di Albarosa Ines Bassani
Suor Pier Damiana nel 1944 si trovava nell’istituto San Filippo di Venezia, dipendente dalla casa delle Suore Maestre di Santa Dorotea di Vicenza. Riprendiamo alcune pagine a lei dedicate dal recente libro di suor Albarosa Ines Bassani, Le suore della libertà. Tra guerra e resistenza (1940-1945) (2020), che documenta attività di soccorso a favore di donne ebree e perseguitate politiche prestate dalle suore dorotee durante la Seconda guerra mondiale. Ce le ha segnalate il nostro socio e amico Elvio Bissoli, come occasione per riflettere sui temi della Resistenza civile, del rapporto tra obbedienza e scelte di coscienza, delle reti di relazione e della fiducia (cercare aiuto bussando a una porta con una lettera di presentazione, senza certezza sull’esito di quel gesto).
Era successo dieci anni prima, nel 1944. Con fatica aveva tentato di rimuovere il ricordo di quell’angoscia terribile, e ora che si trovava da due anni nella Casa Madre di Vicenza, come responsabile del laboratorio di paramenti sacri, non capiva perché le avevano mandato quella grande busta. Conteneva una lettera del presidente della Comunità Israelitica di Venezia, datata 24 ottobre 1955, e un cartiglio disegnato a matita, intitolato “Certificato di riconoscenza”. Nell’aprile di quell’anno l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane aveva conferito la medaglia d’oro a ventitré persone scelte tra quelle che avevano rischiato la vita per salvare gli ebrei negli anni della persecuzione. Ma ne rimanevano fuori tante, e poiché quelle segnalate dalle varie Comunità o da singoli ebrei erano numerosissime, il Comitato centrale aveva istituito un Certificato di riconoscenza, a ricordo “del bene che, fra tanto male, è stato compiuto in quei tristissimi anni”1.
Si chiamava Antonia Cadorin ed era nata a Istrana di Treviso nel 1903. A ventiquattro anni, non proprio giovane per quel tempo, era entrata tra le Dorotee di Vicenza e aveva pronunciato i voti con il nome di suor Pier Damiana. Bravissima a ricamare e a cucire, era stata nominata superiora in diversi asili del Veneto, dove aveva insegnato nelle scuole di lavoro per le ragazze. Nel 1940 […] fu trasferita a Venezia, nell’Istituto San Filippo, in sestiere Dorsoduro, vicino alla chiesa dell’Angelo Raffaele. Era un grande convento appartenuto in antico alle pizzocchere (o pinzochere) di san Francesco, poi alle suore Oblate di san Filippo Neri e dal 1903 alle Dorotee di Vicenza. Accanto alla scuola materna e al doposcuola, le suore fondate da Giovanni Antonio Farina avevano aperto un laboratorio di ricamo e di merletti per ragazze sordomute senza famiglia, che lavoravano su ordinazione dei negozi e delle famiglie della città.
[…] Le tre donne che aveva nascosto erano le due vicentine Laura Lattes e Lina Cantoni, e la trevigiana Marta Minerbi di Mogliano Veneto. […]
La prima ad arrivare, il 26 novembre 1943, fu Laura Lattes2. L’aveva mandata la madre generale, su raccomandazione di don Lidio Canova, professore di Lettere nel Seminario Vicentino. Pochi giorni prima la generale aveva chiamato suo Pier Damiana a Vicenza per darle alcune istruzioni riservate che non era prudente comunicare per lettera. Le chiedeva di accogliere “una scrittrice ebrea” – non aveva aggiunto altro – e di preparare tre stanze in una zona appartata della casa, in modo che le mamme dei bambini, e specialmente le ragazze sorde, “molte curiose”, non si accorgessero della sua presenza3. Laura arrivò accompagnata dal marito, il pianista Tiberio Tonolli, che non era ebreo. Alla superiora quella signora di cinquant’anni, gentile ed educata, fece subito una bella impressione. Si mostrò soddisfatta dell’appartamento e volle pagare in anticipo venticinque lire al giorno. Aveva portato con sé un po’ di zucchero, pasta, olio, lardo e la tessera del pane della sua cameriera. Suor Pier Damiana assegnò una suora al suo servizio e cercò di usarle ogni attenzione, sperando che riuscisse ad abituarsi a quella vita da reclusa. Nei primi giorni, infatti, l’aveva trovata più volte a piangere4.
