di Jules Vallès, a cura di Enrico Zanette
Lo avevamo anticipato a marzo, per l’anniversario della Comune di Parigi: il nostro Enrico Zanette si era messo in testa di fornire la prima versione italiana del Bachelier di Jules Vallès, il secondo volume della trilogia autobiografica completata dall’Enfant (Il ragazzo o Il figlio, a seconda) e dall’Insurgé (L’insorto). In questi mesi ha completato la traduzione, ora disponibile in un volume delle Edizioni Spartaco: Il diplomato.
È un romanzo dei nostri tempi per molte ragioni. Prendiamo solo alcuni aspetti dell’inizio di quest’anno scolastico: insegnanti precari, nomine precarie, stipendi precari, situazioni grottesche. Con le debite distanze, è quel che visse l’alter ego letterario di Vallès, il giovane diplomato in cerca di impiego Jacques Vingtras, circa 170 anni fa.
Mi rivolgo al vecchio Firmin, l’addetto al collocamento che ho conosciuto tempo fa con Matoussaint, ma che non mi riconosce subito… mi sono cresciuti i baffi. Gli parlo della mia intenzione di entrare nell’insegnamento. «Ma non è stagione! Povero ragazzo, non troverai nulla per il momento». […]
Sfoglia il registro: «Vuole andare ad Arpajon?».
«Non vorrei lasciare Parigi».
«Ah! tutti uguali… Parigi! Parigi!…».
Continua a sfogliare il registro…: «Mio caro ragazzo, a Parigi niente – niente!… solo un posto alla pari, rue de la Chopinette – da Ugolino – lo chiamiamo Ugolino perché lì si muore di fame». […]
La signora Firmin interviene: «Dì un po’, Firmin? E nei posti dove si fischia?…».
«Ma il signor Vingtras potrebbe non voler un posto dove si fischia?».
Non so di cosa parlano. Ma per paura di creare imbarazzo, dichiaro che, al contrario, adoro quei posti: «È proprio quello che sognavo, un posto dove si fischia».
Vedremo di che si tratta! […]
«Va bene! Ecco la lettera per il signor Entêtard, rue Vaneau. Avrete il pranzo alla cattedra e quindici franchi al mese».
Pranzo alla cattedra! Quindici franchi al mese – sono dieci soldi al giorno. Oh Dio mio! il mese ha trentuno giorni! Prendo la lettera per il signor Entêtard e mi dirigo in rue Vaneau. […]
Un enorme portone a due battenti. A sinistra, la portineria.
Entro. La portinaia è alle prese con la trippa.
«Il signor Entêtard?».
Mi squadra con un’aria di sospetto e non si affretta a rispondere.
Alla fine è convinta di riconoscermi: «Ah! siete voi, siete già passato per i mutandoni?».
«Vi sbagliate…».
«No, no, vi riconosco bene!».
«Vi assicuro, signora…».
«Per le salsicce allora?».
Cerco di spiegare lo scopo della mia visita.
«Elargisco l’istruzione…».
«Gnò gnò!» fa lei scuotendo la testa come un’idiota.
Non c’è modo di passare. Impossibile! Mi aggiro disperato davanti al portone! Provo a vedere se è possibile forse scavalcare il muro!… Mentre vado avanti e indietro, vedo un omone che entra e, un minuto dopo, la portinaia della trippa che se ne va. Quell’omone è il portinaio maschio. Forse sarà più accomodante di sua moglie. Ritorno alla portineria e molto rapidamente gli spiattello il mio caso, citando questa volta per primo il nome dell’addetto al collocamento.
«Vengo…».
M’interrompe con uno sguardo d’intesa: «Venite per le salsicce?».
«No, mi manda l’ufficio di collocamento come insegnante. Per il pranzo alla cattedra e quindici franchi al mese».
«Ah! ah! Per davvero?».
Protesto la mia sincerità.
«Ebbene! andate laggiù, in fondo alla corte a destra. Il signor Entêtard deve essere là, lui o sua moglie. Gli spiegherete la faccenda».
Attraverso la corte. – Che silenzio!… Credo di vedere una figura umana fuggire al mio arrivo. Mi pare di aver sentito: «Viene per le marmellate!».
Vado a bussare alla porta che mi ha indicato il portinaio. Mi lancio – vada come vada! Mi sembra di sentire un occhio che si attacca alla serratura – un grande occhio, come quelli che si trovano sul fondo delle porcellane: «Ah! monello!».
Aprono al monello… Mi precipito nella stanza e, appena entrato, urlo con tutte le mie forze il nome dell’addetto al collocamento: «Signor Firmin!…».
