di Piero Colacicchi
In occasione dell’anniversario dell’esecuzione di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (22 agosto 1927), riprendiamo il saggio scritto da Piero Colacicchi per accompagnare la prima edizione italiana del pamphlet che John Dos Passos compose nel 1927 per conto del Comitato di difesa Sacco e Vanzetti, tentando un’ultima mobilitazione dell’opinione pubblica che permettesse almeno di ottenere un nuovo rinvio dell’esecuzione. È il modo che abbiamo scelto per ricordare il nostro amico Piero, che se n’è andato l’11 agosto scorso. I lettori del sito hanno avuto modo di conoscerlo un po’ in questi anni: l’ultimo suo intervento risale al maggio scorso, un “oggetto”, il ritratto della tata russa, Duniascia, eseguito da sua madre, Flavia Arlotta.
«Il carcere è quel posto in cui perdi ogni rispetto per la legge. Ciò accade perché la vedi in tutta la sua crudezza, nuda, distorta, piegata, ignorata, gonfiata oltre ogni proporzione per andar bene a coloro che la mettono in pratica.»1
Le vicende del processo a Vanzetti e a Sacco sono ben note. Da queste sono nati anche un film, un’opera teatrale, molte canzoni – tra cui quelle famose di Woodie Guthrie e di Joan Baez ed Ennio Morricone – innumerevoli libri, articoli, poesie2. All’epoca il processo ebbe un’immensa eco di stampa a livello internazionale. Il Comitato di difesa Sacco e Vanzetti raccolse più di 200.000 dollari – il che non è poco se si tiene conto che il salario di Sacco, operaio specializzato in fabbrica al momento dell’arresto, era di circa 3.600 dollari l’anno. Al loro fianco, oltre a Dos Passos, in una serie di appelli, si schierò il fior fiore degli intellettuali di tutto il mondo.
La questione comportava, si può dire, tre aspetti di particolare importanza: l’aspetto giuridico, quello ideologico (si trattava di «rossi», di anarchici dichiarati)3 e quello politico come scontro di tradizioni e di interessi.
Dal giorno dell’esecuzione gli studi giuridici sul caso si sono susseguiti negli anni fino ai giorni nostri con risultati a dir poco insoddisfacenti: Sacco e Vanzetti innocenti… Sacco e Vanzetti colpevoli… Sacco unico colpevole… Vanzetti unico colpevole.
La questione ideologica è, notoriamente, ancora molto viva nella mente dei militanti. Per gli anarchici, e, in genere, per gran parte delle sinistre – come si vede dal Dos Passos che presentiamo – si è trattato di un processo politico e poi dell’assassinio legalizzato di due innocenti.
Il terzo punto riguarda la situazione politica che Vanzetti e Sacco trovarono al loro arrivo negli Stati Uniti. Chi partiva dall’Europa e traversava l’oceano lo faceva, malgrado l’angoscia, la tristezza, i rischi che ciò comportava, perché spinto da un sogno: sognava l’«America», una sorta di Terra Promessa in cui tutti potevano lavorare, far quattrini e così uscire dalla povertà, dallo stato di servitù, dall’impossibilità di immaginare un futuro. Un sogno immediato, semplice, individuale, non del tutto sovrapponibile a quel «Sogno Americano», l’American Dream, continuamente ricordato negli Stati Uniti, che è piuttosto la metafora di un progetto politico di eguaglianza attraverso il lavoro, per chi vive nel Nuovo Mondo, quale che sia la sua condizione alla nascita: un ideale liberale di emancipazione dalle strutture sociali chiuse, delle «caste», lasciate nei paesi del Vecchio Mondo. L’ideologia è smentita, allora come oggi, dalla realtà dei fatti. Le si contrappone, già nel Dos Passos, la vicenda drammaticamente reale di Vanzetti e di Sacco, e le si contrapporranno, dopo gli anni ’50, il sogno di Martin Luther King di un paese senza barriere razziali («I have a dream!») e il brusco risveglio di cui scriverà James Baldwin, l’alba che ancora vede uomini e donne neri in catene, rivolgendosi ad Angela Davis da poco arrestata4. L’American Dream, dimostrerà in sostanza Baldwin nei suoi libri, è un progetto privo di valore, irrealizzabile, sia perché basato soltanto sul concetto di profitto, sia perché il razzismo taglia fuori quasi un terzo degli americani dal poterne godere: una parte dei bianchi e tutti i neri.
Gli italiani facevano parte di quelli tagliati fuori. L’«America» sognata da chi partiva dall’Italia era infatti ben diversa dalla realtà che essi trovavano negli Stati Uniti. Già dal momento in cui mettevano piede in terra ferma essi non erano più italiani, persone come tutte le altre, ma, come racconta Vanzetti, esseri subumani, trattati come «uno stupido animale».
