Riceviamo dal nostro socio Lucio Sponza la storia di un misterioso omicidio avvenuto nel 1842 a Roehampton in Gran Bretagna, un fatto che può sembrare marginale e invece, come capirete leggendo, apre sulla realtà economica e sociale di quel periodo di crisi e sulle condizioni di vita di persone di cui altrimenti non sarebbe rimasta testimonianza.
Quest’attenzione ai fatti di “cronaca nera” quale grimaldello per esplorare un intero contesto storico e umano si ritrova nel quaderno n. 9 di sAm “ L’onore e la legge. Un dramma d’amore a Venezia (1924)” e nell’ultima pubblicazione di Lucio Sponza: Il diario scolastico di Giulia e la cronaca veneziana (1924-1926), Supernova 2022, dove l'analisi del diario della ragazzina è accompagnata da una raccolta di crimini e misfatti avvenuti a Venezia in quel periodo. Potete trovare nel nostro sito il racconto di una gita scolastica di Giulia.
Lucio Sponza
Nell’introduzione al suo vecchio, classico libro Che cos’è la Storia? Edward Carr si chiedeva quando un ‘fatto’ accaduto in passato potesse essere considerato un ‘fatto storico’. La storia sociale è ricca di ‘fatti’ ai quali il contesto può conferire il titolo di ‘fatti storici’. Non so se quello che sto per raccontare – molto lontano da noi nel tempo e nello spazio – appartenga a questa categoria. Lascio ai lettori di deciderlo.
Il 7 aprile del 1842 a Roehampton, che era allora un villaggio a sud-ovest di Londra, fu scoperto il tronco di una donna nell’angolo buio di una stalla. Il vetturino che serviva il padrone della casa signorile a cui apparteneva la stalla fu subito sospettato di essere l’assassino, anche perché conosceva bene la vittima e si era dileguato. Fu catturato dieci giorni dopo, processato e giustiziato. I giornali, compreso l’austero e autorevole Times, dedicarono molto spazio a questo ‘horrible murder’; altri fatti clamorosi di carattere generale di quel periodo contribuirono a far presto dimenticare la triste vicenda. Se vale la pena di scriverne come di un ‘fatto storico’ non è tanto perché non fu provata la colpevolezza del vetturino, che si proclamò sempre innocente, ma proprio il suo contesto.
Per ironia del destino il presunto assassino si chiamava Daniel Good; era irlandese; aveva 47 anni e da due faceva il vetturino. Da ragazzo aveva servito un ufficiale nella guerra che gli inglesi avevano combattuto in Spagna e Portogallo contro le truppe napoleoniche, fra il 1809 e il 1814. Gli orrori di quella campagna furono illustrati da Francisco Goya e per tutti quegli anni, ebbe a dire Good, “ho visto uccidere molti uomini, ma io non ho mai ucciso” – intendendo dire: né allora né mai. È il caso di ricordare che l’Irlanda apparteneva alla corona britannica, ma era trattata da secoli come una colonia – né aiutava il fatto che i suoi abitanti fossero perlopiù cattolici. Peraltro Good non era uno stinco di santo: era stato più volte in galera per vari reati, fra i quali l’uccisione del cavallo di un suo padrone – crimine che per gli inglesi è poco meno di un omicidio. Più grave, forse, era stato di aver appiccato il fuoco al letto dove stava dormendo sua moglie, che per fortuna si salvò.
Ad appesantire il quadro accusatorio fu reso noto che Good frequentava numerose donne. Due di loro, oltre alla moglie, meritano particolare attenzione. Innanzitutto la presunta vittima, Jane Jones, una domestica gallese ‘di circa quarant’anni’ a servizio di una pensione dove si affittavano camere per pochi soldi; con lei viveva il figlio ‘di circa dieci anni’ (del quale non si fa il nome) avuto con Good. I due si erano conosciuti parecchi anni prima in una simile pensione, dove Jones serviva e dove fu alloggiato il nostro protagonista. Lei era descritta come una donna dozzinale, silenziosa e triste, che si ravvivava solo quando Good veniva a trovare lei e il figlio, anche tre o quattro volte la settimana, sia pure per pochi minuti. Secondo il coroner che ne aveva esaminato i resti la povera donna era incinta di 4-5 mesi.
