di Piero Brunello
Riprendiamo un altro intervento di Brunello del 1988. Come nel caso di Dubbi sull’esistenza…, aggiungiamo un invito-augurio perché ci sia presto un aggiornamento. Anche solo un giro presso la biblioteca civica centrale di Mestre, dove la sezione «storia locale» è singolarmente suddivisa in «locale» (Venezia) e «più locale» (Mestre, Marghera e dintorni), potrebbe diventare un esercizio interessante.
Nota dell’autore. Questa è la relazione d’apertura al primo convegno di storiAmestre, tenutosi nella sala del Consiglio di Quartiere Carpenedo-Bissuola nei giorni 25-27 marzo 1988, pubblicata poi negli atti editi in collaborazione con il Movimento di Educazione Cooperativa (storiAmestre-Mce, La città invisibile. Storie di Mestre, a cura di Domenico Canciani, Arsenale, Venezia 1990, pp. 13-22). Era la prima uscita pubblica dell’associazione. La sala-teatro era affollata, non solo di gente di Mestre. Ricordo tra gli altri Ferruccio Vendramini, allora direttore dell’Istituto storico bellunese della Resistenza. La fase dell’impetuosa crescita urbanistica era terminata da poco, e Mestre cominciava a non sopportare più la vicinanza di Porto Marghera. In questo contesto cercavo di chiarire i motivi che ci spingevano a costituire una nuova associazione storica cittadina, visto che già esisteva da anni un collaudato Centro studi storici di Mestre. Le parole di Jean Améry, ricordate in apertura, mi sembrano tuttora attuali (p.b., 23 febbraio 2009).
Storie di Mestre
Per gli urbanisti del domani, ma anche per gli abitanti che solo provvisoriamente si stabiliranno in determinati punti topografici, la realtà di una città consisterà nelle tabelle statistiche che anticipano l’evoluzione demografica, nei piani urbanistici e nei progetti di nuove strade. La nostra coscienza invece nella sua globalità percepisce la realtà urbana ancora attraverso l’occhio […] e la rielabora in un processo mentale che chiamiamo ricordare.
J. Améry, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987, pp. 104-105
Avessimo nella nostra città insigni monumenti, vetuste opere architettoniche, rovine imponenti e resti di un nobile passato, o potessimo vantare antenati illustri e fatti d’arme di cui andar fieri, non sarebbe forse difficile ricamarci sopra una storia, più o meno mitica, più o meno critica, con tanto di stemmi, genealogie, progenitori rispettabili, e infine un posticino nel pantheon nazionale, dai romani al risorgimento con una appendice resistenziale, passando naturalmente – e col debito rispetto – per il paterno dominio della Serenissima. Ma così, venendo da agglomerati di cemento che la gran parte di noi ricorda tirati su alla meno peggio da cantieri edili che schizzavano da un punto all’altro di un territorio agricolo o coperto da canneti, che cosa siamo venuti a raccontarci?
Vi sono città in cui gli abitanti sanno più o meno tutto quello che c’è da sapere sulla storia del luogo in cui vivono, o almeno tutto quello che gli basta. Da noi non succede. Ed è per questo motivo che qui, più che altrove, si avverte l’esigenza di riflettere sulla storia urbana: perché questa città, a differenza di altre, non possiede immagini consolidate e diffuse, per quanto celebrative e stereotipate, di un proprio passato.
Se tutto questo non viene sentito come una privazione, una sorta di declassamento (e perché mai dovrebbe esserlo?), l’assenza di nobili origini e di rispettabili tradizioni è senz’altro una fortuna. Ci consente infatti di interrogare più liberamente – e anzi fondare – il passato dal quale veniamo: di giudicarlo senza reverenza, di scegliere che cosa ricordare e che cosa dimenticare, di individuare le ragioni che hanno prodotto un presente che non ci piace, di affidare infine con rispetto alle generazioni future ciò che permane (e che vogliamo permanga) del tempo che ci ha preceduto.
È nata di qui l’idea di riflettere criticamente sulla storia di Mestre, sulle molte storie che ne hanno segnato la fisionomia.
Quando ci siamo incontrati per la prima volta quasi un anno e mezzo fa, ed eravamo più o meno tutti i relatori di questo convegno, a noi sembrava, e tuttora sembra, che a Mestre vi fosse, e ancor oggi vi sia, una domanda di storia cittadina. Pensavamo all’apparire di nuove pubblicazioni sull’argomento, all’interesse col quale vengono seguite le iniziative promosse in questo settore, alla costanza con la quale gli insegnanti sperimentano indagini di carattere storico-locale, alla fortuna degli Itinerari educativi proposti dal Centro di documentazione del Comune, all’attenzione che dedica al tema la stampa cittadina, all’avvio di ricerche individuali o di piccoli gruppi di cui questo stesso nostro convegno è testimonianza.
Nell’ultimo quindicennio la città è cambiata, ed è probabilmente questo cambiamento a comunicarci quel sentimento di distanza e di lontananza dal quale si sviluppa l’esigenza di una riflessione storica.