Grido come quando si chiama il numero di un fiacre fuori da un ballo! Grido senza rivolgermi a nessuno, a testa alta e occhi chiusi per dimostrare che non sono una spia e che non vengo né per i mutandoni né per le salsicce né per le marmellate. Ripeto, strizzando ancora di più gli occhi, come se ci fosse finito dentro del sapone: «Signor Firmin, Signor Firmin!». Una mano mi prende e mi sento condurre in una saletta.
«Non gridate così forte!…».
Lo facevo a fin di bene. Sono finalmente di fronte al signor Entêtard, che guarda la lettera di Firmin e mi dice: «Signore, conoscete le condizioni, quindici franchi al mese, il pranzo alla cattedra e a voi di portare il fischietto».
M’inchino – deciso a non stupirmi di nulla. Il signor Entêtard ha ancora qualcosa da aggiungere: «Una domanda! Siete un tipo fiero?».
Penso che gli piacciano le nature orgogliose e ardenti.
«Sì, signore, sono fiero».
Cerco di avere un bagliore negli occhi. Alzo il mento sebbene il colletto di carta mi dia parecchio fastidio.
«Ebbene! se siete fiero, niente da fare. Non abbiamo bisogno di gente fiera qui». […]
«C’è fierezza e fierezza…».
Tento delle richieste di aiuto che mi si soffocano in gola!
«Dai, si vede che non lo siete, non più del necessario, comunque.
Venite domani alle sette; col vostro fischietto…». […]
Sono arrivato un po’ prima del dovuto.
«Non c’è nulla di male» dice il portinaio, «mi vesto; sedetevi».
Mi parla in camicia: «Avete di fronte il portinaio dell’istituto da dieci anni; per nove anni, invece del signor Entêtard c’era un altro a portare avanti la baracca. Una miniera d’oro, signore! – Ma il signor Entêtard è inesperto, ha perso tutta la clientela, ha immediatamente fatto debiti e fa le cose alla carlona!… È così messo male d’aver comprato dei mutandoni a credito per rivenderli, e da nutrire i suoi allievi con un sacco di salsicce tedesche che gli hanno messo il diavolo in corpo. Mia moglie se n’è accorta, capite!… Non ha ancora pagato le mutande, figurarsi le salsicce! Non ha pagato, non pagherà nessuno, nessuno! Ha debiti a destra e a manca, col mercante di mutande, col mercante di salsicce, col mercante di foraggio e col lattaio…».
«Col mercante di foraggio?».
«È per il cavallo – ci sono un cavallo e una carrozza, non lo sapevate? La mattina si va in carrozza a recuperare gli allievi e li si riporta la sera. Io sono portinaio e cocchiere. Quindi siete voi quello che sarà professore e bambinaia?».
In effetti, la mattina e la sera faccio la bambinaia. Il resto della giornata faccio il professore. A mezzogiorno, pranzo alla cattedra, il che significa mangiare in classe. Il primo giorno, il mio stupore è stato profondo, immenso. Mi hanno portato della marmellata d’uva in un piattino, con una fetta di pane a lato. Marmellata come primo?… Come primo e ultimo! Marmellata d’uva, e basta… Il secondo giorno, patate fritte. Il terzo giorno, noci! Il quarto giorno, un uovo!… Quest’uovo mi ha rimesso in sesto – mi danno un uovo ogni cinque giorni, affinché non muoia. Fortunatamente, un bel tozzo di pane – ma gli Entêtard spesso non pagano il fornaio e lui gli dà il pane pieno di scarafaggi. L’istituto non ha che studenti a mezza pensione che si portano il pranzo al sacco e lo mangiano in classe a mezzogiorno – un pranzo che profuma di carne! Io divoro il mio pezzo di pane con una goccia di marmellata d’uva che mi impiastra la barba, o il mio uovo che mi schiarisce la voce. Sarebbe perfetto se volessi diventare un tenore; ma non voglio diventare un tenore. Penso di avere più fame che se non mangiassi nulla. Dopo otto giorni, sono irriconoscibile; mi hanno dato, è vero, l’albumina, e si dice che sia molto nutriente. – Ma l’albumina di un unico uovo ogni quattro giorni è troppo poco per me. […]
Così, vado in carrozza a prendere e riportare i bambini a casa. Ho già consumato un fischietto. Il mio ruolo è di fischiare nelle corti, per avvertire i genitori.
Ecco che vi riporto vostro figlio…1
Fischio. I figli scendono.
La madre l’ha preparato in fretta e furia… Lei non ha solo lui, giusto? Si dimenticano le semplici premure!… Mi gridano spesso dalla finestra: «Potete soffiargli il naso, per favore?!».
