di Claudio Pasqual
Pubblichiamo l’intervento tenuto da Claudio Pasqual il 21 gennaio 2014 nel corso del primo incontro del ciclo “Quale futuro per il fiume Marzenego? Storie e progetto”. Vista la lunghezza del testo, ne proponiamo qui di seguito l’introduzione e la parte relativa alle vicende più recenti; il testo integrale (corredato di bibliografia) è invece accessibile cliccando qui.
Introduzione
Il Marzenego, il fiume di Mestre, scorre in un territorio, l’entroterra veneziano, caratterizzato da una grande abbondanza d’acque: l’attraversano fiumi alpini e di risorgiva e una fitta maglia secondaria di rii, canali, scoli e fossati. Come ogni pianura bassa affacciata su una laguna, anche quella veneta è caratterizzata da equilibri idrogeologici mutevoli e precari. Come forse in nessun’altro ambiente la coesistenza tra reticolo idrografico e tessuto insediativo assume qui un assoluto rilievo. Un plurisecolare utilizzo e l’opera di controllo e regolazione dei corsi d’acqua, irreggimentando i fiumi, modificandone le aste e i percorsi, mentre hanno dissolto la naturalità degli ambienti fluviali in compiute costruzioni antropiche, sono intervenuti nel nostro caso a rendere più fragili e instabili quegli equilibri. Esondazioni e allagamenti, come si vedrà, non sono per nulla un fatto recente ma un fenomeno con una lunga storia, una costante per i nostri luoghi. E la maggiore responsabilità per il passato si deve attribuire alla prevalenza di un interesse particolare, quello della cosiddetta Dominante alla preservazione della laguna, principio di una politica idraulica alla quale si deve in buona misura l’attuale assetto dei sistemi fluviali della pianura veneta.
Quanto segue è il racconto del Marzenego e degli altri fiumi dall’angolo visuale della loro interazione con il territorio, l’organizzazione e le dinamiche socioeconomiche, le istituzioni politiche e in particolare con la strutturazione degli spazi e le forme paesaggistiche. Non si comprende la storia del Marzenego se non la si inquadra in un ampio sistema idrografico e territoriale comprensivo dei vicini corsi d’acqua Dese, Zero, Sile (e anche del Muson-Bottenigo), i fiumi della cosiddetta gronda lagunare, che assieme compongono il bacino scolante della Laguna di Venezia (del quale quello del Marzenego costituisce un “sottobacino”).
Ho preso in considerazione un periodo lungo, dal basso medioevo, e più precisamente dal XII secolo, cui risalgono i primi documenti, ai nostri giorni, quando è stata realizzata l’ultima grande opera sul Marzenego, ossia lo Scolmatore. Non ho affrontato le ben note vicende del tombinamento del ramo delle muneghe e della chiusura del Salso, sui quali si è già scritto molto. Né mi soffermerò sulla recentissima riesumazione del fiume in riviera XX Settembre e via Poerio, per la quale rimando all’intervento di Giacomo Pasqualetto e al suo saggio sull’ultimo numero della rivista Venetica.
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I regimi cambiano, la situazione resta critica
Quando il Veneto passò sotto l’Austria, la situazione del territorio mestrino non risultava affatto migliorata rispetto ai tempi dell’ispezione del proto Scalfurotto [1782]. Fonti di primo Ottocento descrivono come ancora critica la condizione dei fiumi e precari gli equilibri idraulici delle campagne. La grande inchiesta degli Atti preparatori al Catasto, del 1826, e la relazione del perito Giuin Manocchi al Consorzio Dese del 1827 concordano nel descrivere uno sconfortante panorama di esondazioni e allagamenti prolungati anche nella parte più alta del distretto mestrino, nei comuni di Martellago e Maerne; di strade interrotte e danneggiate; di raccolti rovinati; della fascia perilagunare da Bottenigo a Terzo e Tessera, bassa e aperta alle maree, acquitrinosa e impaludata; e tutto ciò, a giudizio degli osservatori, per l’insufficienza e inadeguatezza della rete di scolo, per la cattiva condizione degli argini, per la mancanza degli escavi: l’ultimo effettuato nel lontano 1804. Colpisce la frequenza con cui si succedettero eventi particolarmente catastrofici, allagamenti su larga scala, grandi inondazioni: nel 1817, 1823, 1824, 1826.
