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ordine pubblico

Uomini da una parte, donne dall’altra. Una lettera a sAm

14/11/2011

di Marco Toscano

Torna a scriverci il nostro amico Marco Toscano, prendendo spunto dal ricordo di Elisabetta De Poli che abbiamo pubblicato qualche giorno fa.

13 novembre 2011

Cari di storiAmestre,

bello ritrovarsi dopo tanti mesi: voi che riprendete ad aggiornare il sito, io che riprendo la penna (si fa per dire) per scrivervi.

In questi giorni, anche dalle mie parti si ricordano alluvioni “come se fosse ieri” proprio mentre ne capitano di nuove, terribili, che fanno morti – se capisco bene, a Pellestrina non ce ne furono nel 1966 –, travolgono esistenze, case e ricordi, lasciano macerie e fango e puzza, come ricorda Elisabetta De Poli. Mi è tornato subito in mente anche l’articolo che avete pubblicato qualche anno fa, di Orietta Vanin, e anche quello di Giorgio Foradori. Insomma l’esperienza è quella.

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Stadio d’eccezione. A proposito di Daspo

13/02/2011

di Lorenzo Contucci, a cura di redazione sito sAm

Nell’ultimo punto del loro articolo di qualche giorno fa, Filippo Benfante e Piero Brunello ricordavano che, dopo le manifestazioni studentesche del 14 dicembre 2010, ministero degli Interni e governo avevano lanciato l’idea di estendere l’applicabilità del “Daspo” (il “Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive”) alle manifestazioni politiche e sindacali. Dopo qualche giorno di polemiche, non se n’è più sentito parlare.

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Archiviato in:La città invisibile, Lorenzo Contucci, redazione sito sAm Contrassegnato con: calcio, intervento, ordine pubblico

Treni, Italia. Fermate impreviste, oppure no

05/02/2011

di Filippo Benfante e Piero Brunello

Gestire l’ordine pubblico: treni, binari morti e stazioni fantasma.

1. Tra le notizie legate allo sciopero dei metalmeccanici lanciato dalla Fiom e allo sciopero generale proclamato dai Cobas il 28 gennaio 2011, c’è quella di un gruppo – alcune centinaia di persone “tra studenti, precari e rappresentanti dei centri sociali” – che, partito da Roma in treno intorno alle 7,30, per raggiungere la manifestazione prevista a Cassino, è stato bloccato nella piccola stazione intermedia di Colleferro. Le ferrovie hanno dichiarato di aver fermato il convoglio perché i manifestanti stavano viaggiando senza biglietto. Alcuni studenti hanno replicato che a Roma la Digos che li scortava aveva detto che potevano salire senza. Per protesta, poco prima delle 10, i manifestanti hanno bloccato i binari; per questo, secondo la questura, “saranno tutti denunciati”.

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Storie di anarchici e di spie

06/04/2009

di Piero Brunello

Su concessione dell’editore Donzelli, pubblichiamo un ampio estratto del «Prologo» e un altro breve brano del nuovo libro di Piero Brunello, Storie di anarchici e di spie. Polizia e politica nell’Italia liberale (per una scheda completa del libro, si veda il sito dell’editore, tra le novità). Brunello ha dedicato il suo lavoro alla memoria di Federico Aldrovandi, ragazzo di Ferrara morto a 18 anni, il 25 settembre 2005, durante un controllo di polizia (il processo penale per la morte è tuttora in corso presso il tribunale di Ferrara).

Prologo

Nove uomini, quasi tutti ventenni, si incontrano segretamente in un’osteria di Abano, un paese poco fuori Padova, sulla strada per Rovigo. La polizia, che ne è a conoscenza, li aspetta e li arresta con l’accusa, allora consueta nei confronti degli anarchici, di «cospirazione contro la sicurezza interna dello Stato». Era il 1881, e i tribunali del regno perseguivano l’Internazionale in quanto «associazione di malfattori». I giovani finirono nel carcere milanese di San Vittore.

Pochi giorni dopo il viceconsole di Ginevra Giuseppe Basso manda un telegramma a un dirigente del ministero degli Esteri, a Roma, per chiedere di fare il possibile per liberarli tutti, perché tra di loro c’è un suo agente in partenza per un incontro dell’Internazionale in Belgio. Otto su nove escono dal carcere. Di lì a qualche settimana Giuseppe Basso torna a scrivere a Roma perché sia scarcerato l’unico ancora in prigione, cioè Carlo Monticelli, il promotore dell’incontro. Una volta libero, avrebbe ricevuto da una terza persona i soldi per recarsi all’imminente congresso anarchico di Londra, da dove avrebbe spedito i verbali che sarebbero finiti tra le mani del viceconsole. Monticelli, precisa Basso, non è un agente, ma grazie alla sua «lingua sciolta» il consolato aveva potuto conoscere molte cose. Diversamente da Basso, il dirigente del ministero degli Esteri, che trasmette la richiesta al capo della polizia, definisce Monticelli «confidente del consolato». E Monticelli, di Monselice nel Padovano, è il fondatore dell’Internazionale nel Veneto, primo segretario della Camera del Lavoro di Venezia, autore di poesie e di canzoni, tra cui La Marsigliese del lavoro, entrata nel repertorio anarchico e tuttora conosciuta.
Tra gli arrestati di Abano, oltre a Carlo Monticelli, ci sono due suoi amici: Oreste Vaccari, un ferrarese suo coetaneo, appassionato lettore e collaboratore di riviste della Scapigliatura, e Giuseppe Alburno, scrivano e giornalista di Venezia, l’unico dei nove ad aver passato la trentina. Entrambi sono in contatto col tipografo Carlo Terzaghi, uno dei fondatori dell’Internazionale a Torino, che all’epoca dell’incontro di Abano aveva trentasei anni ed era rifugiato a Ginevra, proprio dove operava il viceconsole Basso1.