Innanzitutto col passare dell’età molti, inurbati da bambini, non si sentono più di passaggio in città. Hanno perduto i legami con le aree di provenienza e ne hanno creato di nuovi in un ambiente urbano riconosciuto sempre più come proprio. Se non altro Mestre è la città nella quale vivranno i loro, i nostri figli. In secondo luogo a Mestre non si immigra più. Sono cessati quei fenomeni di inurbamento massiccio e di rapida crescita demografica che hanno costituito per parecchi decenni (almeno fino a vent’anni fa) la caratteristica principale di questa città. Non solo è venuto a cessare completamente il flusso immigratorio, ma anzi da Mestre si verifica un flusso in uscita verso i comuni della cintura; e tale flusso, unito al decremento naturale della popolazione, fa sì che ormai Mestre registri una diminuzione della popolazione, che ora si attesta attorno ai duecentomila abitanti: grosso modo 211.000 abitanti nel 1975 e 197.000 nel 19871. C’è infine da registrare un processo di crisi, se non di vera e propria deindustrializzazione, di quel polo industriale che è stato per un buon cinquantennio all’origine dello sviluppo della città.
Quanto ai rapporti con Venezia, Mestre ha reciso ormai per molti versi la dipendenza funzionale che la legava al centro storico. I ricercatori del Co.s.e.s. (i quali per altro non prendono in considerazione i motivi per così dire affettivi che legano molti abitanti di terraferma a Venezia) ci dicono che gli abitanti di Mestre non hanno più bisogno di far riferimento al centro storico veneziano; e più precisamente non hanno più bisogno di andare a Venezia se non per ragioni speciali, le stesse che spingerebbero a muoversi un abitante di Adria e di Treviso. I servizi cui si rivolgono i mestrini sono localizzati nei quartieri di terraferma – servizi amministrativi, sanitari, commerciali, creditizi, assicurativi ecc. Attività economiche di rilievo hanno abbandonato Venezia per installarsi in terraferma (cosicché è Venezia a essere in questo caso diventata periferia della terraferma), e lo stesso fanno imprese di servizio di alto livello tecnico e di ambito nazionale2.
Alcuni ritengono «che si è arrivati assai vicini all’idea che stava alla base di Porto Marghera, quella cioè di far di Venezia la città aulica e aristocratica tutta votata all’arte e al turismo ed alle funzioni più prestigiose, separate dalla moderna e dinamica realtà delle cose che si evolvono»3. Di certo gli abitanti di Mestre usufruiscono nella loro città di una gamma sempre più ampia di funzioni; senza pensare alla ricchezza e alla vivacità dell’associazionismo sportivo, culturale, politico e del tempo libero cui hanno dato e continuano a dar vita e a cui possono attingere: una realtà senza paragone molto più vivace e qualificata di quanto non possa vantare la vicina Venezia, impoverita di abitanti e di iniziative che non siano dirette al consumo e alle mode di un turismo dilagante e disattento.
La nuova fisionomia che Mestre sta assumendo rende ancora più acuta la consapevolezza dell’assenza di servizi e di strutture culturali pubbliche adeguate. È indecente che non vi sia una biblioteca come si deve, che l’archivio storico cittadino continui a essere disperso e inaccessibile, che spazi ed edifici di valore storico e ambientale – come gli ex-forti che attorniano la città – siano in abbandono nel più totale disinteresse delle amministrazioni comunali, che infine a Mestre si continui a guardare con l’occhio paternalistico della politica del cosiddetto decentramento, di una politica cioè che concede benevolmente e di tanto in tanto alla periferia quello che spetta sempre e comunque a tutti i diritti al centro. La periferia per molti aspetti non è più tale, e comunque non vuole più esserlo, soprattutto quando il centro si avvia a diventare una città senza più abitanti.
Oggi a Mestre, molto più che nel passato, succede che memorie di un singolo, di una famiglia, di un gruppo, di una generazione, di un quartiere, escono dai rispettivi ambiti e vengono conosciute da gruppi più allargati: a volte si propongono più o meno consapevolmente come memoria cittadina. Questi modi di delineare il passato sono diversi, in alcuni casi in conflitto.
Che cosa intendiamo quando diciamo «storia di Mestre»? Quali immagini del passato vogliamo trasmettere o ci passano per la testa quando parliamo della storia di Mestre? Anche l’interesse per la storia di una città ha una sua storia. Vediamo di delinearla a grandi linee. Qui non si pretende di dare un giudizio sulla qualità degli studi. Quello che si vuol fare è delineare i diversi modi di pensare il passato della città.