I regimi succeduti alla Serenissima ripristinarono per la gestione della rete idrografica i consorzi pubblici e obbligatori fra proprietari. Nell’età rivoluzionario-napoleonica, le complicate vicende politico-militari e i cambi di dominazione avevano comportato la paralisi di queste istituzioni. Un tentativo fu compiuto durante il breve Regno d’Italia dai francesi, con la creazione nel 1808 del Comprensorio del Dese, che includeva anche i bacini del Marzenego e dello Zero. Fu però soltanto con il Lombardo-Veneto che i consorzi tornarono a essere effettivamente funzionanti. Gli austriaci li istituirono fin da subito, nel 1814, e i tre fiumi furono riuniti nel consorzio di scolo Dese. Le competenze assegnate all’ente erano dunque circoscritte e limitate, in continuità con un’impostazione tradizionale per quest’area, agli interventi di costruzione e manutenzione di canali e alle operazioni di sfalcio delle erbe. Un primo importante provvedimento fu proprio l’ispezione ordinata nel 1827 all’ingegner Giambattista Giuin Manocchi, preliminare alla programmazione degli interventi d’istituto del consorzio. Il tecnico mestrino, riconfermando l’analisi dei suoi predecessori, individuava in un più veloce scorrimento dei corsi d’acqua il rimedio ai problemi del comprensorio, suggerendo a tal fine una serie di interventi mirati sulla rete idrica locale. Nel caso specifico dell’Osellino, per risolvere fra le altre cose gli allagamenti dell’abitato mestrino, da lui imputati al canale scavato a inizio Cinquecento, egli proponeva di allargarne l’alveo in funzione del contenimento delle piene, e non di procedere all’innalzamento degli argini come si ventilava, giudicando pericoloso imprigionare il fiume entro rive troppo alte e strette.
Quest’ultima indicazione non fu tuttavia accolta e prevalse un’altra ipotesi di soluzione: l’apertura di un canale scaricatore dell’Osellino in zona Marghera-San Giuliano. E qui cominciavano le divergenze di opinione: da immettere nel Canal Salso o direttamente in laguna morta presso il forte O, dagli italiani più tardi intitolato a Daniele Manin? Il Governo si opponeva alla seconda, per il consolidato principio della separazione delle acque fluviali e lagunari; nel 1848 il comune riuscì a bloccare un progetto di scaricatore sul Salso. Mentre si aprivano rotte sull’argine contermine come rimedio tampone, finalmente nel 1865 la Delegazione provinciale di Venezia approvò uno “stabile scaricatore delle piene dell’Osellin” attraverso l’argine lagunare.
Dallo Scaricatore allo Scolmatore: un’opera “definitiva”?
Fra lungaggini burocratiche e contrasti tra uffici, con scambi di accuse di inerzia e inefficienza fra Consorzio e Genio Civile, competente sulla laguna e sull’argine contermine, lo scaricatore tuttavia non riusciva a vedere la luce. Ma non si facevano se per questo nemmeno altri utili interventi, pensati per alleviare il critico stato della parte inferiore del comprensorio. Un progetto consorziale elaborato dell’ingegner Daniele Monterumici nel 1880, oltre all’opera prioritaria dello “Scaricatore stabile di piena alle rotte presso forte Manin”, recependo in ritardo l’idea di Manocchi prevedeva in generale l’ampliamento della sezione degli alvei nel tratto inferiore e un aumento delle pendenze del pelo dell’acqua, il rialzo e rinforzo degli argini, la sistemazione della rete secondaria e nuovi scoli a Bissuola e Marcon. Però non fu approvato e al suo posto si fece solo un escavo dell’Osellino. Uno scaricatore venne effettivamente costruito sull’argine contermine presso il Forte Manin nel 1888, ma durò pochissimo; era infatti un manufatto provvisorio e precario, in muratura e legname, e finì distrutto da una piena nel 1895. Passarono gli anni e neanche nel 1913 un nuovo piano di regolazione generale del comprensorio Dese, questa volta finanziato in parte dallo Stato, riuscì a ottenere l’autorizzazione per lo Scaricatore, bocciato perché lo scolo diretto in laguna soggiaceva a una diversa normativa di legge – ci pensò poi la guerra a mandare a monte l’intero progetto. Non ho avuto modo di individuare l’anno di costruzione ma il collegamento fra l’Osellino e il “Canale dello Scaricatore alle Rotte” in laguna a San Giuliano fu senz’altro realizzato, con la collocazione di porte vinciane, solo in occasione della costruzione dell’aeroporto Marco Polo di Tessera fra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Alla ricerca delle ragioni per cui anche nell’Ottocento e primo Novecento i grandi piani di sistemazione generale del comprensorio non siano andati a buon fine, vanno evidenziate le responsabilità del Consorzio, rivelatosi, invece che uno strumento per un’efficace risoluzione dei problemi idraulici del territorio, un elemento di freno alla razionalizzazione della rete idrica e al miglioramento delle strutture territoriali. Nel caso del Dese, vale una duplice spiegazione: da un lato interveniva la riluttanza degli associati a sobbarcarsi l’onere finanziario di progetti ritenuti troppo costosi in rapporto ai benefici attesi, dall’altro la contrarietà dei proprietari dei comuni della parte alta del territorio a contribuire con l’imposta consortile a opere che a loro giudizio sarebbero andate a esclusivo vantaggio dei loro vicini della zona inferiore. In tal modo però ci si condannava a un’ordinaria amministrazione del tutto inadeguata alla natura e all’entità delle questioni sul tappeto.