Anche Susan Butcher faceva la domestica, ma viveva con il padre; aveva conosciuto Good qualche mese prima e lui se ne era invaghito al punto da volerla sposare. Ma lei si era rifiutata perché non voleva accompagnarsi con un cattolico, e non aveva accettato l’offerta neanche quando le aveva dichiarato di essere disposto a farsi anglicano. È il caso di aggiungere che quando fu interrogato, il figlioletto di Jones e Good disse di conoscere bene la Bibbia e di non andare in una chiesa cattolica: suo padre doveva avergli insegnato di ricusare la propria origine irlandese e la fede cattolica. Good attribuiva a Butcher la causa delle sue disgrazie perché Jane avrebbe deciso di uccidersi dopo aver saputo della loro relazione. Questa era la sua tesi difensiva, aggiungendo che dopo la scoperta del cadavere fu terrorizzato dall’idea di essere accusato di omicidio e che aveva smembrato il corpo per renderne più facile l’occultamento – ciò che però non riuscì a compiere.
Più ambiguo era il rapporto di Good con sua moglie, ‘Old Molly’, anche lei irlandese. Si erano sposati nel loro paese e intorno al 1820 erano emigrati a Londra, dove ben presto Good la aveva abbandonata, anche se ogni tanto andava a trovarla dove aveva messo su un banchetto di frutta. ‘Old Molly’ fu accusata di avergli dato ospitalità pur sapendo che era ricercato, ma anche di essere in possesso di oggetti che eano appartenuti alla vittima e di aver aiutato Good a impegnare alcuni vestiti di Jones al Monte di Pietà. Di tutte queste accuse ‘Old Molly’ fu scagionata perché ritenuta ignara della terribile storia. Secondo il cronista del Times c’era da dubitare della sua sincerità.
Molte altre persone furono chiamate a testimoniare. Un vecchio che conosceva bene l’accusato disse di aver saputo che la polizia lo cercava per omicidio ma che non l’aveva denunciato perché, dopo aver bevuto con lui una birra (e probabilmente più d’una), “non avrebbe potuto fare una cosa del genere a un amico che era, come lui stesso, al servizio di signori”. Questa dichiarazione offre lo spunto per qualche osservazione sulla società e sulle relazioni sociali in Inghilterra nei primi anni dell’era Vittoriana (la regina Vittoria era salita sul trono nel 1837).
Ancora oggi in Gran Bretagna le differenze di classe sono molto forti. Per gli anni che ci interessano è più appropriato parlare di ‘ranghi’ e di ‘ordini’, in cui la stratificazione e la subordinazione sociale erano consolidate e interiorizzate. Così, per prendere un esempio dalla nostra storia, la cuoca della casa signorile dove Good faceva il vetturino testimoniò contro di lui dicendo che una mattina si era presentato in cucina per la colazione in tali condizioni di incuria da non potersi sedere accanto alla servitù – e lui andò a lavarsi e a radersi. La stessa cuoca aggiunse di essere rimasta sorpresa a sapere che Good era irlandese, perché aveva sempre detto di essere dello Hampshire (una contea a sud-ovest di Londra).
Fra gli anni Trenta e i primi Quaranta dell’Ottocento l’economia inglese attraversò, nelle parole dello storico J.F.C. Harrison, “il peggior periodo nella storia di quel secolo. Lo sviluppo industriale si arrestò, la disoccupazione raggiunse i più alti livelli, i prezzi dei prodotti alimentari continuavano ad aumentare, la popolazione operaia non era adeguatamente sostenuta e soffriva la fame e la miseria”. Su questa realtà, nel 1844, Frederick Engels scrisse La condizione della classe operaia inglese – anche se trattava quasi esclusivamente di Manchester.
Era sempre più diffusa la proletarizzazione dei piccoli proprietari terrieri e degli artigiani. Alla imponente crescita delle città indotta dall’industriallizzazione si accompagnava una condizione sanitaria pericolosa, con frequenti epidemie di colera. Le cose andavano anche peggio in Irlanda, dove la peronospera distruggeva i raccolti di patate, il principale sostentamento di quella popolazione, accelerandone l’emigrazione sia in Ighilterra che (soprattutto) negli Stati Uniti. Le proteste che furono in buona parte conseguenza di queste condizioni socio-economiche confluirono nel movimento politico del Cartismo, con il suo programma di riforme democratiche. Verso la fine degli anni Quaranta la situazione generale migliorò; la spinta eversiva del Cartismo sfiorì e i moti rivoluzionari che scuotevano tanti paesi dell’Europa continentale non si manifestarono in Gran Bretagna, in parte proprio per la precedente agitazione Cartista che aveva indotto le autorità a qualche concessione. Ma ritorniamo alla nostra storia.