Pochi giorni dopo, il primo dicembre, bussò alla porta una donna che si presentò con una lettera in mano, chiedendo della superiora. Era la quarantottenne Marta Minerbi, direttrice didattica a Mogliano. Dopo le leggi razziali si era trasferita a Venezia, insieme al marito, Alessandro Ottolenghi, professore di Chimica e Matematica5. In quei giorni Marta stava sfuggendo dalla Questura che la ricercava. La retata degli ebrei di Venezia, infatti, sarebbe avvenuta nella notte tra il 5 e il 6 dicembre. La Minerbi aveva chiesto inutilmente ospitalità a diversi conventi di Venezia. Alla fine si era rivolta monsignor Giuseppe Scarpa, parroco della chiesa di San Salvatore6, che l’aveva indirizzata all’Istituto delle Dorotee: conosceva bene la superiora, e poi, disse, “le sordomute non parlano!”. Suor Pier Damiana non era stata avvertita, e quando lesse il biglietto del sacerdote ebbe un momento di perplessità. Alle suppliche angosciose della donna che ripeteva “Mi salvi, mi salvi!”, rispose: “Non l’abbandono, no, ma si calmi. Ce n’è un’altra qui, una scrittrice mandata dalla madre generale”, e aggiunse: “Devo sentire se la signora è disposta a cederle una stanza”. Ritornò dopo poco sorridendo e la invitò: “Venga pure”. […]
Le due donne divennero subito amiche. Marta aveva un gran bisogno di parlare, parlare, per scaricare la tensione e la paura della fuga. Laura ascoltava tranquilla, ricamando il “punto a giorno” nell’orlo di un fazzoletto dietro l’altro. La superiora consegnò a ciascuna una tessera annonaria che indicava la loro nuova identità: Marta era suor Andreina De Paoli, una dorotea morta nel gennaio precedente; Laura era suor Alice Bonato, una giovane studente dell’Accademia di Belle Arti, che a causa della guerra era rientrata in Casa Madre. La madre generale aveva lasciato la tessera di suor Alice alla superiora, dicendo che a Vicenza, con seicento suore, una carta annonaria in meno contava poco. […] Accanto al letto di ciascuna la superiora aveva messo, ripiegati accuratamente sulla sedia, i vestiti da suora da indossare velocemente in caso di ispezioni notturne: l’ampia camicia di canapa, con le lunghe maniche e la scollatura larghissima che si doveva adattare al collo stringendo una fettuccia, il fazzolettone triangolare da incrociare appuntato sopra la scollatura, la cuffietta bianca da notte. In caso di ispezione diurna erano pronti, sull’attaccapanni, la lunga veste nera dalla ricca gonna, l’ampio grembiule, lo scialle e la cuffia di seta con l’arricciatura in tulle che le suore chiamavano “camuffo”. Si erano tolte con dispiacere la fede matrimoniale, sostituendola con l’anello d’argento delle suore.
[…] La terza ospite entrò nella stanza con l’aria trasognata. Camminava tenendo un ampio feltro azzurro, sull’altro braccio, ripiegato, aveva un plaid, che non abbandonò mai, neppure nei momenti più difficili. La zazzeretta rivelava la recente opera del parrucchiere, gli occhi erano bistrati, gli zigomi rosei di belletto, le labbra rosso vivo. “Signora Lucia!” esclamò la Lattes, riconoscendola. “Non mi chiami Lucia, rispose, ho una carta d’identità falsa. Io solo Luisa Fineschi, si ricordi”.
La nuova arrivata era Lina Cantoni, persona molto nota nella Vicenza elegante. Aveva sposato il primario di Pediatria dell’ospedale, dottor Edoardo Orefice, cugino del noto musicista Giacomo. Quando era entrata, la Lattes l’aveva chiamata erroneamente con il nome della sorella Lucia, moglie del musicista. I due cugini Orefice avevano sposato le due sorelle Cantoni: Lina e Lucia […].
Lina Cantoni aveva sessantatré anni, ma appena truccata alla mattina non ne dimostrava più di quaranta. “Pensate che mi hanno preso per l’amante di mio figlio”, diceva alle compagne con orgoglio. […] Parlava tre lingue, francese, inglese e tedesco, dipingeva e amava fare fotografie. Descriveva alle due compagne i numerosi concerti di beneficenza nei quali si era esibita al pianoforte insieme ai figli Silvano, pianista, e Mario violinista. Aveva musicato in quattro poemetti i versi di Rabinadrath Tagore, pubblicati a Milano nel 1920, con una sua fotografia e una dedica autografa […].
