di Maria Turchetto
Pubblichiamo il testo del discorso di auguri di fine anno che Maria Turchetto ha tenuto il 6 dicembre 2017 presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. E ancora buon San Nicolò.
Non so bene cosa dirvi, visto che sono una ritirata, una congedata, insomma… una pensionata. Potrei raccontarvi – con un po’ di crudeltà – com’è la vita di un pensionato. Un po’ di crudeltà nei confronti dei giovani, dei precari, degli assunti a tempo determinato (e ce ne sono tanti tra voi) che non sanno se arriveranno a godere di questo antico privilegio, istituito, nella sua forma pubblica, nel 1889 nella Prussia di Guglielmo II. Diceva una vecchia canzone anarchica, più o meno coeva dell’istituzione del sistema di sicurezza sociale tedesco: “il tempo è dei filosofi”. Allora in Italia il sistema pensionistico ancora non c’era, altrimenti avrebbero cantato: “il tempo è dei pensionati”.
Sì, noi pensionati siamo relativamente liberi dalla dittatura del tempo. Devo ancora rispettare gli orari dei negozi, degli uffici, dei treni, degli spettacoli. Ma per tante, tante cose nella mia privilegiata condizione posso dire: “lo farò poi”, “lo farò domani”.
Certo, il tempo per chi lavora nell’università è abbastanza libero, non è una dittatura troppo pesante. Non è come il tempo alla catena di montaggio, al reparto imballaggio di Amazon, al bancone del McDonald. Non c’è il capetto col cronometro che ti conta i minuti. Ma qualche tentativo in questo senso è stato fatto anche all’università: tentativi di quantificazione. E la quantificazione, in questa società, è in primo luogo quantificazione del tempo. Non a caso la storia del pensiero economico – materia che insegnavo qui da voi – inizia ufficialmente con Adam Smith e la teoria del valore-lavoro, vale a dire l’ideona di misurare il valore di tutte le cose in termini di tempo di lavoro.
Per esempio, ci chiedevano di quantificare la ricerca in “mesi-uomo”, unità di misura che mi ha sempre inquietata anche a causa dell’ambiguità del termine “uomo”, che designa sia la specie che il genere maschile. E finché si tratta di specie, ci posso anche stare, posso senz’altro pensare che nel campo della ricerca (in altre attività non è detto) i “mesi-uomo” valgano di più dei “mesi-somaro”. Ma se si trattasse di genere? Se ci fosse da sospettare del sessismo? Quanto valgono i “mesi-donna”? Più o meno dei “mesi-uomo”?
Con la riforma e l’introduzione del sistema dei crediti sono stati fatti seri tentativi di quantificare lo studio. I crediti prevedevano infatti una serie di equivalenze: tot ore di lezione = tot ore di studio e tot ore di studio = tot pagine a stampa. In sostanza, tra il tempo dedicato a seguire le lezioni e il tempo dedicato a studiare sui libri doveva risultare un certo numero di ore corrispondente a un certo numero di crediti. Anche questo mi riusciva un po’ difficile da accettare, perché ho sempre pensato che la preparazione di un esame si fa sui libri e che le lezioni sono una sorta di sussidio audiovisivo per aiutare la comprensione dei testi. Ma anche accettando di buon grado l’idea che ascoltare le lezioni equivalga a studiare sui testi, i problemi rimangono. Per le ore di lezione, i problemi sono pochi. Una ora di lezione dura comunque 45 minuti (e lo “sfizio” del quarto d’ora accademico è ormai stato formalizzato), anche se la sbobinatura di una mia ora di lezione occupa un numero di pagine superiore alla media (ne ho avuto il riscontro). La quantità di informazioni che si trasmette parlando per un’ora dipende infatti dalla quantità di “ehm”, “uhm”, “è vero”, “dunque” che si infilano nel discorso. Ma passi.
È con le ore di studio che cominciano i problemi. Sappiamo bene che c’è chi legge velocemente e assimila velocemente, c’è chi legge lentamente e assimila bene, c’è chi non assimila mai e deve mandare i testi a memoria… E le pagine a stampa? La Critica della ragion pura di Kant ha lo stesso numero di pagine del Libro delle barzellette di Totti, come dicevo sempre agli studenti in sede di contrattazione dei programmi “per frequentanti” e “per non frequentanti”, resa obbligatoria dal sistema quantitativo dei crediti…
Ma insomma, direte voi, perché il lavoro si può misurare in tempo – Adam Smith è considerato il padre della scienza economica per questa bella trovata su cui perfino Marx era d’accordo – e lo studio e la ricerca invece no? Beh, ce l’ha spiegato proprio il buon vecchio Carlo Marx. Nella società industriale, nella società capitalistica (chiamiamola una buona volta col suo nome), il lavoro è davvero qualcosa di omogeneo e fungibile. Il “lavoro astratto” di cui parla Smith non è una semplice convenzione, né una media calcolata a tavolino: è il lavoro il cui tempo è uguale per tutti perché è imposto dai capetti muniti di cronometro o peggio dal ritmo della catena di montaggio (peggio, perché alla catena non si può dare un cazzotto). È il lavoro “alienato”, cioè non più tuo, non controllato da te…
Quando sarete a questo punto di “alienazione” – voi ricercatori, voi docenti, voi studenti – bene: sarà il momento di introdurre i crediti e i mesi-uomo. Al momento, per fortuna, direi che la cosa è ancora prematura. Al momento, come direbbe la signora Ferilli, siete ancora tutti “artigiani della qualità” e forse sono ancora indispensabili le buone, vecchie valutazioni qualitative.
Parlo per voi, naturalmente. Per me non ci sono più valutazioni, non c’è più l’ANVUR, non ci sono quantificazioni né tantomeno controllo dei tempi.