[…]

Avrei potuto scegliere l’angolo di visuale del direttore di Pubblica sicurezza a Roma (dal fascismo in poi «capo della polizia»), che smista i rapporti, ricostruisce trame, tralascia alcune piste di indagine per privilegiarne altre. Sul suo tavolo i documenti prendono ciascuno la propria strada. Questo avrebbe messo in chiaro il fatto che è la polizia a scrivere il copione di questa vicenda, disseminandola di trappole, errori e fraintendimenti. Alcuni amici si trovano a pranzo in un locale di un piccolo paese come Abano, in attesa di recarsi la sera a Padova per assistere al Mefistofele di Boito. Di giorno la politica, di sera l’opera. Ma Giovanni Bolis, direttore di Pubblica sicurezza, avvertito con un telegramma, ordina di arrestarli. È lui a isolare quella compagnia di nove giovani, a fissare la scena (l’osteria del giorno e non il teatro della sera), e ad attribuirle un significato: e su quella base produce la documentazione storica. Del resto la polizia non si limita a sorvegliare la vicenda dall’esterno, ma vi è direttamente implicata, come si vedrà, mediante l’utilizzo di agenti provocatori.
Seduto a fianco del direttore di Pubblica sicurezza, invisibile al suo tavolo, avrei seguito la trafila dei documenti dal basso all’alto della scala gerarchica e viceversa, ma non avrei potuto farmi un’idea degli ambienti in cui avvengono le vicende che alla fine confluiscono negli arresti di Abano. Passare da una città all’altra – ogni capitolo una città – mi ha consentito invece di vedere come i primi internazionalisti entrano in contatto tra di loro, e di capire come funziona un controllo di polizia in piccoli contesti e nei rapporti faccia a faccia.

Niente omicidi, niente bombe. Sorveglianza, piuttosto: una sorveglianza muta e perlopiù inavvertita, che produce segnalazioni, fotografie, rapporti, prospetti, schede, bollettini, registri, fascicoli, archivi; una raccolta di dati per quanto misteriosi o poco chiari, anzi, tanto più scrupolosa quanto più il loro significato sfugge.
Osservare, prevenire, reprimere, scoprire: questi gli scopi dichiarati dalla polizia nei primi decenni dell’Unità. Di questi, il più importante – così si leggeva nei manuali – era il primo, e cioè la capacità di osservare «gli indizi che sogliono annunziare il male, prima ancora che avvenga», raccogliendo «anche ciò che sembra di nessuna importanza», «anche il buono e l’indifferente, per districarne il cattivo che vi può essere nascosto, o confuso». Quindi, non solo consuetudine col codice penale, ma soprattutto esperienza nel penetrare «l’indole, gli usi ed i vizi dei cittadini»2. Discrezionalità, in altre parole3.

È importante capire i criteri in base ai quali qualcosa finisce in un dossier. Le donne vi compaiono raramente e, quando succede, sono ritenute delle poco di buono. Le persone istruite e in grado di parlare in pubblico sono giudicate più pericolose di chi non sa né leggere né scrivere. Sono tenute d’occhio le osterie, i bassifondi, i luoghi di assembramento e di ritrovo popolare, gli «oziosi, vagabondi e mendicanti» e tutte quelle «classi pericolose» a cui il direttore di Pubblica sicurezza Giovanni Bolis dedicò un volume di un migliaio di pagine4. Nei movimenti collettivi viene fatta una distinzione tra i mestatori, che perseguono obiettivi personali, in genere per ambizione, dalla massa di creduloni che si lasciano abbindolare. Ogni contatto fuori dell’ordinario, cioè da un’idea di gerarchie sociali immutabili, diventa sospetto. Inutile cercare per esempio notizie sulla frequentazione dei bordelli da parte dei giovani sottoposti a controllo per motivi politici, perché frequentare i bordelli era considerato normale (erano le prostitute le persone da censire e da controllare), e così via.
Altrettanto importanti sono il tono e l’intreccio narrativo. I rapporti scritti sulla base di pedinamenti rendono misterioso qualsiasi incontro. Quanto all’informatore, ha una tendenza professionale a drammatizzare. Più allarmistiche sono le notizie, più il mestiere di spia rende.
Questo è un mondo popolato da avventurieri, bugiardi, doppio o triplo giochisti, millantatori e fanfaroni. Siccome vivono vendendo informazioni, quando non ne hanno le spie ne fabbricano di false, confermando e ingigantendo le paure delle autorità. E così le carte di polizia sono piene di cospirazioni inventate di sana pianta e utili solo a giustificare l’esistenza degli apparati che le prendono per buone5.