Una mattina, era verso la metà di marzo, suor Pier Damiana, al solito così calma, si presentò piuttosto agitata: i tedeschi avevano perquisito alcuni conventi della città. Qualche settimana prima il sacerdote direttore della scuola elementare dell’Angelo Raffaele era stato arrestato, e ora i nazifascisti avevano setacciato il convento dei padri Cappuccini della Giudecca, in cerca di persone nascoste. La madre generale era molto preoccupata perché con la sua iniziativa aveva messo in pericolo la vita delle ragazze e delle suore7. La superiora cercò di spiegarlo alle ospiti: “Se si trattasse solo di noi suore… – disse – ma siamo preoccupate per le sordomute”, poi aggiunse: “Bisognerebbe trovare un altro rifugio; magari in case private. Non è più prudente per voi restare qui”. […]
Laura Lattes lasciò il convento delle suore il 6 aprile 1944, accompagnata dal marito che la portò a Padova nell’appartamento che la famiglia Chilesotti di Thiene aveva prestato a M. Elisa Vaccari (Lisa), allora fidanzata a Basilio, fratello del noto partigiano Giacomo Chilesotti. […] Negli stessi giorni partì anche Lina Cantoni8. Se ne andò in anticipo, senza aspettare il figlio che doveva venirla a prendere a Venezia. La superiora l’affidò a una signorina che la condusse fino a Bassano. Durante il viaggio, con le sue paure, Lina destò molti sospetti nella sua accompagnatrice che, per fortuna, non sapeva di viaggiare con un’ebrea ricercata dalle SS. Si incontrò con il figlio che l’accompagnò a Montepulgo, sui colli vicentini, nella casa delle suore di Maria Bambina, dove si trovava il marito con il resto della famiglia Orefice9.
Marta affittò un appartamento a Venezia. Non voleva allontanarsi dalla città, sperando di avere notizie del marito arrestato. Salutandola, la superiora disse: “Ho preparato per lei un po’ di roba, così per qualche giorno non dovrà uscire per la spesa. Ci sono anche due scatole di latte condensato e la tessera per il pane. Ogni sabato sera passi a ritirare la carne per la settimana” […]. Poche settimane dopo Marta venne a sapere che gli ebrei arrestati erano stati fatti partire per un campo di concentramento “in Alta Italia”. Non sapeva ancora che il professore Alessandro Ottolenghi era stato deportato con tutti gli altri ad Auschwitz, da dove non sarebbe più ritornato.
Ora che nessun legame la tratteneva più a Venezia la Minerbi decise di partire per Milano, correndo il grosso rischio di venire riconosciuta. Prima di partire ritornò a salutare suor Pier Damiana. Stava ancora suonando il campanello, quando una mano l’afferrò e la portò dentro, richiudendo in fretta il portone. Era la superiora, sconvolta: “Presto, presto, scappi! Vada per Fusina, non prenda il treno. La Questura ha preso la signorina – quella a cui Marta aveva consegnato una lettera –, l’ha interrogata per ore. Presto, vada!”. […] L’afferrò per mano e la spinse fuori: “Presto, presto, vada!”. La donna guardò la suora, pallida come una morta: “Passi per il ponte qui davanti! Non vada a sinistra, per l’amor di Dio! E a Fusina, subito, parta con la corsa Veneta. Gesù la protegga”. La spinse, quasi la buttò fuori. Marta non ebbe il tempo di dirle grazie, e si trovò sulla strada. Attraversò il ponte di corsa, ma poi rallentò, continuando a camminare con passo normale, per non attirare l’attenzione. Era atterrita, il cuore le batteva all’impazzata. Si chiedeva come la Questura avesse scoperto la lettera che lei aveva mandato all’avvocato di Treviso: voleva avvertire suo marito della partenza, nel caso fosse ritornato libero. Ora ritorneranno in convento e arresteranno la superiora? […] Arrivata a Padova, appena scesa alla stazione infuriò un terribile bombardamento. Quando le bombe cessarono, Marta telefonò a Cesarina Lorenzoni10, un’amica di Laura che era venuta a trovarla al convento di Venezia. Le chiese l’indirizzo dell’appartamento dov’era rifugiata la Lattes: piazzale Pontecorvo n. 7. Marta consegnò alla Lorenzoni i pochi valori che era riuscita a portare con sé, salutò Laura Lattes e corse alla stazione. Riprese un altro treno accelerato, e dopo molte ore raggiunse Milano e proseguì verso il Lago Maggiore. A Cannobio si recò al convento delle monache Benedettine dove era sfollata la mamma con gli altri famigliari.