1. Il primo convegno di studi sulla storia di Mestre si tenne nel gennaio del 1962. Era promosso dal neonato Centro di studi storici di Mestre e aveva per titolo Le porte di Venezia durante il Risorgimento: alcuni mestrini dell’Ottocento vennero assurti all’onore di patrioti, si ricordò la famosa sortita a Mestre dei veneziani assediati il 27 ottobre 1848. L’anno prima, il 1961, si era celebrato in Italia il centenario dell’unificazione, e il convegno, dedicato al ruolo avuto da Mestre nel Risorgimento nazionale, ne costituiva in parte uno strascico. Tuttavia era anche qualcosa d’altro. Stava a indicare la volontà di affidare ai quadri di una collaudata storia nazionale il compito di nobilitare una storia cittadina sentita come declassata. Del resto uno degli obiettivi del Centro è «dare anche a questo nuovo centro urbano consapevolezza di sé, delle proprie radici e della propria continuità nei secoli»4. Dei quattro convegni organizzati negli anni Sessanta dal Centro di studi storici (iniziative che poi non ebbero seguito), due ebbero per tema Mestre e il suo territorio nel Risorgimento. Dopo il convegno del 1961 ce ne fu uno nel 1966, anche questa volta in un clima celebrativo: ebbe per tema la Commemorazione del 1 centenario dell’unione del Veneto e di Venezia all’Italia (1866-1966), e fu preceduto da un concorso «per uno studio storico inedito che abbia per oggetto un fatto risorgimentale interessante Mestre o la Terraferma Veneziana o contemporaneamente Venezia e la sua Terraferma»5.
Oltre a scoprire una presenza, quale che sia, negli avvenimenti risorgimentali, il Centro nobilita il passato di Mestre legandolo alle vicende della storia di Venezia. Nell’introdurre il convegno del 1961 Ugo Fasolo ricordò che Mestre e gli altri centri del litorale erano stati «incroci e punti di irradiamento delle vie che la civiltà veneziana percorreva fino i monti d’Italia e oltre»6. Negli incontri promossi dal Centro studi storici, tale legame fu più volte preso in esame: vennero ricordati i Fatti di Mestre del 1513, Mestre ai tempi della guerra della Lega di Cambrai, i Podestà e Capitani di Mestre dal 1245 al 1797. Uno degli ultimi Quaderni del Centro, il n. 13, pubblicò infine, quasi a commiato, gli Atti di un convegno di studi tenuto nel 1969 dal titolo Il Castello di Mestre nella storia della repubblica di Venezia. Nel saluto pronunciato in apertura dei lavori, l’assessore alla pubblica istruzione Mario de Biasi affermò che gli avvenimenti del passato di Mestre erano «pagine di storia della Serenissima».
Qualunque sia il punto di contatto con le vicende della Serenissima o del Risorgimento nazionale, importa osservare che in questa prospettiva il passato di Mestre viene modellato sulle scansioni della storia «alta». Date e periodizzazioni sono quelle che segnano le vicende politico-istituzionali dello Stato pre-unitario e della nazione.
Usciamo dalle iniziative promosse dal Centro di studi storici e prendiamo in mano due volumi: prescindiamo ancora una volta, come abbiamo premesso, da qualsiasi considerazioni di merito sulla qualità del prodotto e rimaniamo nell’ottica che ci siamo proposti di seguire.
Nell’introduzione a un recente volume che chiama in causa fin dal titolo le «radici» e l’«identità» della città, Adriana Gusso dichiara: «La mia ricerca è rivolta alla Mestre del passato, alla storia delle funzioni che essa ebbe assegnate da Treviso e poi da Venezia: funzioni militari, strategiche, agricole, di transito e di baluardo che caratterizzarono e diedero fisionomia ad una popolazione». Poi specifica: «Il lavoro analizza gli avvenimenti antecedenti al secolo XIV e arriva sino al 1513, data in cui Mestre fu totalmente bruciata dagli eserciti spagnoli e imperiali; ho successivamente ampliato l’opera sino al 1797 (caduta della Repubblica Serenissima)»7.
Eugenio Vittoria dal canto suo, l’unico, se non si va errati, ad avere scritto un volumetto dall’ambizioso titolo Storia di Mestre, divide il passato cittadino secondo le consuete scansioni manualistiche (dalla Serenissima alla Resistenza) e, dopo aver accennato agli «ultimi fatti storici del 1943-45 con i quali si segnava un grande passo verso la libertà», conclude affermando che dopo di allora non sono più accaduti «fatti degni di memoria e di ricordo». «Dopo questo periodo – egli scrive –, dal 1945 ad oggi, si ha l’enorme crescita con il potenziamento di Porto Marghera e il boom edilizio»8.
Si ha insomma l’impressione che per molti la storia di Mestre – la storia che conta ovviamente, il passato che è giusto ricordare – finisca proprio quando inizia la città attuale, con i suoi spazi, le sue costruzioni, i suoi quartieri, la distruzione dei segni del suo passato. (C’è anche, naturalmente, un interesse di tipo antiquario, proprio della tradizionale erudizione municipale: un interesse per le tradizioni sulla fondazione della città, per la compilazione di liste di amministratori o di parroci, per le testimonianze ritenute tanto più pregevoli quanto più sono antiche, e che nel nostro caso si riducono alle poche mura rimaste del castello di Mestre e ai vicini resti di Altino romana.) Il recente sviluppo industriale e urbano, le modalità cioè di formazione della città che noi conosciamo, viene presentato come privo e immeritevole di storia; e naturalmente anche il polo industriale di Marghera viene avvertito come una presenza estranea al tessuto cittadino. E così Mestre finisce in queste rievocazioni storiche per ridursi ai contorni del borgo che fino a non molti decenni fa sfumava ancora negli orti e nei campi coltivati. Le immagini che la storia di Mestre rievoca sono tutte qui – la piazza con la chiesa, la torre, i resti del castello. Il borgo di San Lorenzo viene preso a simbolo dell’identità di Mestre, immagine della coesione cittadina. Vecchie mappe ce ne trasmettono l’ubicazione. Vecchie fotografie ci consentono di vedere scorci e profili che di lì a poco sarebbero scomparsi9.