Prendo il nasino di questi innocenti nel mio fazzoletto e faccio del mio meglio per non ferirli… I bambini non si lamentano di me, di solito; alcuni addirittura aspettano che io gli soffi il naso e si offrono spontaneamente; molti preferiscono il mio modo a quello della mamma. C’è sempre qualcuno che si lamenta… alcuni genitori che gridano: «Non così forte! Volete strappare il naso ad Adolphe?». No, che me ne farei?! Nonostante un po’ d’ingratitudine, sono amato, molto amato. Mi hanno persino mostrato dei segni di fiducia che non si fanno a tutti. Molti di questi bambini sono piccoli – molto piccoli – hanno i pantaloni aperti sul retro, come ce li avevo anch’io, mio Dio!
«Signore, vi dispiacerebbe rimboccargli la camicia?».
Sono nuovo nell’insegnamento, si fa una buona carriera alla fine, bisogna fare ciò che ti chiedono e preoccuparsi di piacere all’inizio! Rimetto a posto la camicia. Sembrano felici – ho la mossa per questo, quasi elegante, a quanto pare, una mossa della mano, come una donna che spazzola un ciuffo o un bigodino con dita leggere. Si riconosce quando sono stato io a operare.
«È il signor Vingtras!» mi riconoscono già, mi sono fatto un nome, «non c’è nessuno come lui, ha un modo, una tecnica per rimboccare… A lui la medaglia!…». […]
La fine del mese è arrivata. Stasera, devo riscuotere i miei quindici franchi. Gioia sana di ricevere del denaro ben meritato – posso dirlo, dal momento che questi quindici franchi rappresentano lo sforzo di due persone – il lavoro di un uomo e quello di una donna: elargisco l’istruzione e rimbocco le camicie. Questa mattina invece di trascurare i miei obblighi ho persino esagerato. Non un naso, non un lembo di camicia possono sollevarsi e accusarmi! Ci si sente più forti quando si ha la coscienza a posto. Tuttavia, aspetto inutilmente che il signor Entêtard mi chiami; il momento di salire in carrozza arriva e di lui neanche l’ombra. Me ne vado senza paga.
***
Torno dal signor Firmin. È in viaggio; sposa sua figlia. Vado dal signor Fidèle – un altro addetto al collocamento. Il signor Fidèle vive in rue Suger, al mezzanino. Nessuno che vi riceve.
Il padrone non si disturba ad aprire la porta – né una cameriera né una domestica per annunciarvi. Si gira la maniglia e si entra… Un’anticamera con delle sedie in legno consumate dal didietro di poveri diavoli, nere – di un nero lasciato dai pantaloni ricolorati a inchiostro; lucide come calzoni troppo usati; claudicanti come lo sono quelli, imbevuti di latino, che hanno camminato fino a qui nelle scarpe bucate e a stomaco vuoto. Una finestra scura, alcune tende verdi e sbiadite – entrando si trattiene il respiro! Nell’aria c’è il silenzio di un corridoio di questura… di un ufficio da commissario – so di cosa parlo! – dell’andito dove si attende il giudice istruttore come testimone o accusato… Parlavamo a bassa voce. Il proprietario arriva. Ci azzittiamo, come in collegio. Eppure, tutti qui dentro siamo tagliati per fare i soldati!… […]
Il mio turno è arrivato, il signor Fidèle m’interroga: «Cosa volete? Avete già insegnato? Quali sono i vostri stati di servizio? Avete dei certificati?».
Me lo chiede con tono nauseato e irritato; sembra disgustato dal vivere sulle spalle dei poveri: deve trovare troppo stupidi quelli che pensano di guadagnare il pane ammuffito che lui gli procura! I miei certificati? Non ne ho! Non oso dire di esser stato da Entêtard! Non so cosa rispondere; mostro il mio diploma. Invoco la professione di mio padre. Sono figlio d’arte.
«Ah! vostro padre è professore! Avreste dovuto rimanere nel suo collegio, entrarci come tutore, invece di marcire nell’insegnamento privato». […]
Finisce per lanciarmi, così, come un osso, la seguente proposta: «C’è un posto in un esternato di rue Saint-Roch, dalle otto del mattino alle sette di sera. Se volete iniziare lì per fare il vostro apprendistato?…».
«Va bene».
Gli ho dato nome, cognome e indirizzo. Me ne vado con una lettera per il signor Benoizet, rue Saint-Roch.