Solo a guerra finita, quando ritornò a Venezia per ringraziare le sue salvatrici, Marta venne a sapere che “la sua superiora” era stata portata in Questura e interrogata a lungo. Ma era riuscita convincere i nazisti della sua innocenza e non venne arrestata. Le aveva salvate per un soffio!
Pergamena rilasciata dalla Comunità Israelitica di Venezia a suor Pier Damiana Cadorin, 24 ottobre 1955
(in Archivio Istituto Farina, Vicenza, riprodotto in Bassani, Le suore della libertà cit., p. 96)
Nota. Brani tratti da Albarosa Ines Bassani, Le suore della libertà. Tra guerra e resistenza (1940-1945), Gaspari, Udine 2020, pp. 95-114. Il libro si basa sulle carte archivio dell’Istituto Farina di Vicenza, che conserva lettere, diari, cronache e resoconti provenienti dalle Case filiali delle Suore Maestre di Santa Dorotea in Italia e all’Estero; nei primi anni Duemila suor Albarosa raccolse e registrò interviste di consorelle che nel periodo della seconda guerra mondiale erano giovani suore.
La presenza di parroci entra nel racconto della Resistenza italiana fin dal film Roma città aperta di Rossellini (1945) con la figura di don Pietro; l’anno dopo il film, sempre su tema resistenziale, Un giorno nella vita, di Alessandro Blasetti (1946), è ambientato in un convento di suore di clausura.
Sul rifugio offerto a Roma a ebrei e antifascisti “nei collegi e nei seminari pontifici, nei conventi e nelle case parrocchiali e nelle abitazioni private dei sacerdoti, nelle case generalizie, negli ospedali e nelle cliniche gestite da enti religiosi, nelle sedi delle diverse associazioni, nei reticoli delle catacombe, persino nei conventi femminili tacitamente dispensati dalla regola di clausura” rinviamo anche a Enzo Forcella, La resistenza in convento, Einaudi, Roma 1999 (la cit. a p. 64).
Si pensi anche alla pagina in cui Fenoglio racconta l’episodio in cui due partigiani, di cui uno ferito, viene nascosto nei sotterranei di un ospedale (“vi giaceva già una quantità di partigiani”) da una suora “secca e forte, occhialuta, efficiente, e corazzata di cuore, operante ed incommentante”, che faceva da dottore dove “non c’erano dottori”. Johnny osservò “il sotterraneo, basso e medievale, gelido ed asfittico, con appena una lampada a carburi sul fondo”, e gli sembrò che “tutto l’odore d’acido fenico nell’inodore ospedale si fosse concentrato, rappreso nella rigida sottana della suora”. Uscendo all’aperto, Johnny fu accompagnato da un’altra suora – loquace a differenza della prima – che parlava “dei tedeschi in termini disarticolati ma certamente ammirativi” (Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, in Id., Romanzi e racconti, a cura di Dante Isella, Einaudi-Gallimard, Torino 1992, p. 554).
Tra le varie testimonianze riportate da suor Albarosa Ines Bassani nel suo libro, ci sono alcuni versi di Neri Pozza, scritti alla notizia della morte di suor Demetria Strapazzon, nel 1976. Neri Pozza l’aveva conosciuta da prigioniero politico nelle carceri vicentine di San Biagio, per lui era Suor Demetria della prigione: “Suor Demetria, ti chiamavano la volpe / quando sventolando le gonne come vele nere / correvi di notte lungo le sezioni / portando soccorsi, e mandavi il profumo / selvatico di muschio e di zibetto / della nostra libertà” (Bassani, Suore cit., p. 115).
Come suggerisce Elvio Bissoli nella sua recensione apparsa di recente su “Quaderni Vicentini” (2020, n. 3, pp. 67-74), Suore della libertà è un’occasione per riflettere sui temi della Resistenza civile, del rapporto tra obbedienza e scelte di coscienza (che, fa notare Bissoli a volte “confliggeva non poco con lo spirito di obbedienza dovuto alle Superiori maggiori”, p. 68).
Queste vicende invitano anche a ragionare in primo luogo sui dilemmi interiori degli individui che – oltre a muoversi all’interno del secolare dualismo tra Stato e Chiesa cattolica – si trovano stretti tra sistemi normativi non coerenti e in conflitto tra di loro, come accadde nel corso della guerra civile e dell’occupazione nazista; in secondo luogo sul ruolo delle reti di relazione e della fiducia reciproca, in circostanze in cui gli individui non conoscono – e non può essere diversamente – l’esito delle proprie azioni. (red.)