2. L’interesse per il passato più recente di Mestre nasce dalla denuncia delle dissennate modalità dello sviluppo urbano e dalla conseguente richiesta di servizi e di spazi adeguati alle esigenze dei cittadini. La denuncia e la protesta contro la città dormitorio è una storia tutta da ripercorrere: credo che si possa infatti convenire sul fatto che la storia di una città è storia di conflitti sull’uso delle risorse, storia di divisioni e di scontri di interessi e di progetti; la città stessa è il luogo e nello stesso tempo il prodotto di conflitti e di contrattazioni.
Un momento significativo di questo clima (per restare al periodo a noi più vicino) sono i primi anni Settanta nei quali a Mestre come altrove si formano movimenti, soprattutto di giovani e di donne, attorno alla richiesta di asili nido, centri sociali, spazi collettivi. Questi movimenti hanno il merito, tra le altre cose, di aver reso senso comune la denuncia dei meccanismi speculativi su cui è cresciuta la città. Sono gli anni in cui la lotta alla nocività nelle fabbriche si estende al territorio urbano, nella consapevolezza, come scrivono i fogli operai, che nociva non è solo la fabbrica del padrone, nociva è tutta la sua organizzazione sociale, tanto che gli operai ritrovano nei quartieri la stessa nocività che li colpisce in fabbrica10. La fase politica che precede e coincide con i primi anni della giunta comunale di sinistra, formatasi nel 1975, induce a una riflessione storica sullo sviluppo urbanistico fin lì seguito in terraferma. Il volume di G. Romanelli e G. Rossi ne è un esempio. Prende in esame i flussi immigratori che portano gli undicimila abitanti di inizio secolo ai duecentomila degli anni Settanta, le fasi e i caratteri di un’espansione edilizia incontrollata, il rapporto della città con il polo industriale; denuncia «padroni delle aree», «signori della rendita fondiaria», «amministratori imbelli e corrotti e forze politiche e sociali impreparate» per aver «favorito il saccheggio e permesso la formazione dell’orribile “fungaia residenziale”»; accusa tutte le giunte comunali succedutesi in questo dopoguerra di aver «abdicato ad ogni funzione regolatrice e pianificatrice dello sviluppo, lasciando piena libertà di movimento alle spinte “spontanee” della speculazione»11. Mestre qui appare come la non città, e non c’è altro modo di conoscerne la storia al di fuori delle indagini urbanistiche e dei trend demografico-occupazionali.
Nella Prefazione al volume, Edoardo Salzano, facendosi portavoce del clima politico di allora, indica un insieme di interventi di carattere urbanistico allora in corso di attuazione o di progettazione che avrebbero cominciato, così assicurava, «a delineare alcuni primi elementi di un nuovo volto di Mestre».
È probabile che, al termine dell’esperienza amministrativa della giunta di sinistra, lo stesso Salzano sarebbe stato meno ottimista di quanto non lo fosse agli inizi. Tuttavia non è questa la sede per formulare un giudizio storico sull’operato delle recenti amministrazioni comunali. Basterà aver registrato una tendenza, un punto di incontro tra impegno politico (o civico se si preferisce) e analisi storica del passato della città, soprattutto del suo sviluppo urbanistico. (Esempio riuscito di questo atteggiamento lo si ha nel recente e documentato volume di Luigi Scano che, pur affrontando «il problema di Venezia», si dilunga sulle vicende politiche e urbanistiche che hanno fatto di Mestre quella bruttura che conosciamo)12.
3. Mestre è cresciuta sulla distruzione delle tracce del passato e sulla convinzione di poter sfruttare risorse illimitate: risorse umane e ambientali, flussi di manodopera dalla campagna e aree lagunari; di conseguenza lo sviluppo è stato sempre misurato sulla crescente quantità di ettari destinati alle industrie, alle strade, al cemento, all’imbonimento senza fine degli specchi di laguna.
Non c’è niente di più istruttivo a questo proposito che lasciar parlare direttamente uno dei responsabili delle scelte urbanistiche del periodo del boom edilizio di Mestre. Nel corso di un incontro promosso dal Centro studi storici nel giugno del 1963 l’ingegner Eugenio Miozzi, capo dell’ufficio tecnico del comune di Venezia per oltre vent’anni (dal 193l al 1954) fu piuttosto chiaro nel sintetizzare le linee che avevano guidato la formazione e lo sviluppo di Mestre. Ritengo che le sue affermazioni esprimano bene l’atteggiamento dei tecnici e degli amministratori comunali che operarono (se così si può dire) in anni di enorme espansione della città.