Prendendo la via urto il cieco che sta fuori dalla chiesa, bello grassoccio, con addosso delle pantofole imbottite e una spessa maglia di lana, – le labbra lucide di una soupe grasse che ha appena trangugiato, e che gli ha lasciato nell’alito un profumino di cavolo che la brezza mi fa arrivare. Mi dà dello «storpio» e risistema borbottando il suo cartello sul petto.
Arrivo dal signor Benoizet. Sta litigando con sua moglie; si lanciano di quelle parole che non ci sono in un dizionario, tutt’altro! Li interrompo nel pieno della loro conversazione, non mi hanno sentito arrivare. Però avevo bussato e credevo di aver sentito: «Entrate!».
Il signor Benoizet s’impettisce come un gallo e mi chiede cosa voglio. Porgo la mia lettera.
«Avete già insegnato?…».
Sempre la stessa domanda! – alla quale do sempre la stessa risposta: «No, sono diplomato».
«Non voglio diplomati. Sapete come insegnare BA, BE, BI, BO, BU? Avete detto per giorni interi BA, BE, BI, BO, BU? – BA, BE, BI, BO, BU, per giorni interi?».
No, per giorni interi, no! Solo, quando ero piccolo. Ma devo guadagnarmi il pane e faccio segno che ho detto BA, BE, BI, BO, BU – BBA, BBE… Mi si incollano le labbra!…
La signora Benoizet, aggiustandosi la cuffia, entra nel dibattito: «Puoi prenderlo in prova» dice a suo marito, squadrandomi, come se dovesse valutare un pezzo di carne al mercato.
Lo proviamo. Trenta franchi al mese. Per il mangiare mi arrangio. Ho mezz’ora libera a mezzogiorno per pranzare. Non c’è carrozza, come da Entêtard, né scuderia; ma preferirei ci fosse una scuderia, quell’odore controbilancerebbe quello della classe. Oh! se ci fosse una scuderia! Soffoco, mi viene il voltastomaco; quest’aria mi fa male! Però mi faccio forza e faccio il mio mese, puntuale come un pendolo. Arrivo in anticipo, me ne vado dopo l’orario. La sera piango per il disgusto mentre torno nella mia tana, ma mi sono giurato di essere coraggioso.
I miei allievi hanno dai sei ai dieci anni. Dico BA, BE, BI, BO, BU agli uni. Faccio fare le aste agli altri. Di tanto in tanto apro la porta, ma il signor Benoizet e sua moglie si insultano nel corridoio e così mi tocca chiudere subito. Ai più grandi, faccio recitare: «La A è lunga in pâte e breve in patte; la U è lunga in flûte e breve in butte».
È il 30… il signor Benoizet mi chiama: «Signore, ecco il vostro stipendio».
Ah! Questo è un uomo onesto!
«Mi darete una ricevuta?».
Gliela do. Il signor Benoizet incassa il foglio e attacca con un discorso: «Devo avvertirvi che sarò obbligato a privarmi dei vostri servizi tra due settimane. Per allora, cercatevi un posto, un posto più in linea con i vostri gusti, la vostra età. Qui abbiamo bisogno di persone che non sono disgustate dall’odore dei bambini e che non hanno bisogno di aprire le porte per respirare».
«Non mi disgusta quell’odore».
Ho addirittura l’aria di dire: «Al contrario!». Ma il signor Benoizet ha preso la sua decisione.
«Mi darete almeno un certificato?» faccio io tutto commosso.
«Vi darò un certificato attestante che siete puntuale, senza dire che siete incapace – e potrei dirlo; voi lo siete – l’incapacità stessa! E per di più, spaventate i bambini».
Mi parla come a qualcuno che gli ha mentito, che l’ha imbrogliato sulla qualità dei suoi BA, BE, BI, BO, BU. Questo è anche vero, ancora ancora passa! Ma quanto a far paura ai bambini!…
«Sì, gli fate paura. Sembra che voi non vogliate farvi scocciare…
Mai una birichinata! Non vi siete mai messo a quattro zampe, nemmeno una volta! Bon, alla fine, va bene così! Siete stato pagato. Tra due settimane ve ne andrete – né visti né conosciuti. – Vi porgo i miei saluti…».
Mi pianta lì ed esce: ma dal momento che in fondo non è un uomo cattivo, mi dice di sfuggita per scusare la sua scortesia: «Non è colpa vostra; siete troppo vecchio per questi lavori, ecco tutto… troppo vecchio».
Nota. Tratto da Jules Vallès, Il diplomato, cura, traduzione e postfazione di Enrico Zanette, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2020, pp. 147-154 e 159-162.
- Verso tratto dall’opera teatrale Le Grondeur di David Augustin de Brueys e Jean De Palaprat. [↩]