Ma questo non deve far perdere di vista che qui si tratta di un controllo reale sulle persone, un controllo che produce pedinamenti, perquisizioni, diffide, denunce, sequestro della corrispondenza, convocazioni in questura, arresti, misure di polizia (dall’ammonizione al domicilio coatto), prove in un procedimento giudiziario. I documenti di polizia costruiscono in altri termini delle verità («il tale si è incontrato con il tal altro in un certo luogo a una data ora»), che hanno conseguenze sulla vita delle persone: non solo in quelle direttamente colpite, ma anche in quelle che ne avvertono la presenza. I fogli, muti negli archivi, a un certo punto cominciano a parlare6.

Gli anni in cui si chiude la vicenda, tra il 1880 e il 1881, segnano una fase importante nell’organizzazione della polizia in Italia. Con Giovanni Bolis alla direzione dei servizi di Pubblica sicurezza, viene istituito infatti un Ufficio politico, prende forma un registro biografico delle persone sospette, le questure cominciano a usare le foto segnaletiche e ad assumere agenti in borghese, e viene organizzato un servizio di polizia internazionale in collaborazione con il ministero degli Esteri. Quest’ultimo servizio era iniziato pochi anni prima proprio dai rapporti di quel Giuseppe Basso, viceconsole di Ginevra, che interviene a favore di uno degli arrestati ad Abano. Chi intraprese la carriera nella Pubblica sicurezza sotto la direzione di Giovanni Bolis ricordò quel periodo come «un’epoca di radicali riforme» e di «rosee promesse»7. Detto in altre parole, in quegli anni si andò costruendo in Italia un sistema di polizia basato sul sospetto e sulla criminalizzazione di chi dissente, secondo una prassi ereditata dallo Stato assoluto, che a sua volta riprendeva procedure inaugurate dalla Santa Inquisizione8. Creando la figura del nemico, gli apparati mettono in riga la società, ribadiscono il controllo sui cittadini e giustificano il mantenimento di una legislazione che reprime e soffoca i diritti civili.

I recenti studi sulla polizia fascista mostrano l’utilizzo sistematico, capillare e generalizzato di delatori, spie e fiduciari di vario tipo9. Queste cose non s’improvvisano. Il regime fascista trovò a disposizione sistemi di sorveglianza, procedure di schedatura, metodi di archiviazione, strumenti preventivi e repressivi, una routine burocratica e in generale un rapporto tra cittadini e Stato che si erano andati costruendo fin dall’Unità, e di cui questo libro offre un’esemplificazione. La polizia politica all’estero, a cui il regime fascista si appoggiò per controllare esuli e oppositori politici, nasce, come si è detto, all’epoca del viceconsole Basso. Il Casellario politico centrale accresciuto dal regime di Mussolini è istituito nel 1894: e dietro ci sono, fin dai primi anni del regno, le Biografie degli individui più influenti dei partiti ostili al governo accumulate nel gabinetto del ministero dell’Interno sulla base delle Biografie raccolte da questure e prefetture10. Lo stesso vale per le foto segnaletiche, anch’esse introdotte all’epoca di Bolis: le impronte digitali, quelle verranno utilizzate solo all’inizio del secolo, quando nella burocrazia statale si insediano gli antropologi criminali allievi di Lombroso11.

È sufficiente un sondaggio per lo stesso periodo 1870-1880 negli archivi svizzeri (e la vicenda che ho preso in esame portava a farlo), per capire che paese sia l’Italia. In Svizzera la Confederazione si occupò di sorveglianza politica a partire dal 1888-89. La polizia federale raccoglieva fascicoli personali (Personaldossier) anche prima, però la qualità della documentazione non ha niente a che vedere con quella raccolta negli stessi anni in Italia.
La polizia italiana spia, fa spiare, raccoglie voci e pettegolezzi, sistematicamente, giorno dopo giorno, pagando informatori e confidenti, e distribuendo fondi segreti. Spie al servizio di ispettori, di questori, di prefetti, di consoli, ma non solo: non c’è direttore postale in Italia che non controlli o non trattenga la corrispondenza su richiesta della polizia. L’ideale cui tende la riorganizzazione della Pubblica sicurezza del nuovo regno è quello di poter disporre di tanti archivi quante sono le questure, nei quali «Ogni persona onesta o criminale, vi trova la sua biografia»12.
La polizia svizzera al contrario pare non avere interessi per le opinioni religiose e politiche, o la vita privata dei cittadini. Tranne qualche caso – per esempio il fascicolo di Carlo Cafiero che raccoglie le carte sequestrate al momento del suo arresto – i Personaldossier sono piuttosto poveri13, come ho detto, almeno rispetto ai fascicoli italiani dello stesso periodo, e prima dell’istituzione, di lì a pochi anni, della polizia politica anche nella Confederazione elvetica14.
Diverse oltretutto sono le strutture dello Stato. Nel Regno d’Italia un ministro dell’Interno, quando si rivolge a un prefetto, dà ordini. Quando il Consiglio federale scrive al governo cantonale, si rivolge invece con un «Cari e fedeli confederati». Rapporti come questi rendono più difficile l’accumulo delle informazioni volte alla sorveglianza di polizia, tipico invece di uno Stato centralizzato come il Regno d’Italia. Del resto, ci sarà pure un motivo se gli anarchici italiani scelgono in questi anni la Svizzera come terra d’esilio.

