Lorenzo Feltrin intervista Rodrigo Díaz
Nel corso delle sue ricerche su Porto Marghera, Lorenzo Feltrin ha raccolto la storia di vita di Rodrigo Díaz, che nel 1974, pochi mesi dopo il golpe di Pinochet, riuscì a scappare dal Cile e a rifugiarsi in Italia. Tuttora residente a Marghera, alla Cita, è direttore artistico del Festival del Cinema Ibero-Latino Americano di Trieste. Il testo che segue è una breve rielaborazione di due lunghe interviste biografiche realizzate nel 2021. La militanza nell’Unidad Popular e l’11 settembre interrompe il lavoro a pagina 68; mesi di clandestinità e due arresti; l’arrivo a Roma nell’estate del 1974 e per il primo anniversario del golpe è a Mestre; un appartamento in via Galuppi e poi nel 1976 diventa “il primo extracomunitario della Cita”; gli incontri con i compagni a Marghera: ci si capisce peggio in italiano o in dialetto?; il cinema per affrontare “l’incertezza e lo sradicamento dell’esilio”.
Sono nato nel 1950 nella Valle di Colchagua, la terra del vino Carmenère, circa 140 chilometri a sud di Santiago. Mio padre faceva l’autista in un latifondo ma morì quando avevo meno di due anni. Mia madre restò così senza casa né reddito e tornò dai suoi a San Fernando, la capitale provinciale. Ma lì non trovava di che vivere e decise di trasferirsi da una sua sorella a Santiago, nel quartiere di San Miguel, dove sono cresciuto.
San Miguel era un quartiere popolare ma piuttosto misto, c’erano sia povertà che classe media. Fu lì che costruirono il primo monumento a Che Guevara in Cile, che scomparve naturalmente dopo il golpe. E fu lì che si formò la mia coscienza politica. Mia mamma simpatizzava per Salvador Allende dal 1952, da quando lei aveva 23 anni. Già a 13 anni avevo amici militanti e nel liceo mi attivai in prima persona nel Partito Socialista Cileno. Nel 1969, mentre studiavo all’università, cominciai a lavorare nella casa editrice Zig-Zag, che durante l’Unidad Popular passò alla “area sociale dell’economia” e si trasformò in «Quimantú»: si trattava di un progetto volto a “democratizzare il libro”, producendo opere a prezzi politici e distribuendole nei circuiti popolari. Per me fu una scuola, sia per le persone con cui lavorai sia perché mi permise di essere sempre aggiornato sulla politica di quegli anni.
(Immagine tratta da una pagina del sito https://www.antiwarsongs.org/)
Il giorno del trionfo di Allende, il 4 settembre 1970, lo passai in un comitato dell’Unidad Popular per controllare il corretto svolgimento delle operazioni di voto. In strada si vedevano volti colmi d’emozione e anch’io andai con la famiglia a festeggiare nell’Alameda fino alle tre di notte. Allende tenne il suo discorso dal balcone della sede del sindacato studentesco FECH. Tornai a casa con la sensazione che si stesse scatenando un processo sociale che difficilmente si sarebbe arrestato.
Un episodio importante di quegli anni fu il comizio di Allende e Fidel Castro il 2 dicembre 1971 nell’Estadio Nacional, con il concerto dei Quilapayún. Allende dichiarò che non avrebbe ceduto ai ricatti e che per rimuoverlo dall’incarico affidatogli dal popolo avrebbero dovuto batterlo alle urne o assassinarlo. Un altro momento chiave fu il discorso di Allende del 4 settembre 1973, quando parlò dalla sede della UNCTAD – di fronte a una folla immensa – dei momenti drammatici che il paese stava attraversando e di ciò che sarebbe potuto accadere.
La storia cilena, in un certo senso, è appassionante, crudele, bella. Ha tutti gli ingredienti di una tragedia greca. L’11 settembre 1973 stavo correggendo La madre di Maxim Gorki. Il lavoro si fermò a pagina 68. Restai nella sede di Quimantú ma non potemmo resistere perché eravamo disarmati. Il regime licenziò poi gli oltre 2000 dipendenti della casa editrice.
Fondamentalmente, alla dittatura interessava sterminare i quadri intermedi del movimento operaio per creare una frattura tra i dirigenti della sinistra e il mondo del lavoro. Per esempio, potevano permettersi di liberare il Segretario Generale del Partito Comunista Cileno Luis Corvalán. Ma i quadri intermedi, i sindacalisti delle fabbriche, delle miniere, dei campi, dei quartieri popolari, quelli furono sistematicamente torturati e assassinati in un progetto di disarticolazione del tessuto organizzativo e collettivo di classe.
Nei giorni successivi al golpe, cercai di rendermi utile alla resistenza e scoprii che vicino a casa c’era un’officina di riparazione di macchinari agricoli dove gli operai avevano qualche arma. Ridicolo, se pensiamo alla potenza di fuoco delle Forze Armate. Infatti, un giorno i militari fecero irruzione con i carri armati e dovemmo scappare sui tetti.