Miozzi vedeva in Mestre e in Marghera la realizzazione più alta e più perfetta della modernità. Ne era soddisfatto; probabilmente orgoglioso. Egli affermò che, in seguito all’istituzione del porto industriale di Marghera, tutta la terraferma iniziò a svilupparsi «con ritmo eccezionale»; aveva sì attraversato qualche periodo di stasi o qualche fase di crescita troppo rapida, ma ora si poteva dire pervenuta al pieno sviluppo, come – precisava sempre Miozzi – una adolescente giunta alle soglie dell’età matura: «la terraferma – sono parole sue – ha dovuto subire le stesse intemperanze che soffre una adolescente nel suo sviluppo: ma poi alla prima adolescenza è succeduta la giovinezza già formata, robusta, ed operante ormai, assistiamo alla sua attività in pieno sviluppo e possiamo guardare con compiacimento alle forme del proprio futuro».
Si trattava di uno sviluppo incessante, fondato sulla assenza di vincoli e di condizionamenti di qualsiasi natura (sulla cecità, diremmo noi, dinnanzi alle tracce del passato e ai limiti ambientali e sociali). Quali erano queste «condizioni eccezionali» che avevano fatto e continuavano a fare la fortuna del polo industriale di Marghera (e perciò della città che si sviluppava come immediata conseguenza)? Miozzi rispondeva in questo modo:
In primo luogo la possibilità di disporre di mano d’opera qualificata, intelligente, sobria, laboriosa qual è la gente veneta; poi l’immediata vicinanza di Venezia, di Padova, di Treviso; poi l’incrocio di sette linee ferroviarie, di cinque strade statali, di tre autostrade, alle quali di spera presto di aggiungere la Venezia Monaco; di avere un’estensione di aree si può dire senza limiti perché tutte le barene dalle Tre Palade a Chioggia possono essere utilizzate per sedi di officine industriali, di avere a disposizione le acque dolci del Brenta, del Sile, del Piave e di tutti i corsi minori; ed infine di avere un porto di fondali approfondibile a piacimento, entro un bacino d’ingresso facile anche durante i fortunali, protetto e sicuro, e di estensione anch’esso senza limiti. Ecco le ricchezze incalcolabili di cui noi stiamo disponendo e delle quali stiamo vedendo solo un inizio della loro utilizzazione che sarà completa solo tra qualche decennio13.
Fin qui il parere di un Eugenio Miozzi, riportato del resto a puro titolo esemplificativo di un atteggiamento culturale ben più ampio e certamente composito e sfaccettato, come spia di una realtà sulla quale si conosce ben poco al di là di affermazioni o denunce generiche: una realtà in cui si intrecciano (con diversi gradi di responsabilità) amministratori e uomini politici, imprenditori, culture urbanistiche, speculatori fondiari, palazzinari e saccheggiatori, abusivi di tutte le taglie, sfrattati da Venezia e gente che ha bisogno di casa.
Quello che dobbiamo chiederci è se nonostante tutto ciò sia mai affiorata in città, e in che forme, una sensibilità per la conservazione dei segni del passato, una rivendicazione di un assetto urbanistico attento alle esigenze dei cittadini o comunque rispettoso degli standard propri di altre città (anche venete, senza andare troppo lontano); o per essere più precisi, dato il tema che stiamo affrontando, ci dobbiamo chiedere se sia possibile ravvisare un legame tra l’interesse per la storia di Mestre e l’impegno per la salvaguardia del suo patrimonio storico e ambientale. Questo legame, quali vicende ha conosciuto, quale ruolo ha avuto nella storia cittadina?
Non sono in grado di parlarne con la competenza e l’ampiezza che il tema richiederebbe. Posso solo avanzare qualche osservazione e cominciare col dire che la questione si insinuò ad esempio già nelle prime discussioni attorno a temi di carattere storico suscitate agli inizi degli anni Sessanta dal Centro studi storici di Mestre.
Il primo convegno promosso nel 1962 dal Centro studi storici vide al riguardo uno scambio di opinioni che è interessante riferire. Il geografo Calogero Muscarà presentò una relazione su La pianta di Mestre nel 1800 e al termine del suo intervento affermò che era responsabilità dei «giorni nostri» l’aver predisposto «gli strumenti per la completa distruzione di quanto resta dell’antica Mestre», e citava tra le altre cose «la lottizzazione di parco Ponci, l’ultima area verde nel cuore di una affollatissima città di cemento». Sentendosi forse chiamato in causa quale ex assessore all’urbanistica ed edilizia privata, Piero Bergamo rispose che la responsabilità della lottizzazione del parco Ponci doveva essere attribuita al Piano regolatore generale il quale a Mestre tutelava quale valore ambientale unicamente piazza Ferretto, e aggiunse che per il futuro solo qualche edificio isolato poteva essere salvaguardato. Disse per la precisione: «Ciò che oggi appare possibile è purtroppo soltanto la conservazione di alcuni episodi (Torre, resti di mura, ecc.) con il loro isolamento, attraverso il piano particolareggiato del Centro di Mestre, che farà seguito alle previsioni di massima del Piano regolatore generale e per il quale il costituito Centro studi storici di Mestre dovrà esigere di conferire il contributo delle proprie ricerche».