- Cfr. il certificato di riconoscenza con la lettera accompagnatoria 24 ottobre 1955, del presidente della Comunità Israelitica di Venezia Vittorio Fano, in AIF [Archivio Istituto Farina], Persone, al nome “Suor Pier Damiana”. […]. [↩]
- Laura Lattes nacque a Venezia nel 1893, si trasferì a Vicenza nel 1900, dove conseguì il diploma magistrale. Laureatasi in Lettere a Firenze. Insegnò in varie città italiane. Nel 1934 ritornò a Vicenza, docente all’Istituto magistrale “Don Fogazzaro”. […] A seguito delle leggi razziali, nel 1938 fu allontanata dall’insegnamento e costretta a insegnare nella “scoletta ebraica” di Padova e di Venezia. Dopo la guerra ritornò a Vicenza, dove riprese a insegnare fino alla pensione; morì a Vicenza nel 1978. […]. [↩]
- Nella Cronaca della casa suor Pier Damiana scrive: “24 novembre 1943. Per ordine della Rev.ma Madre sono stata un Casa Madre avendo ella da comunicarmi certi affari che non era prudente farlo per lettera dato che ora c’è la censura”, AIF, Case filiali, b. “Venezia, Istituto S. Filippo”. [↩]
- Cfr. la lettera 28 novembre 1943 di suor Pier Damiana alla madre generale, AIF, Case filiali, b. “Venezia. Istituto S. Filippo”. [↩]
- Marta Minerbi nacque nel 1895 a Quarto di Genova, nel 1936 fu nominata direttrice didattica a Mogliano Veneto; nel 1928 aveva sposato Alessandro Ottolenghi, professore di Chimica e Matematica. In seguito alle leggi razziali nel 1938 dovette abbandonare la sede e si trasferì con il marito prima a Milano, poi a Venezia, dove insegnò nelle scuole dei ragazzi ebrei. Il marito venne denunciato e arrestato nel 1944, e quindi deportato dai tedeschi ad Auschwitz. Dopo la guerra nel 1945 la Minerbi riprese il suo incarico nella Direzione di Mogliano, fino alla pensione. Morì a Torino nel 1974. Cfr. La colpa di essere nati. Marta Minerbi e Alessandro Ottolenghi ebrei cittadini trevigiani, a cura di Ernesto Perillo, Istresco, Treviso 2011. Da qui in avanti i particolari sulla permanenza delle tre donne ebree a Venezia sono tratti dal romanzo di Marta Ottolenghi Minerbi, La colpa di essere nati, Gastaldi, Milano 1954, ristampato a Treviso, dall’editore Devanzis nel 2012, con introduzione di Sergio Minerbi, scrittore e diplomatico, già ambasciatore d’Israele presso la Comunità Europea. [↩]
- Mons. Giuseppe Scarpa, parroco di San Salvatore in Venezia, fu un sostenitore del P.P.I. e delle leghe bianche, “aggiornatissimo professore di scienze di innegabile ortodossia, assistente ecclesiastico di universitari e laureati cattolici fra il 1924 e il 1949, viene ricordato come maestro di antifascismo”. Cfr. Loredana Nardo, Il tessuto cattolico, in Storia di Venezia: l’Ottocento e il Novecento, 2, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2002, pp. 1523-1580. [↩]
- Cfr. la lettera 15 marzo 1944 della superiora alla madre generale, AIF, Case filiali, b. “Venezia, Istituto S. Filippo”. [↩]
- Cfr. ibid. [↩]
- Dopo la guerra il dottore Edoardo Orefice si convertì al cattolicesimo, e nel 1948 ricevette il battesimo dal vescovo Carlo Zinato, nella chiesetta della Casa della Provvidenza delle suore di Maria Bambina, in via S. Domenico a Vicenza. […]. [↩]
- Cesarina Lorenzoni abitava a Padova in via Umberto I, poco lontana da piazzale Pontecorvo; era maestra e aveva l’abilitazione per insegnare lingua italiana, francese e pedagogia didattica. Scrisse vari libri di letteratura per l’infanzia e numerosi articoli che pubblicò nella rivista “Padova e la sua provincia” e ne “Il Giornalino della domenica”, settimanale per bambini edito a Firenze. [↩]