L’opinione pubblica moderata e conservatrice che si esprimeva nei principali giornali non aveva dubbi: l’irlandese Daniel Good era un miscredente, disonesto, cinico e assassino. Dopotutto solo qualche anno prima – nel 1836 – il giudizio espresso in un’indagine parlamentare sugli irlandesi era chiaro: “L’emigrazione irlandese in Gran Bretagna è l’esempio di una popolazione meno civilizzata che si diffonde, come una specie di substrato, sotto una comunità più civilizzata”. Quanto diffusa fosse questa opinione e quanto radicati i pregiudizi si può valutare da un articolo del Times: in poche righe iniziali si riconosceva che Good forse era innocente, ma questo non bastava: “Sebbene, ovviamente, non c’è alcun dubbio morale sulla colpevolezza di Good, veniamo a sapere che secondo parecchi eminenti avvocati le prove a suo carico non sono sufficienti per una condanna: sostengono con convinzione che ogni circostanza venuta alla luce suggerisce l’ipotesi di innocenza”. Ma poi ecco un breve estratto dalla lunga e prolissa argomentazione contraria: “È un fatto che Good (…) non ha mai avuto alcuna istruzione religiosa e che è terribilmente ignorante (…). La storia di un tale uomo rappresenta il cammino del vizio che emerge in quella putrefazione morale (…) che ha prodotto rapidamente la fatale criminalità”. Prendo lo spunto da questa perorazione ‘moralistica’ per avvicinarmi alla conclusione.
Le esecuzioni di criminali per impiccagione erano occasione di spettacolo popolare. Sino al 1783 il patibolo era eretto a Tyburn (dove adesso sorge Marble Arch) e la gente si assiepava per tutto il lungo percorso che dal carcere conduceva al luogo di pena. Da allora, e fino al 1868, l’esecuzione avveniva nel cortile attiguo alla prigione di Newgate (nella City di Londra), dove si allestivano palchi per il pubblico e le case intorno venivano affittate per l’occasione a prezzi esorbitanti. Se per i popolani, infatti, queste erano occasioni di morboso intrattenimento, non ne erano esenti le classi più elevate, tanto che il corrispondente del Times notò che “in un caso, un Nobile Lord (…) era stato spettatore alle ultime quattro o cinque esecuzioni pagando 15 sterline per il posto”. Uno come Daniel Good guadagnava – quando trovava il lavoro – fra i 10 e i 15 scellini alla settimana (una sterlina consisteva di 20 scellini).
Pochi minuti prima dell’impiccagione di Good il cappellano anglicano del carcere fece l’ultimo tentativo di persuaderlo a confessare la sua colpa, minacciando le pene dell’inferno se non l’avesse ammesso. Ma il condannato ribadì la sua innocenza, dimostrando più dignità di quell’inquisitore. “Perché dovrei mentire – disse – quando mi restano pochi minuti di vita?”. L’esecuzione avvenne la mattina del 23 maggio 1842.
Il giorno dopo furono arrestate due ragazzine ‘non ancora quindicenni’, Margaret Weston e Harriet Braun, che avevano assistito all’impiccagione, ma probabilmente erano là anche per altre ragioni. L’accusa era di aver rubato il soprabito di un certo Joseph Gibson, proprietario di una taverna e anche lui spettatore dell’esecuzione. Per godersi di più la lurida cerimonia si era portato delle birre, sicché alla fine era piuttosto brillo e allegro, e quando gli si avvicinarono le due ragazzine accettò di andare con loro in un’abitazione là vicino, notoriamente malfamata. Dopo essersi appartato con una delle due si addormentò e al risveglio, il giorno dopo, si accorse di essere stato derubato. Le due giovinette erano sparite ma furono presto rintracciate e l’articolo del Morning Chronicle che racconta con molti particolari l’episodio concludeva: “Entrambe frequentavano abitualmente quella casa”. Peccato che il cronista non infierisca su di loro denunciandone l’ignoranza, la mancanza di istruzione religiosa, ‘il cammino del vizio’ e ‘la putrefazione morale’. Ma forse non erano irlandesi.
Nota della redazione
La pena di morte in Gran Bretagna viene abolita definitivamente il 31 luglio 1998. Dall’8 novembre 1965 l'omicidio non era più un reato capitale, rimanevano punibili con la morte l’incendio del palazzo reale, l’alto tradimento e la pirateria con violenza.
Sulla decisione di eliminare la pena di morte ha avuto un peso l'impiccagione nel 1953 del ventenne Derek William Bentley, condannato per l'omicidio di un poliziotto durante un tentativo di furto con scasso, nonostante si fosse appurato che non era stato lui a sparare. Il caso Bentley ha scosso profondamente l'opinione pubblica e avviato una campagna, durata 40 anni, per ottenere la grazia postuma, concessa nel 1993 e poi l'annullamento della condanna, concesso proprio nel 1998. In quello stesso anno il cantautore inglese Elvis Costello compose Let Him Dangle, una critica alla pena di morte, le cui parole fanno riferimento all'impiccagione di Derek.