La vicenda della bonifica è sotto questo profilo esemplare. L’idea si affacciò a fine Ottocento, connessa a esigenze sanitarie e produttive, di lotta alla malaria e di sviluppo e miglioramento dell’economia agricola. Di un prosciugamento artificiale delle vaste paludi e acquitrini del basso comprensorio già si faceva parola in un piano mai eseguito del 1880, in anticipo rispetto alla prima normativa dello Stato italiano sulle bonifiche (1882). L’obiettivo fu ripreso in un progetto del 1889, ma quando sembrava che l’affare andasse in porto, nell’aprile 1892 il Consiglio dei delegati del consorzio si espresse all’unanimità in senso contrario. Si mettevano in dubbio la riuscita tecnica, gli esiti concreti della bonifica; “la triste condizione dei contribuenti” fu agitata per giustificare il diniego a una spesa eccessiva rispetto ai redditi sperabili; particolare timore suscitava poi la prospettiva della divisione del consorzio in due parti con la fuoriuscita dei comuni superiori, cosa che avrebbe comportato per tutti un rincaro della tassa consorziale ordinaria. Si scopre comunque che contrari risultavano essere in generale i maggiori contribuenti, grandi proprietari terrieri, mentre i meno abbienti sarebbero stati favorevoli alla bonifica; consapevoli di ciò, i delegati stabilirono di non sottoporre al voto dell’assemblea generale la loro decisione: episodio da cui emerge con tutta evidenza la natura classista del consorzio, organismo in mano al ceto possidente locale, nobile e borghese. Negli anni successivi la dirigenza del Dese mantenne ferma la sua opposizione seguitando in questa strategia del silenzio sull’argomento, espulso dal confronto negli organi consortili, e con la chiusura verso ogni sollecitazione proveniente da altre amministrazioni statali. Bisognò attendere il fascismo perché si arrivasse alla bonifica delle paludi Zuccarello e Cattal, verso le foci del Dese-Zero e del Marzenego-Osellino, realizzata tra il 1925 e i primi anni ’40, e addirittura il secondo dopoguerra, dal 1946, per quelle di Campalto e Marghera.
Abbiamo detto in precedenza dello Scaricatore alle Rotte a San Giuliano. Non passarono che pochi anni dalla sua realizzazione quando l’alluvione del 1966 dimostrò che questo solo sfioro per il Marzenego non era la soluzione per ogni evenienza. Grande impressione aveva provocato l’allagamento dell’abitato mestrino. Il canale Scolmatore, ultimo grande intervento di modifica strutturale sul Marzenego dopo il cinquecentesco scavo dell’Osellino e la sua rettifica settecentesca, è stato realizzato da Consorzio Dese Sile proprio per impedire il ripetersi di simili eventi. I lavori sono iniziati nel 1972 ma l’opera è stata definitivamente ultimata soltanto nel 2010. La funzione che esso svolge è di intercettare gli affluenti Roviego, Dosa, Rio Cimetto, Rio Storto, Rio Moro, fosso del Terraglio e Rio Bazzera prima dello sbocco nel Marzenego, portando le loro acque a terminare, dopo un largo giro che muove dal rione Cipressina presso la tangenziale e attraversa la campagna tra Dese e Favaro, all’idrovora di Tessera presso il forte Bazzera e le piste aeroportuali. Con l’entrata in esercizio dello Scaricatore, la portata del fiume a valle è diminuita di 40 metri cubi al secondo, garantendo condizioni di sicurezza nell’attraversamento di Mestre. Il canale è stato costruito con un alveo in calcestruzzo e a sollevamento meccanico poiché uno scolo in terra fu giudicato di impossibile realizzazione per ragioni tecniche e di costi. Così progettato e costruito, lo Scolmatore ha sicuramente apportato dei benefici dal lato degli equilibri idraulici del territorio – quale funzione secondaria esso ha anche quella di vasca di contenimento delle piene. Tuttavia con il tempo se n’è evidenziata la criticità sul versante ambientale. Infatti l’infrastruttura si segnala per l’artificialità e bruttezza rispetto ai quadri paesistici, per l’assenza di autodepurazione come accade invece con i veri corsi d’acqua, ma soprattutto per la sua irreversibilità, risultando antieconomica ogni ipotesi di futura modifica.