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memoria

Fare o non fare i conti col passato. Il mausoleo comunista a Sofia e la sua distruzione

14/07/2021

Intervista con Tania Vladova, a cura di Andrea Lanza

Proseguiamo le riflessioni sui conflitti che scoppiano attorno ai monumenti, cominciate su queste pagine anni fa, a proposito della preservazione delle scritte murali fasciste, e riprese di recente con corrispondenze dall’America del Nord e dall’America del Sud. Lo facciamo con un’intervista a Tania Vladova. Nata e cresciuta a Sofia, ora studiosa in Francia, qualche anno fa Tania ha dedicato un articolo al più importante edificio monumentale dell’era comunista nel centro della capitale bulgara – il Mausoleo di Georgi Dimitrov, costruito nel 1949 – e alla sua distruzione avvenuta nel 1999. Con lei, ripercorriamo alcune tappe fondamentali dei dibattiti e dei conflitti che hanno preceduto l’abbattimento del Mausoleo per mettere in luce come la distruzione di un edificio monumentale possa nascondere la difficoltà di fare i conti col passato a causa di un’assenza di prospettive nel presente.

Che cos’era il Mausoleo di Dimitrov?

Iniziamo dalla sua posizione: si trovava nel centro di Sofia, in una zona in cui si concentrano, fra l’altro, resti romani, un’ex moschea quattrocentesca divenuta museo archeologico, un paio di importanti edifici ottocenteschi progettati da architetti austro-ungarici (il palazzo reale e il teatro nazionale) e un paio di edifici di architettura socialista (l’ex sede centrale del partito comunista e la presidenza del consiglio). In una piazza circondata da edifici storici di epoche diverse, il mausoleo si distingueva per il suo colore bianco.

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Archiviato in:Andrea Lanza, La città invisibile, Tania Vladova Contrassegnato con: anticomunismo, comunismo, intervista, memoria, monumenti, storia, storiografia

Monumenti ai “caduti” con fotografie. Dese, Trivignano, Bissuola

24/05/2021

di Claudio Pasqual

Il nostro amico e socio Claudio Pasqual ha osservato tre monumenti “ai caduti nelle guerre del Novecento” che presentano una particolarità: hanno incastonate le foto dei volti dei morti. Spunti per una riflessione su memoria individuale e collettiva, privata e pubblica, locale e nazionale, rapporti tra Stato e Chiesa, Stato e cittadini (e un’idea di cittadinanza maschile centrata sul servizio militare e la disponibilità al sacrificio in guerra), spazi e monumenti pubblici, trasformazioni nella loro percezione e nel loro uso. Le foto sono dell’autore.

Tre monumenti ai caduti nelle guerre del Novecento fra i tanti sparsi nella terraferma veneziana si distinguono per un elemento che negli altri manca: recano affisse le fotografie dei soldati morti. È stato proprio questo dettaglio che ha catturato la mia attenzione ed è all’origine del presente scritto. 

I monumenti si trovano a Dese, Trivignano e Bissuola. Ho scritto “guerre del Novecento” perché nell’insieme essi celebrano tutti i conflitti armati dell’Italia nel XX secolo. I primi due appartengono alla disseminazione di monumenti commemorativi verificatasi in tutto il Paese all’indomani della Grande guerra, ma a Dese è stato aggiunto un tributo ai caduti durante il secondo conflitto mondiale, mentre a Trivignano si ricorda anche uno scomparso nella guerra di Libia del 1911-12; il terzo, quello alla Bissuola, è dedicato al 1940-45.

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«Perché le tombe antiche fanno meno malinconia di quelle più nuove?». Pagine da un libro recente

29/04/2021

di Alberto Cavaglion

È da pochi giorni in libreria il nuovo libro del nostro amico Alberto Cavaglion, Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni (Add editore). In queste pagine, Cavaglion riprende e sviluppa le riflessioni avviate nel 2019, con una relazione presentata alla Summer School dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, subito pubblicata sul nostro sito. Punto di partenza, la constatazione che è negativo il bilancio di una ventina d’anni di “politiche della memoria”, “calendari civili” e commemorazioni pubbliche infilate nei programmi scolastici. L’invito è quello di prendersi una pausa – anche quella forzata dalla pandemia – per riflettere. I temi che si intrecciano nel libro sono quelli delle poche pagine che presentiamo qui: il rapporto tra esseri umani, tempo e storia; l’insegnamento della storia a scuola; le forme di trasmissione dei valori e delle esperienze umane; i cerimoniali pubblici o lo scambio entro piccoli gruppi; l’importanza di una biblioteca; l’uso e l’abuso della categoria “luoghi della memoria” e il suggerimento di osservare il paesaggio; lo sguardo con cui osservare e il tono di voce con cui parlare. 

Partiamo dall’autocritica, dalla fatidica frase «Mi sono sbagliato». Si è sbagliato moltissimo nei decenni scorsi, se è vero, come è vero, che i nostri laboratori sulla memoria non hanno impedito la diffusione di parole irripetibili contro le minoranze etniche, contro i neri, contro i rom, contro gli ebrei, contro i migranti, contro le donne. Chi ha lavorato nel mondo della scuola, chi si è occupato di didattica della Storia nelle istituzioni e negli assessorati dovrebbe fermarsi un attimo e ragionare sul perché ciò sia potuto accadere. Nessuno è innocente, nessuno può tirarsi indietro fingendo di non vedere. Chiedere e sperare che le cose si possano aggiustare con un processo moralistico ai Guardiani della Memoria o con la richiesta di un’ora in più nei curricula o la rassicurazione che la traccia di storia tornerà a essere reinserita nei temi per l’Esame di Stato – come è capitato di leggere in un recente appello di studiosi e docenti universitari – è un proposito ingenuo, che fa quasi sorridere se si pensa alla gravità degli errori commessi, su cui invece si sorvola.