Individuare un inizio significa attribuire già un significato alla storia. Ho cercato, come ho detto, di utilizzare le fonti di polizia non per raccontare il movimento anarchico e la Prima Internazionale, bensì per capire come funzionano i meccanismi di controllo messi in atto dagli apparati statali. Avrei potuto iniziare dalla carriera del viceconsole di Ginevra o del direttore di Pubblica sicurezza o di un ispettore della questura di Venezia, o dall’organizzazione del ministero degli Interni. Oppure, considerando come protagonista di questa storia la schedatura – laddove cioè l’occhio del poliziotto s’incontra con la pratica dell’archivista –, avrei potuto raccontare in che modo si viene formando una scheda biografica, per esempio di un Carlo Monticelli, e un intero sistema documentario. Ma allo stesso tempo mi dispiaceva che andasse perduto il contesto delle vicende, costituito dagli ideali internazionalisti e dalla generazione di giovani uomini che diedero vita al primo anarchismo. Comincerò quindi raccontando di un gruppo di studenti universitari che a Ferrara fanno notte nei caffè discutendo di donne, di scapigliatura, di una società di liberi e uguali, e poi di nuovo di donne, di scapigliatura, di una società di liberi e uguali…
[…]

Dieci regole

1. Il buon funzionario raccoglie qualunque informazione anche quando non la capisce, contando sul fatto che il senso possa emergere col tempo, dall’accumulo delle informazioni e dei dettagli.
2. Il funzionario difende l’anonimato della sua fonte.
3. La spia non è al servizio di una istituzione ma di un funzionario.
4. Un individuo è un confidente per un ispettore di polizia e un rivoluzionario per tutti gli altri ispettori.
5. Le istituzioni dello Stato tendono ad assicurare l’impunità del confidente.
6. Le singole notizie viaggiano in via gerarchica dal basso verso l’alto. Il capo della polizia, che sta al vertice, mette tutte le notizie assieme, le verifica e le compara.
7. Il confidente migliore è quello che non sa di esserlo.
8. Un apparato, che sa di doversi difendersi da gente che vende notizie, cerca di verificare le informazioni che riceve, mediante controlli incrociati o mediante fonti di altra provenienza.
9. Un buon ispettore di polizia è innanzitutto un buon archivista.
10. La polizia usa le confidenze delle spie per giustificare la propria esistenza.

***

Nota. I brani qui presentati sono tratti da: Piero Brunello, Storie di anarchici e spie. Polizia e politica nell’Italia liberale, Donzelli, Roma 2009, rispettivamente pp. IX-XV e p. 131.
Copyright © Donzelli editore 2009

 


