di Giacomo Dall'Agnol
La lettera di Enrico Zanette su san Nicola a Vittorio Veneto ha suscitato subito un altro intervento. Riceviamo da un nostro "lettore saltuario" (sperando che diventi un aficionado…) e subito pubblichiamo.
Cara redazione,
sono un vostro lettore saltuario: c’è un amico che mi avvisa quando esce qualcosa che mi potrebbe interessare. È il caso dell’articolo di Enrico Zanette, per cui vi scrivo, intanto perché mi ha suscitato molti ricordi e poi perché in genere mi piace osservare i riti e sono curioso di vedere come si modificano.
Mi è piaciuta prima di tutto la scelta di scrivere “Sannicolò” tutto attaccato. È così che la sentivo da bambino negli anni Cinquanta. Allora era tutto una parola, che si sentiva dire, i bambini non l’imparavano leggendo ma ascoltando.E nemmeno si scriveva: mi hanno raccontato che a un certo punto si sono cominciate a scrivere letterine a Sannicolò, ma quand’ero piccolo quest’uso non c’era , almeno a memoria mia: la letterina è arrivata solo con Gesù Bambìn, Babbo Natale e la Befana. Che noi sapessimo, Sannicolò non era un tipo studiato. Viaggiava con un asino, per cominciare: andava per le strade di notte. Gli preparavamo un po’ di fieno e un secchio d’acqua per l’asino, pòra bestia. Sarà troppo? troppo poco? ma se tutti i tosatèi del paese gli mettono del fieno, non gli sarà rimasta più tanta voglia di mangiare, giusto? Con questi interrogativi si aspettava la sera. A Sannicolò piaceva un bicchiere di vino rosso (che poi si diceva vin nero), e un pezzo di pane. O meglio una scodella di latte caldo? ma se poi si raffredda? Si lasciava il cibo per Sannicolò sulla tavola e quello per l’asino sul pavimento, all’entrata o in cucina. Poi si cercava una scarpa o uno zoccolo grande, per i regali. Io ero fortunato perché mio nonno aveva un piede fuori misura e si faceva fare scarpe e zoccoli dal calzolaio che abitava vicino a casa nostra. Si andava a letto presto. Guai farsi vedere, e guai anche vederlo, lui e il suo mussét, che per chi non è di quelle parti, è un diminutivo-affettivo per asino.
Sannicolò, dicevo, non era un tipo studiato: e non gli piacevano neanche tanto quelli che studiavano. C’era una filastrocca che diceva “Sannicolò da Bari / la festa dei scolari”, nel senso che quel giorno non si andava a scuola. Noi ci andavamo, ma i più vecchi di noi, che facevano la quarta o perfino la quinta, dicevano che gli scolari di una volta, il giorno Sannicolò, niente scuola. E lo dicevano con l’aria di dire: quelli sì che sapevano farsi valere! Ma noi ci limitavamo ad andare per strada cantando “Sannicolò da Bari / la festa dei scolari”, contenti perché quella mattina, saltando giù dal letto verso la cucina che era l’unica stanza con la stufa, correvamo ai regali, che erano arance, fichi secchi, carrube e cose del genere.
Però mi ricordo una volta una piccola barca di legno, pitturata di porporina, lasciata non dentro la scarpa, perché non ci stava, ma sul secèr, dove le donne portavano i secchi d’acqua presi dalla pompa fuori casa per lavare le stoviglie. Mi sono tanto stupito di trovare assieme al regalo una lettera in cui si diceva che la barchetta era per quando saremmo andati a Jesolo l’anno dopo. Sannicolò, uno che scriveva? Ma certo, si capiva che era poco abituato al pennino perché il foglio era pieno di sgorbi. Era la prima volta che si andava al mare ed ero molto curioso di vedere com’era fatto. E ancor più curioso ero nel voler capire in che modo Sannicolò fosse riuscito a procurarsi quella carta millimetrata per scrivere la lettera. La conoscevo perché era quella usata per misurare non so che cosa nella fabbrica di Portomarghera dove mio papà lavorava, e una volta me l’aveva portata a casa a far vedere, era come una striscia di carta oleata ma più fina, trasparente e di colore azzurro pallido, avvolta in un rotolo: prima di trasferirsi con la famiglia, mio papà dormiva da un affittacamere a Marghera e andava su è giù in Lambretta.
Si capiva, come ho detto, che Sannicolò era uno che scriveva malvolentieri. Non per niente la filastrocca parlava di festa dei scolari e minacciava di tagliare la testa a chi non la faceva. Io ricordavo solo i primi quattro versi, ma l’ho trovata per intero in un libro di Luigi Marson, uno studioso di folclore di Ceneda (cioè da dove vi ha scritto anche il vostro amico Zanette) vissuto tra la metà dell’Ottocento e la prima guerra mondiale. Il libro riporta anche la melodia “dedotta dalla memoria del revisore” Camillo De Biasi che qualche anno fa ha curato il volume (C. De Biasi, I canti popolari veneti di Luigi Marson, Dario De Bastiani, Vittorio Veneto 2000, p. 338). Ecco le parole: “Sa’ Nicolò de Bari, / la festa de i scolari; / e chi no’ farà festa / ghe tajarén la testa, / la testa sul tajèr, / le budele s’una stanga, / un ocio par banda”. (Sa’ Nicolo, e non San Nicolò: anche ai tempi di Marson il nome doveva essere sentito quasi un tutt’uno – Sanicolò – e con una sola n).
Tratto da Camillo De Biasi, I canti popolari veneti di Luigi Marson, Dario De Bastiani, Vittorio Veneto 2000, p. 338
Dove vivo adesso, vicino a Mestre, non posso osservare le trasformazioni della festa di Sannicolò, perché da quello che mi dicono, e anche da quello che ho letto in un altro articolo nel vostro sito, che però ormai ha 15 anni, qui la festa non l’hanno mai conosciuta. Nel libro dei canti popolari che ho appena citato, una nota di Luigi Marson dice che si tratta di “una costumanza che troviamo anche nel Friuli, mentre pare non esista oltre il Piave, per esempio a Venezia” (p. 338). Parlo del passato, perché mi è capitato giusto ieri di parlare con un signore rumeno che vive e lavora a Mestre, e che mi ha detto che i romeni festeggiano San Nicolae proprio come ricordo anch’io. Da loro non c’è l’asino, ma c’è una filastrocca e i bambini mettono le scarpe e aspettano i regali. Saranno loro, chissà, a portare Sannicolò a Mestre?
Associandomi all’augurio che avete lanciato nel sito (liberate Sannicolò e i bambini!), vi mando questa lettera sperando che vi possa interessare.
Giacomo Dall’Agnol