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Archiviato in:Alberto Cavaglion, La città invisibile Contrassegnato con: didattica della storia, memoria, paesaggio, pagine scelte, storiografia

Chi erige i monumenti, e a chi? Note su una polemica in corso a Nova Veneza (Brasile) 

28/02/2021

di Eloisa Rosalen

La nostra amica Eloisa Rosalen ci scrive dal Brasile, per informarci della polemica suscitata dalla decisione del consiglio comunale di Nova Veneza (nello Stato di Santa Catarina) di intitolare una piazza ed erigere un monumento al suo fu concittadino Natale Coral, immigrato da Motta di Livenza a fine Ottocento. Gli studi di antropologi e storici hanno però da tempo appurato che Coral era un “bugreiro”, ovvero una di quelle persone che lo Stato o le compagnie colonizzatrici assumevano per attaccare e uccidere i nativi; e il fatto che lo fosse è attestato anche dalla memoria di una parte, almeno, della cittadinanza di Nova Veneza. Si sono perciò levate critiche e opposizioni. Eloisa Rosalen ne fa una rassegna, guardando al più ampio contesto del fenomeno mondiale di abbattimento delle statue di colonizzatori e oppressori, ritornando così sui temi già sollevati in questo sito dalla corrispondenza di Andrea Lanza da Toronto.

“In Brasile è così, chi non ha sangue indigeno nelle vene, ce l’ha sulle mani”, mi ha detto una volta un collega di dottorato. Quando ho sentito per la prima volta questa frase (coniata non si sa da chi né dove), sono rimasta molto impressionata. All’epoca – ero al primo anno di dottorato – stavo facendo delle ricerche per Piero Brunello, che stava completando un libro in cui si parlava anche di Natale Coral.

Natale Coral (1859-1911) era un immigrato italiano, nato a Motta di Livenza (da cui – l’ho scoperto dopo – proviene anche la famiglia di mio padre) e vissuto a Nova Veneza [Nuova Venezia], nello Stato brasiliano di Santa Catarina, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Di recente, il 28 dicembre 2020, il Consiglio comunale di Nova Veneza gli ha reso omaggio per il suo contributo di geometra agrimensore, inaugurando una piazza a lui intitolata ed erigendogli un monumento (sulla base di una decisione presa il 22 novembre 2019 in seguito a una richiesta dei discendenti di Coral), nel quartiere che oggi comprende la maggior parte della terra di proprietà della famiglia Coral.

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Chi davvero abbatte i monumenti? Note su memoria, storiografia e statue

02/02/2021

di Andrea Lanza

Il nostro amico e socio Andrea Lanza parte da una statua imbrattata – vista durante una passeggiata nel centro di Toronto dove vive – per riflettere sul rapporto tra memoria e storiografia, uso e ruolo sociale della storiografia, rapporti tra forme diverse di confronto con il passato. Sapendo che la vita è una cosa, la sua memoria e la sua storia sono un’altra.

Con il suo articolo, Lanza riprende da un altro punto di vista la discussione sulla public history avviata su storiamestre.it quasi un anno fa da Piero Brunello e Pietro Di Paola.

Egerton Ryerson con le mani macchiate di rosso

In una delle mie passeggiate da lockdown nel centro di Toronto mi fermo davanti alla statua di un uomo dell’Ottocento che insegna tenendo un libro nella mano. Dietro di lui, su una sorta di capitello, sono appoggiati altri libri. È Egerton Ryerson (1803-1882), pastore metodista e, come si legge sul basamento, fondatore del sistema scolastico dell’Ontario. Al suo impegno politico progressista e alla sua opera legislativa si deve infatti l’istituzione delle scuole pubbliche e gratuite nella maggiore delle province anglofone del Canada. Da quest’estate, la statua è coperta di vernice verdognola, mentre le mani sono sporche di rosso. 

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Archiviato in:Andrea Lanza, La città invisibile Contrassegnato con: Egerton Ryerson, identità, memoria, Public History, statue, storia, storiografia

Luoghi della memoria e paesaggi contaminati da decontaminare

24/09/2019

di Alberto Cavaglion

Pubblichiamo il testo (rivisto) della relazione che il nostro amico Alberto Cavaglion ha presentato alla Summer School Parri La didattica della Shoah (Assisi, 29-31 agosto 2019), organizzata da Istituto nazionale Ferruccio Parri – Rete nazionale degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea, in collaborazione con la Città di Assisi, con il patrocinio del Centro internazionale di studi Primo Levi – Comitato nazionale per le celebrazioni 1919-2019. Come in altre occasioni, presentiamo qui di seguito solo la prima parte del testo, che si può leggere in versione integrale e scaricare cliccando qui.

Premessa

La discussione sul futuro della memoria, dei memoriali, dei musei del fascismo, delle buone pratiche scolastiche sulla Shoah e il Giorno della Memoria mi sembra sia a un punto morto. Per ripartire occorre rivedere molte delle nostre certezze e progettare con più fantasia il futuro. Quanto è emerso dalla discussione sul Museo del fascismo a Predappio cominciata nel 2016 ha messo a nudo una situazione di stallo, ma anche il logorio di vecchi schemi. L’attuale contesto politico rende il quadro più complicato: difficile immaginare se quel Museo potrà essere inaugurato, ma le divisioni che il progetto ha suscitato tra storici e commentatori bastano a mostrare il segno tangibile di uno stato di crisi su cui vale la pena tornare. La categoria di «luogo della memoria» meglio di ogni altra si presta a questo ripensamento.

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