Entrato in clandestinità, mi dedicai a tirar gente oltre il muro dell’Ambasciata italiana affinché potessero richiedere asilo politico, soprattutto lavoratori di Quimantú e, curiosamente [date le sue posizioni politiche di allora NdR], numerosi militanti del MIR1. Ho lanciato nell’Ambasciata italiana anche l’attuale responsabile del patronato CGIL in Cile. Mi insegnò il trucco un prete di origini sarde, padre Rafael Marotto. Mi disse: “Devi fare una specie di operazione commando”. Io rimasi strabiliato, un prete che parlava di operazioni commando! Il problema era che l’ambasciata era un isolato interamente recintato da un muro. Bisognava fermarsi nella stradina sul lato nord, lanciare la persona e scappare, perché c’erano soldati appostati su entrambi gli angoli. Il 4 novembre 1974, i militari tirarono oltre il muro il corpo torturato della militante ventiseienne del MIR Lumi Videla, per giunta raccontando alla stampa che l’omicidio era avvenuto durante un’orgia tra esiliati all’interno dell’ambasciata.
Mi arrestarono due volte, per un periodo complessivo di quattro mesi circa. Non mi scoprirono perché durante le torture abbandonavo la fraseologia del militante di sinistra e parlavo la loro lingua, ripetendo in continuazione la parola “patria” che loro adoravano. Dopo il secondo arresto mi trasferii nella periferia di Maipú e trovai un altro lavoro come “direttore di installazioni elettriche”. Ma a un certo punto i servizi segreti mi identificarono, perché un giorno arrivai al lavoro e i dirigenti mi dissero: “I militari sono venuti a cercarti quando non c’eri e gli abbiamo dato il tuo vecchio indirizzo”. L’azienda mi diede una specie di liquidazione e mi misi in una lista d’attesa dell’Onu per richiedenti asilo. Il mio biglietto per l’Italia lo pagò Lietta Aguirre d’Amico, nipote di Pirandello.
In Italia arrivarono circa tremila esuli cileni, è un paese visto con molta simpatia in America Latina. Persino Allende disse che la prima persona che lo avviò a una presa di coscienza politica fu Giovanni De Marchi, un falegname anarchico di Torino che viveva a Valparaíso. A Venezia c’era qualche altro esule cileno e a Chioggia una ragazza del MIR, ma il gruppo più numeroso in Veneto si stabilì a San Giovanni di Lupatoto, in provincia di Verona. Non so bene perché proprio lì, credo che sia stata una migrazione a catena dopo che dei preti operai offrirono ospitalità al primo nucleo. Alcuni cileni vivono ancora a San Giovanni. Mio cugino, come altri esuli, lavorò nelle concerie del veronese che erano terribili, ci ha lasciato i polmoni. Ma in quell’epoca era diffusa tra gli esuli una lettura politica secondo cui Pinochet non sarebbe durato. Si aspettavano che la dittatura cadesse da un momento all’altro e quindi vivevano in una situazione di provvisorietà permanente, sempre con la valigia pronta per tornare.
Io arrivai a Roma nell’estate del 1974, non avevo ancora compiuto 24 anni. Dei sindacalisti mi chiesero di andare a intervenire a un comizio, nel primo anniversario del golpe, in piazza Ferretto a Mestre. Da quella volta non sono più andato via. All’inizio mi ospitò Luciano Favaretto, all’epoca segretario provinciale dei metalmeccanici UIL. Poi partecipai alla festa d’addio, in una Casa del Popolo di Marghera, degli esuli greci che rimpatriavano dopo la fine del regime dei colonnelli. A un certo punto qualcuno disse: “Qui c’è un compagno cileno senza casa!”. Così mi trovarono un appartamentino in via Galuppi 27 a Mestre e un lavoro come magazziniere nella Coop di Carpenedo. Ma ero molto impegnato nelle iniziative di solidarietà col Cile e in poco tempo ottenni l’aspettativa sindacale. Mi misi a lavorare nelle ACLI e poi diventai responsabile unitario per le relazioni internazionali di CGIL, CISL e UIL al livello regionale. Mi sono trasferito a Marghera nel 1976, probabilmente sono stato il primo extracomunitario della Cita.
