di Matteo Melchiorre
Da qualche settimana è in libreria il nuovo libro del nostro amico Matteo Melchiorre, La via di Schenèr. Un’esplorazione storica nelle Alpi (Marsilio, Venezia 2016, 239 p.). Melchiorre vi ricostruisce una strada che non esiste più, quella dello Schenèr che per secoli, passando non a fondovalle come ora ma in alto tra i monti, collegava il territorio di Feltre e il Primiero, la Repubblica di Venezia e la Casa d’Austria, il mondo di biada olio vino sale (ma anche di panni di lana) e il mondo del ferro e del legname (ma anche dell’allevamento di pecore). Scavi d’archivio, escursioni a piedi, consultazioni in biblioteche: mentre studia le vecchie carte Melchiorre va a vedere i luoghi e racconta dubbi e ipotesi di ricerca.
La porta nella roccia
Non appena uscii dalla metropolitana alla fermata Moritzplatz e presi in direzione del Kreuzberg, nel cuore di Berlino, mi fermarono due giovani turchi, chiedendomi a gesti se volevo del fumo. Tirai dritto senza rispondere, depositai il bagaglio in un alloggio in Oranienstrasse e mi disposi a visitare la città. Non mi ero in alcun modo preparato. Niente libri. Niente ripassi storici. Niente liste di monumenti.
Berlino mi fece un’impressione controversa. Non riuscivo a trovare il filo. La storia era certo in ogni angolo, ma forse ancor più che la storia in ogni angolo c’erano le gru. Dal passaggio pedonale della Unter den Linden Strasse ne contai 19. Mi venne da pensare che Berlino, in fin dei conti, è una città in costruzione. Quanto invece al già costruito, vidi architettura architettatissima in ogni dove: frammista al vecchio, frammista al sovietico, frammista al neoclassico, frammista al Bauhaus, frammista al prussiano. Dunque, pensai, Berlino è una città frammista. Anzi: una città frammista in costruzione.
Venne quindi il giorno in cui decisi di dedicarmi ai musei. Il primo fu la Gemäldegalerie, dove vidi in faccia il cardinal Ludovico Trevisan. Fu un incontro emozionante, mediato dal pennello di Mantegna; durante i miei studi sulla storia ecclesiastica del xv secolo avevo inseguito per mesi e mesi quel cardinale accigliato. Dopo la Gemäldegalerie mi dissi che un’altra cosa pagava la spesa di essere vista: la porta di Ishtar, al Pergamon Museum. Vi andai filato. Vidi tutto quel blu babilonese e feci qualche foto col telefono. Infine, uscito dal Pergamon, e sfruttando il biglietto che me ne dava facoltà, entrai in un altro museo prospiciente, la Alte Nationalgalerie.
Dipinti celebri di cui stupirsi non mancavano, ma quando giunsi all’ultimo piano la mia attenzione venne incatenata da un quadro di Karl Friedrich Schinkel (1781-1841): La porta nella roccia. Rappresentava una gola precipizia da cui soffiava un vento gelido, un garagozzo stretto di dirupi azzurri e alberi abbarbicati. Una strada sull’orlo dei burroni. Un castello in lontananza. Senza dubbio un paesaggio alpino dei migliori.
Quel dipinto di Schinkel mi destò nell’animo echi profondissimi e misteriosi. Erano risonanze, richiami confusi al riconoscimento di qualcosa. Mi concentrai, e d’improvviso quel muto paesaggio assunse un volto a me familiare: un antico passo abbandonato, posto sui margini meridionali delle dolomiti non lontano dai luoghi in cui mi trovo a vivere fin da bambino. Passo di Schenèr, così si chiama.
Rimasi un buon quarto d’ora al terzo piano della Alte Nationalgalerie, a scrutare ogni dettaglio della Porta nella roccia. Ogni tratto mi diceva: Schenèr. Nulla, comunque, mi autorizzava a sostenere che il pittore prussiano Karl Friedrich Schinkel avesse attraversato lo Schenèr, benché egli avesse in effetti valicato le Alpi durante un viaggio in Italia. E poi: pur non vivendo troppo lontano, il passo di Schenèr non l’avevo mai visto.