Muscarà si dichiarò insoddisfatto della risposta (credo vi sentisse sia un certo fastidio verso i vincoli legislativi all’edificazione sia una sostanziale accettazione della inevitabilità della distruzione del residuo patrimonio architettonico) e replicò che non era quello il modo di salvaguardare i resti del passato: «un ambiente antico – rispose – non si salva conservando alcuni episodi architettonici nel cuore di un tessuto edilizio del tutto rinnovato. In primo luogo, la presenza dell’edilizia recente accanto al monumento antico esercita una pressione nel senso della sua eliminazione, in secondo luogo il problema è quello di salvare e conservare integro il volto dell’ambiente antico e non qualche reliquia»14.
La consapevolezza che qui esprime Calogero Muscarà corre sotterranea in città, ora più ora meno, ma si afferma con una certa forza solo negli anni più recenti: attorno alla metà degli anni Ottanta, in altre parole, l’interesse per la storia cittadina nasce dall’impegno per la salvaguardia di manufatti architettonici minacciati dalle ruspe e dal cemento.
Se dovessi indicare un esempio di ricerca nella quale l’interesse storico per il passato di Mestre nasce dall’impegno per la salvaguardia di manufatti architettonici minacciati di distruzione (e viceversa), ricorderei il volume su Altobello frutto di una ricerca del corso sperimentale dell’Istituto Tecnico per Geometri «Giorgio Massari» di Mestre, curato da Giorgio Sarto e pubblicato nel 198515. Il volume raccoglie analisi e proposte di recupero urbanistico ed edilizio per il nucleo di Altobello, e nell’ambito di questo intervento suggerisce di conservare, recuperare e adibire al riuso alcuni manufatti, risalenti in gran parte alla seconda metà dell’Ottocento, che avrebbero dovuto essere integralmente demoliti in quanto sconosciuti e considerati in ogni caso esempi poco significativi di una edilizia «minore», non meritevole di attenzione soprattutto se paragonati a chiese e a palazzi, quelli sì intoccabili, della vicina Venezia.
Questa ricerca, che è importante ricordare venne pubblicata dal Comune di Venezia e dal Consiglio di quartiere di Mestre Piave-1866, illustra infatti con chiarezza come si sia fatta strada in questi ultimi anni la consapevolezza che perfino a Mestre vi siano tracce del passato, neppure troppo esigue, meritevoli di conservazione e di riuso, dopo decenni di puro e semplice saccheggio delle risorse ambientali; come pure indica quanto sia lontano se non propriamente finito per sempre quell’atteggiamento verso il passato mestrino che, mentre rievocava con nostalgia vecchie immagini di un borgo assonnato da affidare magari alla suggestione fotografica della carta patinata, ne considerava in realtà ineluttabile la scomparsa sotto le colate di cemento della modernizzazione avanzante.
L’interesse storico si fa tramite di una coscienza ambientalista, e viceversa una più attenta sensibilità per la salvaguardia dei valori ambientali innesca una domanda di storia. Penso al volume a più mani sul Marzenego16 o a quello di Tiziano Zanato e Mario Facchinetto su Marocco e la Favorita17, entrambi del 1985 ed entrambi pubblicati dal Comune di Venezia; penso all’attenzione per la storia dei forti militari che circondano Mestre, di cui è esempio l’opuscolo di ricerca storico-ambientale pubblicato nel 1984 dalla Commissione Territorio di Democrazia Proletaria18; penso infine alla guida per chi se ne vada in bicicletta per le strade di Mestre e della terraferma a scoprire spazi verdi e patrimoni architettonici ancora in piedi, curata da Urbanistica democratica, LIPU e Gruppo Ciclobotanico e pubblicata anch’essa dal Comune nel 198719.
Entrano in questo modo nella storia di Mestre i fiumi, i canali, i boschi, l’assetto idrogeologico complessivo del territorio, la gronda lagunare, gli spazi vuoti, gli edifici scampati alla demolizione – testimonianze che sentiamo avere avuto solo temporaneamente in consegna. Si guarda ai mulini, ai forti militari, ai reperti di un’archeologia industriale precedente la nascita di Marghera, alle case coloniche e alle ville e ai ciuffi alberati tuttora in piedi.
L’apertura di questi campi di ricerca, oltre a una storia degli scorci più o meno casualmente sopravissuti al cemento, potrebbe far nascere anche, chissà, una storia degli scempi edilizi e delle responsabilità di questi scempi.