1 Il carteggio tra Basso e il dirigente del ministero degli Esteri è pubblicato in P. Brunello – P. Di Paola, Giuseppe Basso viceconsole di Ginevra e Carlo Monticelli. Note d’archivio (1880–81), in «Terra d’Este. Rivista di storia e cultura», XI (2001), 22, pp. 55-76. Si vedano i rilievi critici e la nuova documentazione di T. Merlin, Confidenti di polizia e movimento anarchico nel Padovano (1875-1883), ivi, XII (2002), 2, pp. 23-65, e la replica di P. Brunello, Chi spiava Monticelli e gli anarchici a Monselice? Note sul controllo di polizia a Ginevra e a Venezia (1877-1881), ivi, XV (2005), n. 30, pp. 57-76. Su Carlo Monticelli e il suo ambiente si vedano i primi studi di L. Briguglio, I socialisti di Monselice e di Padova (Carlo Monticelli), in «Movimento operaio», settembre-ottobre 1955, pp. 728-60, e poi soprattutto i lavori di T. Merlin, in particolare: Gli anarchici, la piazza e la campagna. Socialismo e lotte bracciantili nella Bassa Padovana (1866-1895), Odeonlibri, Vicenza 1980, e il volume da lui curato, Carlo Monticelli. Poeta e drammaturgo, Società operaia, Monselice 2001. Cfr. E. Civolani, Monticelli Carlo, in Dizionario biografico degli anarchici italiani, II, Bfs edizioni, Pisa 2004, ad vocem, pp. 212-4.
2 Si veda P. Celli, Della polizia (1880), Tipografia Luigi di Giacmo Pirola, Milano 18812, qui pp. 56, 58, 60-61 (il cap. «Polizia osservatrice» è alle pp. 55-103). Cfr. la recensione alla prima edizione, in «Manuale del funzionario di sicurezza pubblica e di polizia giudiziaria», XVII (1880), pp. 140-1.
3 G. Alongi, in Polizia e delinquenza in Italia, Luigi Cecchini, Roma 1887, seconda edizione aumentata, p. 43, scrive che la polizia «per la vastità ed indeterminatezza delle sue attribuzioni, per le speciali modalità della sua azione, del suo affermarsi nella infinità dei casi, non può sottostare a predeterminate prescrizioni, a limiti intangibili». Sulla discrezionalità cfr. D. Della Porta – H. Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla Liberazione ai «no global», il Mulino, Bologna 2003, pp. 18-20, 38.
4 G. Bolis, La polizia in Italia e in altri Stati d’Europa e le classi pericolose della città, Zanichelli, Bologna 1871.
5 Cfr. ad esempio E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra (1963), trad. di B. Maffi, il Saggiatore, Milano 1969, II, pp. 43-54; R. Cobb, Polizia e popolo. La protesta popolare in Francia (1789-1820), trad. di V. Mortara, il Mulino, Bologna 1976, pp. 19-28. Avvertenze sull’uso delle fonti di polizia in M. Franzinelli, Sull’uso (critico) delle fonti di polizia, in Aa. Vv., Voci di compagni schede di questura. Considerazioni sull’uso delle fonti orali e delle fonti di polizia per la storia dell’anarchismo, Elèuthera, Milano 2002, pp. 19-30, e A. Giannuli, Il trattamento delle fonti provenienti dai servizi di informazione e sicurezza, ibid., pp. 31-72. Naturalmente ci sono i romanzi, a cominciare da G. Greene, Il nostro agente all’Avana (1958), trad. di B. Oddera, Mondadori, Milano 2005.
6 Marius, La Pubblica Sicurezza in Italia, Carlo Aliprandi, Milano s.d., p. 113.
7 E. Saracini, I crepuscoli della polizia. Compendio storico della genesi e delle vicende dell’amministrazione di Pubblica Sicurezza, Siem, Napoli 1922, pp. 1, 55. Anche Celli, Della polizia cit., p. XI, scrive che «una scuola nazionale» nella polizia «si può dire cominci soltanto coi recenti e dotti scritti del valente G. Bolis». Su Giovanni Bolis (1831-1884), direttore dei servizi di Pubblica sicurezza dall’agosto 1879 al dicembre 1883, cfr. G. Tosatti, Il ministero dell’Interno. Uomini e strutture 1861-1961, EffeDiErre, Roma 2004, pp. 75-7; A. Paloscia – M. Salticchioli (a cura di), I capi della polizia. La storia della sicurezza pubblica attraverso le strategie del Viminale, Laurus Robuffi 2003, pp. 17-23.
8 I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Bompiani, Milano 20003, pp. 327-67. 
9M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1999 Id Delatori. Spie e confidenti anonimi. L’arma segreta del regime fascista, Mondadori, Milano 2001; M. Canali, Le spie del regime, il Mulino, Bologna 2004. E l’Italia repubblicana? Chi studia il fenomeno denuncia l’esistenza di «gigantesche banche dati» che «consentono un monitoraggio impressionante della vita di ciascuno di noi». Nel 1989, per esempio, solo la banca dati del Sismi disponeva di diciotto milioni di schedature (G. Boatti, Enciclopedia delle spie, Rizzoli, Milano 1989, ad nomen «Megacervellone», pp. 247-8).
10 G. Tosatti,Il ministero degli interni. Le origini del casellario politico centrale, in Isap, Le riforme crispine, n.s., I, Amministrazione statale, Giuffrè, Milano 1990, pp. 447-85. Sulle «biografie dei sovversivi» cfr. E. Cecchinato, Camicie rosse. I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 151-84.
11 M. Gibson, Nati per il crimine. Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica (2002), trad. di G. Agrati e M. L. Magini, Mondadori, Milano 2002, pp. 177-246.
12 Alongi, Polizia cit., p. 48. Sull’importanza di archivi e registri in ordine, soprattutto quando un capo ufficio viene trasferito, cfr. anche Celli, Della polizia cit., pp. 92-100.
13 G. C. Maffei (a cura di), Dossier Cafiero, Biblioteca «Max Nettlau», Bergamo 1972.
14 M. Vuilleumier, La police politique à Genève. Un aperçu de ses activités (1889-1903), in «Bulletin de la Société d’Historie et d’Archéologie de Genève», XXII-XXIII, 1993-94, pp. 91-110. Pur basandomi solo sui fascicoli degli esuli italiani, ritengo che la documentazione sia sufficiente per un confronto, anche perché pare che il controllo più attento fosse esercitato proprio sugli stranieri, per evitare problemi nei rapporti internazionali.

 

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Una questione cruciale: offrire un dito a Maroni. Intervento all’assemblea dei soci 2008

27/07/2008

di Claudio Pasqual

Pubblichiamo l’intervento che Claudio Pasqual ha pronunciato, nella veste di presidente di sAm, all’assemblea ordinaria dei soci che si è svolta a Zelarino il 27 giugno 2008.

Una questione mi pare al giorno d’oggi cruciale e ritengo che sia doveroso e urgente intervenire. Penso che viviamo in tempi di emergenza democratica e sia in atto una crisi di civiltà, ora dirò in che senso. Ci sono le pulsioni autoritarie di un governo che fa strame, per gli interessi del suo capo e del blocco sociale e di potere che egli incarna, del principio democratico della separazione dei poteri, imbrigliando la magistratura e asservendo il parlamento; l’altra faccia è l’onda montante di xenofobia e razzismo che hanno infettato larga parte del paese, che la destra con la collaborazione dei media ha creato, legittimato e continua ad alimentare, e alla quale è un dovere morale e civico di tutti noi, che crediamo in una società basata sulla convivenza e sui diritti, opporre una barriera.