Com’era dunque possibile che io sentissi distintamente lo Schenèr nel dipinto berlinese? Erano senz’altro le impressioni confuse dovute alle relazioni di alcuni amici che avevano tentato senza successo di superare quel passo abbandonato. Oltre a ciò v’erano alcuni documenti sullo Schenèr che mi era capitato di trovare girando per archivi. Amici e documenti descrivevano il passo di Schenèr come un luogo sinistro: rocce incombenti, strapiombi, rupi, precipizi a sghembo, desolazione di greppi, ruderi di una fortezza. Tutti questi ingredienti, ebbene, li vidi fulmineamente realizzati fuori di me nel dipinto di Schinkel.
Non riuscii a spiegarmi quelle strane risonanze che dal cuore di Berlino, mediante un quadro, mi avevano riportato a una minuscola piega nelle dolomiti. Come dire? La Porta nella roccia non era lo Schenèr ma era lo Schenèr. È del resto certo che nel nostro animo vi siano cose racchiuse, dormienti, per risvegliare le quali basta un niente, una parola, una veduta, un suono, un odore, una brezza.
È anche vero, tuttavia, che se dessimo ascolto a tutti i messaggi che ci vengono su dalle cavità dell’animo in termini di echi e risonanze finiremmo col vagabondare dietro alle intuizioni più insidiose. Uno storico, mi hanno insegnato, in modo simile non si comporta. Ma quando fui a bordo dell’aereo, di ritorno da Berlino, dato che dall’oblò non potevo scorgere nient’altro che un mare compatto di nuvole bianche, presi in mano il libro che avevo portato con me, vale a dire Il delitto dell’accademico Silvestro Bonnard di Anatole France. Vi lessi di quando l’anziano protagonista – uno storico erudito, un paleografo – si perdette nella contemplazione di un’ape e si sentì travolto da una nuova, e inattesa, energia: «nascono nuove curiosità nell’animo mio, come vediamo i polloni slanciarsi dal tronco cavo di un vecchio salice». Pensai, volando nel cielo, che era esattamente questa la sensazione che avevo provato di fronte al dipinto di Schinkel. Ma che farne, di quella sensazione? Decisi di non tenerne conto e lasciare che si spegnesse un po’ alla volta, mano a mano che l’aereo calava su Venezia.
[…]
Scirocco
Che senso avrebbe potuto avere, mi domandai qualche giorno più tardi, che perdessi del tempo a visitare Feltre, cioè il capolinea sud della via di Schenèr? Vivo ad appena due chilometri dalla piccolissima città e per questo l’ho continuamente sott’occhio da anni e anni. Ipotizzai tuttavia che osservare un luogo noto fingendosi estranei garantisse risultati comunque eccellenti. Mi sbagliavo, e lo imparai a mie spese: dei luoghi che ci sono troppo familiari è agevole cogliere ogni minuto accidente ma impossibile toccare la sostanza.
Era un’orrenda giornata scirocca. Più mi aggiravo per le vie della piccolissima città, in cerca di uno scorcio che mi consentisse di ricavarne una visione essenziale, e più questo scorcio mi scappava. Mi perdevo in dettagli insignificanti. Avevo in mente le eccezioni a ogni tentativo di generalizzare.
Mi furono possibili soltanto due osservazioni. In primo luogo mi parve indiscutibile che la piccolissima città, a parte lo sfondo di montagne, non è alpina, no e poi no; forse lo è stata un tempo, ma certo non lo è oggi. Feltre è un centro storico in stile veneziano circondato da un agglomerato urbano in stile veneto, a sua volta circondato da una campagna frammista a paesi e fabbrichette.
In secondo luogo, il mio occhiutissimo vagare mi portò al mercato, che si tiene due volte la settimana ai piedi delle mura. Lo percorsi in lungo e in largo. Comprai dei mandarini e qualche etto di formaggio. Notando in quel mentre come al mercato si riversassero uomini e donne provenienti perlopiù dai paesi intorno alla città, toccai con mano quanto fatto: Feltre è tuttora il piccolo motore della vita che si svolge dentro una conca prealpina.
Questa conca chiude il nostro sguardo, rinserra i nostri animi, delimita le nostre esistenze, conforta le nostre paure. Per uscirne la strada maestra è una. Poco a valle di Feltre c’è un santuario su una montagna: San Vittore. Ecco. San Vittore è la porta per cui si esce dalla conca verso sud. Si raggiunge poco lontano il greto del fiume Piave, lo si costeggia e infine ecco la pianura, la pianura che dal monte Pavione sembrava una vasta mezzaluna larga fino al mare e che percorsa in treno o in macchina o sorvolata dall’aereo è un foglio con poche sfumature.