4. Alcune relazioni presentate in questo Convegno, e in particolare quelle inserite nella sezione dedicata ai quartieri, dimostrano come oggi per storia di Mestre c’è chi intende innanzitutto la storia dei suoi abitanti. È un punto di vista che per capirci possiamo definire storico-sociale. Mette in primo piano gli usi che gli abitanti fanno della città, i significati che le attribuiscono, le lotte e l’impegno che vi dedicano per renderla migliore, le reti interpersonali che dentro la città si annodano e si sfilacciano. Entrano così nelle immagini del passato di Mestre i bambini e i loro giochi, le donne con loro conversazioni e il loro lavoro e le loro famiglie e le loro vicine, i giovani e i loro gruppi e la loro solitudine, gli uomini e i loro luoghi di lavoro e di incontro e di tempo libero, le tradizioni e le culture importate dai diversi luoghi di provenienza degli immigrati, i percorsi individuali e generazionali di mobilità, i momenti di conflitto politico e sociale, i processi di coesione.
Per quanto ne so, non esistono indagini di questo genere al di là di alcune relazioni del nostro convegno; qualcosa d’altro è stato fatto in alcune ricerche scolastiche. Ma ovunque in Italia siamo ai primi passi, essendo la realtà urbana in età contemporanea ancora poco praticata dagli storici sociali.
5. Vi sono infine gli studi su Marghera. Per citare i più noti, sono i volumi di Cesco Chinello dai quali non può prescindere chi voglia documentarsi seriamente sulla formazione di Porto Marghera e sulla storia delle lotte operaie20, e poi il lavoro della Fondazione Corazzin, curato da F. Piva e G. Tattara, sui primi operai di Marghera, che ha avuto ampia risonanza nell’ambito degli studi di storia operaia in Italia21. È inutile che io ricordi che sono studi di ampio respiro. Suscitano interesse anche al di fuori della realtà locale e non è questo il luogo per discuterne l’impostazione. Sembra tuttavia di trovarsi dinnanzi non a segni di un interesse tuttora vivo per l’argomento, bensì a ricerche isolate e concluse. La realtà operaia di Marghera non attrae l’interesse dei ricercatori come si presume dovrebbe farlo un polo industriale tra i più importanti d’Italia e di Europa. Per quanto riguarda poi strettamente il nostro tema, sembrano riguardare un altro oggetto – il polo industriale – e non la città.
L’origina contadina di molti operai ha fin qui attratto l’attenzione sui luoghi di provenienza della manodopera, sui paesi attorno a Mestre, fino pochi decenni fa in prevalenza agricoli. Un’indagine condotta nel 1963 anni fa da Francesco C. Rossi con la collaborazione di Aldo Musacchio e Giuseppe Barbero metteva a fuoco l’area di provenienza degli operai di Marghera e si interrogava sulla cultura dei pendolari, degli ex contadini inurbati e divenuti operai, sulla crisi delle strutture sociale dei piccoli paesi, sulle trasformazioni di un paesaggio che assomigliava già allora a un’unica grande periferia urbana da Mestre a Padova a Treviso, mentre i processi di urbanizzazione andavano assottigliando giorno dopo giorno il terreno coltivato22.
Ma fu soprattutto il volume già citato su I primi operai di Marghera, pubblicato a distanza di vent’anni dall’inchiesta del 1963, a prendere in considerazione l’intero bacino di reclutamento della manodopera e a interrogarsi sulla cultura dell’operaio che lavora a Marghera e continua a vivere in paese mescolando il lavoro in fabbrica a mille altre attività.
Mestre non è oggetto specifico di questa indagine, e neppure lo è nei volumi di Cesco Chinello, che pure è attento a cogliere i riflessi che le lotte operaie hanno nella vita politica cittadina, oltre che nazionale. Il rapporto tra Marghera e Mestre, tra la città e il complesso industriale, in altre parole, aspetta in larga misura di essere indagato. Questo rapporto segna profondamente la storia di Mestre, contribuisce a stabilirne una sorta di identità urbana, influenza le culture che si scontrano nella città; a volte la città si stringe attorno agli operai, ne condivide le aspettative e i modi di sentire, altre volte, il più delle volte, ne ignora l’esistenza se non per deprecare i fumi puzzolenti che escono dalle ciminiere e avvelenano tutti, dopo aver giocato con i polmoni di chi in fabbrica ci lavora. Qui non si può rilevare che l’assenza di un campo di indagine, uno dei tanti che si presentano a chi voglia fare la storia di questa città.
1 A. Bonetto, La popolazione in provincia di Venezia negli anni 1983-84-85, «Co.s.e.s. Informazioni», XVI (1986), n. 25-26, pp. 19-25; R. Scalmana, Il movimento demografico nella provincia – 1986, ivi, XVII (1987), n. 27-28, pp. 16-18; cfr. inoltre i dati curati dall’ufficio statistica del comune di Venezia e riportati da C. Pettenò, Più vecchi e sempre meno, «La nuova Venezia», 13 marzo 1988.
2 R. Scalmana, Mestre e Venezia: si distinguono le funzioni, «Co.s.e.s. Informazioni», XVII (1987), n. 27-28, pp. 23-26.
3 F. Mancuso, La vicenda urbanistica, in Porto Marghera. Le immagini la storia 1980-1985, Torino 1985, p. 26.
4 «Quaderno di studi e notizie. Centro di studi storici Mestre», 12 (1968), p. 3.