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Perquisizioni pesanti. 15 aprile 2007, Unione-Pro Sesto

16/04/2007

di Matteo Di Lucca

Prologo

Venerdì 13 aprile. Il Padova gioca all’Euganeo l’anticipo contro la Massese. Io e la Vale, dopo aver bevuto in compagnia di amici un paio di spritz, passiamo in macchina accanto allo stadio e intoniamo una serie di cori nella speranza che la squadra toscana faccia uno “scherzetto” ai biancoscudati. La Vale mi avverte che in curva del Padova c’è il ragazzo di una sua collega, che sicuramente incontreremo domani a un matrimonio. La speranza di un passo falso delle “gallinacce” aumenta ma, rientrato a casa dopo la serata, il televideo è brutale: il Padova ha vinto 3-1. 

Sabato 14 aprile. In attesa degli sposi, costringo la Vale e un suo collega ad andare a bere un caffè. Usciti dal bar scorgo in lontananza la collega della Vale e il suo ragazzo, che si avvicina con ghigno impertinente e mi fa a bruciapelo: “+ 3”. Non accenno alcuna reazione e anche per tutto il periodo del pranzo (nota: 5 ore) non reagisco alle provocazioni e alle continue “gufate” del padovano fiducioso che domani una buona prestazione dell’Unione ci riporti appaiati in classifica.

Allo stadio

1. A mezzogiorno siamo già pronti per partire verso Sant’Elena con in mente ancora le parole e gli sfottò dell’ultras padovano. All’ultimo momento si aggregano un nostro amico padovano che insieme alla sua ragazza e a sua sorella vogliono venire a vedere la partita per poi fare un giretto in compagnia a Venezia. Accettiamo con qualche perplessità e incominciamo il solito lungo viaggio per raggiungere il Penzo.

La giornata è splendida e Venezia si mostra in tutta la sua bellezza. Giunti a Sant’Elena corriamo a fare i biglietti e decidiamo di entrare allo stadio con mezz’ora di anticipo. Entrati rimango stupito nel vedere il settore ancora vuoto: i gruppi che occupano di solito la curva sud non hanno fatto il loro ingresso, nessun capo ultras gironzola nei pressi della balconata.

Ipotizzo che sia stato organizzato uno sciopero del tifo mentre la Vale ritiene che il motivo sia il solito ritardo dei vaporetti che portano allo stadio. Ad un tratto dall’ingresso del settore arriva a petto nudo e con la maglietta in mano uno dei capi ultras che, salito sulla balconata tira un calcio fortissimo alla struttura in tubi innocenti. Con lui entra molta altra gente che ha l’aria di essere parecchio “incazzata”. Mentre il settore incomincia a riempirsi, decido di andare a bere un caffè e raggiungendo il bar, posto proprio accanto all’ingresso dei distinti, mi accorgo che molti ragazzi – di cui molti vestono la maglietta del gruppo “Nuova guardia” – si appoggiano uno a fianco all’altro alla rete metallica nella classica posizione di che deve essere perquisito. Non capisco bene che sta accadendo, la gente ha l’aria spaesata se non incredula: molti dei ragazzi sulla rete sono giovanissimi. Gli animi mi sembrano tranquilli e non resto a guardare più di tanto. 2. Quando riprendo posto sulle gradinate, vedo che il settore si è ormai riempito e le squadre stanno per fare il loro ingresso in campo. Il capo ultras sale sulla balconata e a gran voce spiega a tutti quello che è successo all’ingresso dei distinti. Durante le perquisizioni la polizia ha infatti imposto a molti ragazzi di togliersi le magliette recanti scritte come “Nuova guardia”, “Rude Fans” e addirittura “Ultras unisce razzismo divide”. Tutto questo per seguire i dettami della nuova legge Amato contro la violenza negli stadi che dal 30 Marzo di quest’anno vieta l’introduzione all’interno dello stadio di tutti quegli oggetti che possono diventare contundenti come megafoni, tamburi, aste per le bandiere ecc. Inoltre vieta la preparazione di coreografie e l’esposizione di striscioni a meno che non vengano inviate in questura non oltre il venerdì prima dell’avvenimento sportivo le fotografie che ne mostrino il contenuto.