Per alcuni giorni lessi guide turistiche di Feltre, in cerca di chissà che cosa. Finché una sera, verso le dieci, stufo di una simile perdita di tempo, misi via le guide e sentii il bisogno di vedere un po’ di gente. Allora salii in macchina e mi portai nella piccolissima città. Parcheggiai e mi diressi in centro. È un dato di fatto incontestabile che in una piccolissima città la solitudine non è meno grande che altrove. Non c’è altro motivo per cui gli esercizi commerciali più numerosi della piccolissima città medesima siano i bar. Osterie. Lounge bar. Birrerie. Pub. Bar per vecchi. Bar per giovani. Bar misti. Bar bio. Tutti questi bar sono presidi terapeutici contro la solitudine. In pochi chilometri quadrati ne sono stati contati 72. Di sera e di notte alcuni di questi bar sono pieni dentro e pieni fuori al punto che un gatto potrebbe camminare sulle teste della gente senza mai toccar terra, come avvenne all’inaugurazione della cattedrale di Saint-Denis.
Simili solitudini, raccolte tutte insieme, mi ricordano sempre le danze macabre: quei dipinti medievali con processioni di uomini morti che vanno a braccetto con degli scheletri, o se va bene con dei meno spaventosi diavoli, e vanno tutti insieme, finalmente inorriditi, ricchi e poveri, beoni e prelati, donne vecchie e donne giovani, a finir mietuti dalla falce a sciabola dello scheletro degli scheletri, montato sul cavallo nero. Camminando alle dieci di sera andai in cerca di un bar che non fosse troppo affollato. Ne trovai uno in centro storico che pareva facesse al mio caso. Entrai e vi trascorsi forse una mezz’ora.
Uscito all’esterno di quel bar, con un bicchiere di vino nero, vidi arrivare di lontano, lungo la via stretta fra i palazzi antichi, attraverso il buio appena illuminato, una figura che indossava un mantello e un cappuccio. Quando mi giunse vicina abbastanza vidi che non indossava un mantello ma un cappotto di varie taglie troppo grande; quanto al cappuccio non esisteva, era stato uno scherzo del buio. L’individuo era alto e magrissimo. I suoi pantaloni erano sgualciti e rattoppati su un ginocchio. Si parò davanti a me. Un volto ossuto, scavato, diresse nei miei i suoi occhi, che non sapevo dire se fossero occhi buoni o cattivi.
Mi disse, con espressione fattasi vagamente esagitata, che trovava meravigliosa la novità da poco introdotta. Chiesi spaventato quale novità. Mi indicò i lampioncini pensili del centro storico, uno dei quali era sopra di noi, di fronte al bar. Da pochi giorni l’amministrazione comunale aveva deciso di abbassarne di molto l’intensità, col risultato di rendere il centro storico, disse l’individuo, a dir poco magico. La città, disse ancora, aveva in tal modo assunto un incredibile fascino. Parlammo qualche minuto, e seppi che quell’individuo era un seggiolaio. Quando se ne andò, dicendomi che avrebbe continuato a passeggiare nel buio approfittando dello scirocco, seguendone l’andatura mi resi conto di averlo già visto: sia il volto, sia il passo, sia l’espressione degli occhi, sia il pantalone rattoppato.
Compresi tutto quando riportai alla bocca il bicchiere di vino. Quell’individuo era lui. Lui in persona, o forse in spirito. Ma comunque lui: il viandante del sogno. Ero scosso. Immaginai che fosse venuto fin lì, scendendo dallo Schenèr, solo per dirmi che era tempo di lasciare il presente, nel quale avevo gironzolato a sufficienza, e di mettermi d’impegno a seguire le sue tracce nel passato; dopodiché avrei dovuto onorare la mia promessa, e seguirlo invece, coi miei stessi piedi, su in Schenèr. Non presi minimamente in esame l’ipotesi che l’uomo da me incontrato potesse essere per davvero un semplice seggiolaio.
Nota. Tratto da Matteo Melchiorre, La via di Schenèr. Un’esplorazione storica nelle Alpi, illustrazioni di Jimi Trotter, Marsilio, Venezia 2016, pp. 13-15, 30-33.