Il golpe cileno produsse un impatto talmente forte in Italia che tutti, tranne i fascisti, erano accoglienti, comprensivi e solidali, dal Partito liberale alla sinistra extraparlamentare. La Biennale del 1974 dedicata al Cile fu spettacolare. Noi formammo il comitato dell’Associazione Italia-Cile nel Veneto, che si coordinava al livello nazionale con l’Associazione Italia-Cile e Cile Democratico, con sede a Roma. Organizzammo un grandissimo evento, con la regia artistica di Luigi Nono, che si tenne il 6 settembre 1975 nell’Arena di Verona. C’erano gli Inti Illimani, i Quilapayún, Joan Jara – la moglie di Victor Jara, il cantautore comunista assassinato nei primi giorni del golpe – e il grande Bruno Cirino, straordinario attore morto prematuramente, che recitò quella sera le poesie di Pablo Neruda. Eduardo “Mono” Carrasco – uno dei fondatori della Brigada Ramona Parra2 – e altri esuli muralisti riuniti nella Brigada Pablo Neruda realizzarono un dipinto durante lo spettacolo. Facevano parte di quell’enorme esercito di volontari che aveva dipinto i muri di tutto il Cile. Fu la prima volta che il comune concesse l’Arena per uno spettacolo non lirico e migliaia di persone rimasero fuori perché si erano esauriti i posti all’interno.
(Immagine tratta da una pagina del sito internet della associazione ticinese degli insegnanti di storia)
In diverse occasioni mi chiamarono a intervenire sul Cile davanti ai lavoratori di Porto Marghera, alla Breda (ora Fincantieri), al porto, al Petrolchimico, alla Montefibre… Dovevo presentarmi fuori dai cancelli prima che iniziasse il turno delle sei. Ho ancora delle poesie ciclostilate regalatemi all’epoca da Ferruccio Brugnaro. C’erano operai che non parlavano l’italiano, era abbastanza comico perché gli dicevano: “Parla italiano al compagno cileno, altrimenti non capisce niente”. E loro ripartivano con due parole in italiano per tornare immediatamente al dialetto, sostenendo che tanto è uguale allo spagnolo. Cosa assurda, ma lo facevano con tutta l’intenzione di creare un ponte con me per avanzare assieme verso un ideale comune di società.
Parallelamente, ho lavorato in progetti legati al cinema che mi hanno portato a fondare il Festival del Cinema Ibero-Latino Americano di Trieste. Ormai nel magazzino del festival, che è qui a Marghera, ci sono più di 30.000 film. Per me è stato un modo di affrontare l’incertezza e lo sradicamento dell’esilio integrandomi nella società e nei dibattiti italiani senza voltare le spalle alla cultura cilena e latino-americana. Quando arrivai non c’era internet, non c’era neanche il fax, era difficile procurarsi giornali dall’estero e l’unica libreria con materiali in spagnolo era a Roma. Il cinema è stato un modo di rendere la mia identità culturale compatibile con il contesto in cui mi sono venuto a trovare.
Nota. Questo contributo è stato realizzato con l’appoggio della borsa di ricerca ECF-2020-004 della Leverhulme Trust. (l.f.)
PS. Lorenzo Feltrin si trovava in Cile quando ci ha mandato il testo, pochi giorni dopo lo svolgimento delle elezioni presidenziali e generali che si sono tenute il 21 novembre 2021. Riproduciamo qui di seguito la sua nota che accompagnava l’invio e ci introduceva al testo. (red)
Mi trovo al momento in Cile, paese che negli ultimi anni è tornato a far parlare di sé. La rivolta popolare del 2019, conosciuta come “estallido social”, ha aperto un processo costituente mirante a sostituire la Costituzione di Pinochet. In tale contesto, il trentacinquenne Gabriel Boric, ex leader del movimento studentesco, ha sconfitto l’apologeta della dittatura José Antonio Kast nel ballottaggio delle elezioni presidenziali, recuperando lo svantaggio registrato al primo turno. I legami tra il Cile e l’Italia risalgono all’emigrazione italiana in Sud America. Tuttavia, il golpe militare del 1973 ha generato un esodo in senso contrario di militanti in fuga dai sequestri, dalle torture e dagli omicidi dei generali appoggiati dagli Stati Uniti. La tragedia cilena fu molto sentita nel paese della strategia della tensione, basti pensare che nel 1976 gli Inti Illimani – esuli a Roma – si disputarono con i Pink Floyd il primo posto nella classifica dei dischi più venduti in Italia erano tra i primi posti in classifica dei dischi più venduti. Anche gli operai di Porto Marghera parteciparono alla campagna di solidarietà internazionale per il Cile. Nel corso delle mie ricerche, mi sono imbattuto in una storia di vita che collega direttamente Marghera e l’epopea dell’Unidad Popular, la traiettoria di Rodrigo Díaz, tuttora residente alla Cita e direttore artistico del Festival del Cinema Ibero-Latino Americano di Trieste. Il testo che segue è una breve rielaborazione di due lunghe interviste biografiche che ho realizzato con Rodrigo nel 2021.
Lorenzo Feltrin
- Il Movimiento de Izquierda Revolucionaria, ovvero Movimento della sinistra rivoluzionaria, aveva avuto rapporti tesi con il governo Allende e Unidad Popular. [↩]
- “Brigata muralista” cilena attiva dal 1968, che prende il nome da una giovane militante comunista uccisa durante una manifestazione a Santiago nel 1946; si veda https://www.antiwarsongs.org. [↩]