Poiché non ero presente all’ingresso dei distinti durante quei momenti, riporto alcune lettere ricevute e pubblicate dal portale www.vesport.it. Spiegano perfettamente quel che è accaduto.

sono un tifoso che segue il Venezia da 30 anni e sono qui a scrivervi questa mail di protesta perché domenica ho assistito a scene che mai avrei voluto vedere in un contesto di festa come è per me la domenica in stadio!
Sono circa le 2 e 30 e come ogni domenica mi metto in fila, abbonamento in mano, fuori del settore distinti per assistere al match tra Venezia e Pro Sesto; la giornata è delle migliori e infatti la gente che affolla in quell’ora i cancelli d’entrata è molta.
Una volta entrato nel settore però tutto l’entusiasmo che avevo è venuto meno davanti a scene che, a mio dire, hanno veramente dell’incredibile: alla solita perquisizione gli agenti della Polizia di Stato, senza dare più di tante spiegazioni agli interessati (forse perché neanche loro sapevano bene del perchè stavano compiendo quei gesti), incominciavano a costringere i ragazzi che animano da qualche mese il settore distinti a togliersi le maglie sequestrando inoltre loro anche sciarpe e aste delle bandiere.
Ma la cosa che mi ha lasciato veramente stupefatto è vedere come questo nuovo decreto legge venga applicato senza quel “buon senso” che servirebbe in un contesto tranquillo come quello che si è venuto a creare negli ultimi anni a Venezia.
Ho assistito personalmente al sequestro da parte degli agenti di una bandierina e una sciarpa a un bambino che avrà avuto sì e no 10-12 anni che, tutto felice perché andava a vedere una partita di pallone, alla richiesta dell’agente, si riversa in una valle di lacrime perché privato della sua bandierina!
Inoltre, parlando con altre persone, sono venuto a conoscenza anche del fatto che a molte persone, donne incluse, è stato intimato di levarsi o comunque girarsi la maglietta per motivi che non sono stati delucidati con chiarezza.
Ora io mi domando questo: se veramente l’obiettivo è quello di eliminare la violenza negli stadi, perchè creare queste situazioni di tensione […]?
A mio modo di vedere domenica, impedendo alla gente di entrare con sciarpe e bandiere della propria squadra, non fornendo chiare spiegazioni di tali gesti, si è violata la più importante norma che vige nel nostro stato: la libertà individuale!
Antonio

Agli stilisti della Questura di Venezia non piacciono le t-shirt. Non piacciono le sciarpe. Non piacciono le felpe. Insomma non piace il look da tifoso. Preferiscono il blu notte.

De gustibus…..

E così è arrivato il divieto di accesso allo stadio per chi sfoggia le magliette del FUTBOL REBELDE, quelle antirazziste di ULTRAS UNISCE RAZZISMO DIVIDE, quelle dei RUDE FANS e della NUOVA GUARDIA. Non piacciono neppure quelle degli ormai scomparsi ULTRAS UNIONE.

Naturalmente tutto questo rigore estetico viene applicato a singhiozzo. Tu sì e tu no. Tu entri, tu o ti spogli o resti fuori. E via con lo strip alla Full Monty. Potevano almeno attrezzare dei camerini…

Agli stilisti della questura non piacciono neppure le bandierine arancioverdi sventolate da bambini di 7 anni. Quell’astina di plastica di 60 cm è un’arma davvero pericolosa. E poi le coreografie sono sovversive…

Gli stilisti della Questura di Venezia, veri esperti di look da stadio, non sopportano manco i tatuaggi. Peccato non poterli scuoiare ‘sti tifosi…. Questo è accaduto domenica allo stadio Penzo all’entrata del settore DISTINTI. E ci risulta che lo stesso sia avvenuto anche in altri settori.

In base a quale norma sia stata attuata questa umiliazione di massa di centinaia di cittadini non ci è dato sapere. Ci hanno detto che così si combattono violenza e razzismo negli stadi italiani. Quello che si combatte davvero è la libertà dei cittadini. Di pensiero. Di espressione. Di aggregazione. Non abbiamo chiesto permessi per i nostri striscioni. Non chiederemo il permesso per vestirci come ci pare. NON SI CHIEDE IL PERMESSO PER ESSERE LIBERI.

VMFC A SOSTEGNO DI UN IDEALE

[…] ciò che han visto i miei occhi domenica al P.le Penzo di Venezia mi ha fatto ACCAPPONARE LA PELLE!!!

Non ho visto dei celerini in divisa che, in una normale domenica di routine controllano se si introduce allo stadio materiale contundente o accendini pericolosissimi, NO, ho visto poliziotti in assetto di guerra (veramente) che con aria minacciosa vietavano l’ingresso di qualunque tipo di sciarpa, cappellino, MAGLIETTA(!), recante il nome ultras (o sinonimi, badate non sono esperto in materia ma mi sembra di aver letto tipo Nuova Guardia e RudeFans) a ragazzi e ragazzini. “Quella maglietta la deve girare, se no non può entrare!”, COSA!? Ma stiamo scherzando vero??? Ditemi che siamo su scherzi a parte! Vi prego.

[…] Francesco Rigo

3. Ora il capo ultras scaglia parole pesanti contro la legge Amato che vuole ammutolire il tifo e che vuole svilire questa forma di aggregazione e di espressione; contro la polizia; contro la società del calcio Venezia; contro le televisioni che ammazzano il calcio. Molti alzano le magliette incriminate e tutti applaudono. I cori iniziano quando la partita è già iniziata. Per il primo quarto d’ora abbondante sono tutti contro ciò che era accaduto all’ingresso del settore e contro la nuova legge. In successione si canta: “Non ci avrete mai, come volete voi”, “Odio eterno al calcio moderno”, “Il calcio siamo noi”, “I tamburi siamo noi” (accompagnato da un battimani che simula il solito ritmo dei tamburi). Alcuni cori contro i “caschi blu” e il nuovo coro sull’aria di una canzone degli 883: “Se togliete pure noi che rispettiamo le tradizioni, e gli stadi noi riempiamo con i cori e gli striscioni, resterete solo voi con le vostre televisioni, e solo allora potrete capire che il calcio è fatto di emozioni!”. 