5 Ivi, 5-6 (1964-1965), p. 65.
6 Ivi, 1 (1962), p. 7.
7 A. Gusso, Mestre. Le radici. Identità di una città, Padova 1986.
8 E. Vittoria, Storia di Mestre, Venezia 1977, pp. 7-9, 145.
9 Si veda P. Bergamo, Mestre vecchie immagini. A passeggio per la città nei primi decenni del Novecento, Mestre 1987.
10 Leggiamo ad esempio – un solo esempio tra mille possibili – in un «Foglio di fabbrica del Petrolchimico»: «Nociva però non è solo la fabbrica del padrone, nociva è tutta la sua organizzazione sociale. I fumi della Montedison si respirano anche a casa. Nocivi sono i dormitori di Mestre e Marghera, Marghera , i quartieri senza servizi. Nocivi sono i trasporti, le ore di trasporto regolate ogni giorno dal padrone». Gianni Moriani, allora membro del CdF della Montefibre, scrive a commento di questo brano: «Infatti gli speculatori edilizi non badando certo alla salute dei cittadini hanno finito col costruire le abitazioni fino a poche centinaia di metri dalla inquinante zona industriale. Le conseguenze del polo industriale sul territorio sono state quelle di provocare una notevole concentrazione urbana con la distruzione delle zone di verde soppiantate dal cemento; struttura portante degli innumerevoli alveari nei quali gli operai che lavorano a P. Marghera vi dovrebbero trovare riposo e godimento del tempo libero, invece ci trovano la stessa nocività che li colpisce in fabbrica» (G. Moriani, Nocività in fabbrica e nel territorio, Verona 1974, pp. 93-94).
11 G. Romanelli, G. Rossi, Mestre. Storia territorio struttura della terraferma veneziana, Venezia 1977, pp. 62, 107. L’espressione «fungaia residenziale» è ripresa da W. Dorigo, Una legge contro Venezia, Roma 1973, pp. 74-75.
12 L. Scano, Venezia: terra e acqua, Postfazione di E. Salzano, Roma 1985.
13 «Quaderno di studi e notizie. Centro di studi storici Mestre», 3-4 (1963-1964), pp. 63-64.
14 Ivi, 1 (1962), p. 20. Non è questo il luogo per esaminare le discussioni e le prese di posizione intorno al Piano regolatore approvato nel 1962, su cui si veda almeno Scano, Venezia cit., pp. 87-116.
15 Altobello. Storia, analisi, proposte, a cura di G. Sarto, Consiglio di quartiere Mestre Piave-1866 e Comune di Venezia-Assessorato al Decentramento e all’Urbanistica, Venezia 1985.
16 Il Marzenego. «Vivere il fiume e il suo territorio», Comune di Venezia-Assessorati all’Ecologia e al Decentramento e Consiglio di Quartiere Cipressina-Zelarino-Trivignano, Venezia 1985. Il «Gruppo di ricerca sul Marzenego», che cura il volume, è composto di Nevio Anoè, Luis Carlos Barbato, Luigi Casarin, Marino Gomiero, Giampaolo Quaresimin, Claudio Zanlorenzi, Gianni Zanlorenzi.
17 T. Zanato, M. Facchinetto, I colmelli di San Zulian e San Nicolò. Cenni storici su Marocco e la Favorita, Comune di Venezia e Consiglio di Quartiere Terraglio, Venezia 1985.
18 Commissione Territorio di Democrazia Proletaria di Mestre, Gli ex-forti di Mestre: tre «oasi verdi» da salvaguardare e destinare all’utilizzo sociale, Mestre s.d. [1984].
19 Urbanistica democratica, Lipu, Gruppo ciclobotanico, In bicicletta alla scoperta dei valori ambientali della terraferma mestrina dal Marzenego alla laguna, Comune di Venezia 1987.
20 C. Chinello, Storia di uno sviluppo capitalistico. Porto Marghera e Venezia, 1951-1973, Roma 1975; ld., Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del «problema di Venezia», Venezia 1979; ld., Classe, movimento, organizzazione. Le lotte operaie a Marghera/Venezia: i percorsi di una crisi 1945-55, Milano 1984.
21 V. Belotti, M. Carbognin, P. Feltrin, P. Mantovan, F. Piva, F. Ravanne, G. Tattara, I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione 1917-1940, a cura di F. Piva e G. Tattara, Venezia 1983. C’è stata infine nel 1985 una mostra fotografica il cui catalogo, Porto Marghera. Le immagini la storia cit., ospita alcuni brevi interventi di carattere storico e metodologico: C. Chinello, La produzione, il lavoro, i movimenti, pp. 7-14; F. Mancuso, La vicenda urbanistica, pp. 15-27; U. Lucas, Le immagini, p. 197; M. Delfina, P. Miani, S. Nappi, D. Resini, Ricerca iconografica e indagine fotografica in campo, pp. 198-200.
22«Itinerari. Rivista mensile di cultura diretta da Francesco C. Rossi», a. X, 63-66, gennaio-aprile 1963, numero speciale: Contadini del Veneto, inchiesta a cura di Francesco C. Rossi, con la collaborazione di A. Musacchio e G. Barbero, cfr. in part. le pp. 95-111.