sonora di Avanti popolo, tuona il cannone. La debolezza di un movimento dipende anche dal fatto di non riuscire a staccarsi da un vecchio repertorio di simboli, di canzoni, di ritualità. Ed ecco qui invece, nella curva di uno stadio, un inatteso colpo di fantasia: per controbattere gli slogan antimeridionali avevamo già cantato “O sole mio”, ora per rendere ridicoli gli ululati razzisti si faceva “buu” a tutti i giocatori bianchi.

Da qualche tempo la geografia dei rapporti tra gruppi ultras si sta ridisegnando attorno al contrasto tra razzismo e antirazzismo. Su questa base si modificano gemellaggi, amicizie e rapporti di non belligeranza. L’atteggiamento nei confronti delle croci celtiche, degli striscioni antisemiti e dei cori razzisti sono diventati una discriminante. Ne discutono le fanzine in tutta Europa. Anche le società sportive devono misurarsi, sia per motivi di immagine, sia per evitare multe e penalità. Bisogna però chiederci se tutto questo sia sufficiente.

Un giocatore nero viene insultato ricordandogli il colore della pelle, e uno bianco viene insultato urlando “puttana” alla moglie. Perché il primo caso suscita una mobilitazione antirazzista e il secondo è considerato normale e nessuno ci fa caso? Eppure hanno una radice comune. L’antirazzismo non mette in discussione la ritualità, i modelli di comportamento e il maschilismo che sta alla base dell’adesione ai gruppi ultras. Per esempio la campagna che molti gruppi ultras stanno facendo per isolare nel disprezzo quanti usano coltelli negli scontri tra tifoserie è stata ed è molto importante. Ma gli appelli (“Basta lame, basta infami”) vengono fatti in nome di un codice d’onore virile che prevede scontri leali, tra ultras, in numero pari e a mani nude, senza coinvolgere semplici spettatori; così come prevede, tra le altre cose, destrezza nel rubare striscioni o stendardi degli avversari, e capacità di difendere i propri striscioni, la propria fetta di stadio e gli spazi antistanti il proprio bar.

Ammettiamo che nelle curve si cominci a cantare sull’aria del canto anarchico “Nostra patria è il mondo intero / nostra legge la libertà / e un pensiero…” con finali del tipo “l’Unione in serie A”o “la Lazio in Champions League”. È difficile da immaginare. Forse queste parole modificherebbero il modo di fare di chi le canta. Ma cosa cambierebbe, se l’atteggiamento di fondo e il modo di presentarsi dovesse rimanere lo stesso? Trattandosi di un repertorio espressivo, le forme dell’azione sono altrettanto, se non più importanti. Quello che soprattutto importa nei cori da stadio è cantare a comando, così come è decisivo il fatto che a lanciare il coro sia sempre un maschio, che le donne accettate nella gerarchia debbano avere modi di fare maschili, che i tifosi avversari siano “merda” e così via.

Crediamo che i gruppi ultras che stanno discutendo di razzismo, pay tv e misure di polizia, dovrebbero mettere come obiettivo non l’antirazzismo (questo sarebbe una conseguenza), bensì la nonviolenza. Questo obbligherebbe a interrogarsi sui rapporti tra ultras e gli altri protagonisti dello spettacolo, dagli spettatori della propria curva ai tifosi della squadra avversaria. Si tratta di riflettere sul comportamento dei gruppi organizzati e su quello della polizia, le cui azioni non vanno viste solo come una “reazione” (che perciò tutti giustificano anche quando è violentemente cieca e spropositata), ma come una politica messa in atto da uno dei protagonisti. La discussione che alcuni gruppi, come gli Ingrifati del Perugia, hanno avviato su come intervenire per la “riduzione del danno” nei conflitti all’interno degli stadi, ci sembra vada in questa direzione. Il calcio ritualizza lo scontro: proprio per questo si può imparare molto dalle componenti fantasiose che si esprimono nel tifo. Scriviamo queste righe pensando alle persone che frequentano le curve dello stadio e seguono una tifoseria organizzata per il gusto di stare assieme e di fare spettacolo: oltretutto questo sarebbe un modo, per quanto piccolo, per rifiutare complicità con un sistema corrotto e ipocrita, quello del calcio professionistico, che una parte degli ultras sente sempre più distante e ostile.

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storiAmestre

09/01/2007

di Matteo Melchiorre

Pubblico qui alcune mie considerazioni su storiAmestre. Sono già apparse sul settimanale Carta, allegato Veneto. Rispetto all'articolo scritto per la rivista Carta, questo che segue contiene una menda, a mio parere significativa. Da socio di tarda acquisizione, avevo messo insieme il deceduto periodico Altrochemestre con un'associazione omonima, Altrochemestre. Pensavo, insomma, che Altrochemestre fosse la rivista dell'associazione Altrochemestre la quale, però, non è mai esistita come associazione visto che già esisteva storiAmestre. Altrochemestre è una questione, e storiAmestre è un'altra questione ancora. Il mio è stato un errore bello e buono. Me ne scuso. Per questa pubblicazione on line, dunque, è stato eseguito il dovuto ritocco. Agli amici di storiAmestre (e Altrochemestre) propongo, però, di tenere a mente Marc Bloch: un errore, quando capita, ha sempre un perché. Ce ne può essere uno da aggiungere alla mia insufficiente conoscenza della storia di storiAmestre?

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