I cori di questo stampo si susseguono fino a che, verso il quindicesimo, viene assegnato un rigore all’Unione. Mentre Paolino Poggi si prepara a tirarlo il capo ultras invita tutto il settore a dare le spalle al campo in segno di protesta. Quasi tutti si girano, io mi metto a trequarti, vedo il rigore ed esulto, come altri, al gol. Un gesto non molto apprezzato dai capi ultras ma già da un paio di minuti, pur cantando e sostenendo la contestazione a questi ignobili episodi, avevo esternato alla Vale che secondo me era giunto il momento di sostenere la squadra.

Solo dopo venti minuti dall’inizio della partita inizia il tifo per l’Unione: partono i soliti cori come “Ricordo quand’ero bambino, sognavo una maglia e un pallone, ed ora che sono cresciuto l’Unione è il mio unico amor, se vedo il settore che esplode, sento un brivido al cuore, l’Unione è il mio unico amore, per te canterò fin che vivrò”; “Unione alè, Unione alè, in ogni stadio in tutta Italia siamo accanto a te, quando l’Unione segnerà dal settore s’alzerà, questo canto d’amor, che ci viene da cuor”. 

Proprio mentre stiamo intonando “Pope” la Pro Sesto pareggia con un bel tiro dal limite dell’area, che sbatte prima sul palo e poi finisce in fondo alla rete. Il coro simbolo della tifoseria unionista nonostante il gol avversario non si ferma e il tifo aumenta di intensità a seguito della buona reazione della squadra al pareggio e l’espulsione per doppia ammonizione di un giocatore avversario. Tra tutti i cori, il più riuscito e partecipato è stato quello in cui il settore si divide in due parti uguali che si ribattono: “E siamo qua – siamo qua/ siam sempre qua – sempre qua /ovunque giocherai saremo sempre qua – sempre qua / e canteremo – canteremo /e grideremo – e grideremo / (tutti insieme) VENEZIAMESTRE NOI SIAMO I TUOI ULTRA”.

4. Nell’intervallo mi siedo stremato dal gran caldo, parlo con la Vale e gli amici e leggo la fanzine autoprodotta dai ragazzi di “A sostegno di un ideale”. Quando le squadre rientrano in campo il tifo non si è ancora organizzato e ci impiega un po’ prima di ricominciare. Nel secondo tempo mi concentro più sulla partita in attesa di un gol dell’Unione che ci regalerebbe tre punti importantissimi per la nostra classifica. Tuttavia a parte uno sterile assedio alla porta avversaria la squadra dimostra il suo momento negativo e soprattutto un sensibile calo fisico. Tra un coro e l’altro impreco contro alcuni giocatori, in particolare contro “l’acquisto di gennaio” Cocco che a dieci minuti dalla fine viene finalmente sostituito. Alla sua uscita viene giustamente fischiato dai “vecchietti” dei distinti; lui risponde con un provocatorio applauso. Il suo sostituto, Momentè, altro “acquisto di gennaio” in dieci minuti riesce a sbagliare quasi tutti i passaggi e si mangia un gol quasi a porta vuota. E nonostante il caldo torrido, la Pro Sesto ci fa venire i “brividi” con alcuni contropiedi che con altri avversari ci sarebbero costati sicuramente la sconfitta. Poi quando al quarto minuto di recupero Moro butta fuori di testa l’ultimissima occasione, l’arbitro fischia la fine dell’incontro. I giocatori dell’Unione cadono a terra stremati e delusi. 

Nonostante il risultato, come in altre occasioni, chiediamo alla squadra di venire sotto il settore ma solo pochi di loro vengono a ricevere applausi e sostegno.

Epilogo

Mentre ricominciano i cori contro la legge Amato, ci avviamo sconsolati verso l’uscita. Mi fermo un attimo soltanto per ascoltare gli altri risultati del nostro girone. La gente sfolla delusa e convinta che sarà difficile raggiungere i play-off, visto il calo fisico della squadra rispetto ai primi mesi di campionato. Mentre ci avviamo a piedi verso Rialto per bere uno spritz in compagnia, esprimo tutto il mio disappunto e i miei compagni di viaggio fanno fatica a rincuorarmi. La Vale sostiene che comunque vada bisogna rimanere vicini alla squadra; le do ragione e intoniamo insieme “Noi non ti lasceremo mai/ noi non ti lasceremo mai/ al tuo fianco sempre noi sarem/ Veneziamestre alè”.

Questa domenica è andata così. Certo abbiamo passato una bella giornata e ci siamo un po’ abbronzati. Ma torniamo a casa con l’Unione che si allontana sempre più dai play-off, con la consapevolezza che questa nuova legge invece di frenare la violenza la istiga, grazie anche a certi atteggiamenti della polizia; e con la consapevolezza che i padovani “gufano” proprio bene.

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