Scriveva Vanzetti in una sua autodifesa pubblicata nella speranza di poter riaprire il processo: «Il fatto che io vivessi in una comunità di italiani e che in quel giorno, a quell’ora, in quel preciso minuto mi trovassi tra loro a vendere le anguille e i pesci che mi avevano ordinato, proprio questo al processo mi fu estremamente contrario: poiché spinse tutti quegli italiani a testimoniare in mio favore. E fu proprio il fatto che si trattasse di italiani ciò che indusse i giurati americani, carichi di pregiudizi razziali, religiosi, politici ed economici, pieni di odio contro tutti gli italiani e i democratici intransigenti, a non volere, a non poter credere, alle loro parole»5.
Gli fa eco un manualetto distribuito all’epoca dal Comitato di difesa Sacco e Vanzetti: «La presunzione di innocenza nei confronti del detenuto evapora in mito, nelle aule di giustizia di questi Stati Uniti, quando il detenuto finito alla sbarra sia nero nel Sud o straniero nel Nord […]. Così come l’accusa di violenza sessuale, se mossa contro un nero, spinge le giurie e i branchi di linciatori del Sud ad agire immediatamente, nello stesso modo, quando l’accusa di omicidio cade su di un appartenente alla razza mediterranea, le giurie del Nord omettono di esaminare le leggi e le prove in maniera imparziale»6.
In effetti gli immigrati italiani su cui cadeva il sospetto di reati, e che erano spesso poverissimi e ignoranti della lingua e delle norme americane (Sacco imparò l’inglese in carcere) venivano spesso condannati in base a prove raccozzate e in un’atmosfera di sospetto generalizzato, per non dire di aperto razzismo, contro «gli immigrati» e in particolare «i latini». I «dagoes», i «wops» (misto della sigla W.O.P. – Without Official Papers, cioè clandestini – e della parola guappo) erano spesso equiparati tout court a «rossi». Si trattava della stessa atmosfera in cui si sviluppò il processo a Sacco e a Vanzetti, e che ebbe un peso determinante sulla loro condanna a morte, con la differenza che, contrariamente a quanto accadde loro, di tutti gli altri nessuno ha parlato o parla.
Un importante indicatore delle condizioni dei nuovi immigrati in paesi stranieri – dei livelli di accoglienza, della forza dei pregiudizi, dei conflitti – è proprio il carcere, inteso non solo come periodo di internamento, ma come percorso complessivo che inizia dalla condizione di sospetto, prosegue attraverso il processo e finisce con la fine della pena, o con l’uccisione. Per quanto riguarda il periodo in questione ci vengono incontro due libri importanti e ben documentati, usciti recentemente in America, sulla questione della pena di morte nello stato di New York. Si tratta di Condamned. Inside the Sing Sing Death House (2000) e di Innocent. Inside Wrongful Conviction Cases (2004), entrambi di Scott Christianson, docente all’università di Albany, New York7.
Nel primo studio, il più impressionante anche perché provvisto di moltissime foto dei condannati, ci viene fornito l’elenco completo delle esecuzioni eseguite a Sing Sing dalla prima, avvenuta nel 1891, anno di inaugurazione della sedia elettrica8, all’ultima, del 1963: 606 uomini e 8 donne9. Di questi, ben 121 portavano nomi italiani10. Nel periodo 1920-1927, cioè da quando furono arrestati a quando furono uccisi Sacco e Vanzetti, le esecuzioni di italiani nel solo carcere di Sing Sing furono 25 su 107. Nel 1912, su un totale di 15 esecuzioni, 10 furono quelle eseguite su italiani. E questo a fronte di una popolazione di italiani che in tutti gli Stati Uniti contava, all’epoca, poco più di 800.000 persone.
«Tra le persone mandate a morte vi era un certo numero, difficile da determinare, di innocenti […]. Alcuni di questi furono incastrati o costretti ad auto accusarsi, altri fregati da avvocati pigri e incapaci», scrive Scott Christianson. Si sottolineano i casi di Frank Cirofaci e Charles Sberna, uccisi rispettivamente nel 1914 e nel 1939, sempre proclamatisi innocenti e oggi ritenuti tali dalla maggior parte degli studiosi.
È venuto da poco alla luce – grazie anche alle infaticabili ricerche di Christianson – un altro episodio, senza dubbio il più grave: quello di sei italiani (Santo Zanza, di 25 anni; Lorenzo Liborio Cali, di 26; Vincenzo Cona, di 22; Filippo De Marco, di 25; Salvatore De Marco, di 28; Angelo Giusta, di 22) che furono condannati a morte dopo un mese dall’arresto, in base a una confessione estorta con la tortura. Cinque furono uccisi nello stesso giorno (12 agosto 1912). Eseguita la sentenza, i corpi furono messi in mostra a pagamento11. Sulla loro colpevolezza vengono oggi sollevati seri dubbi. Se risulteranno fondati si potrà parlare di un vero linciaggio legalizzato.
Di questo clima così pesante in Italia si comincia da poco a parlare – spesso in contesti puramente nostalgici e nazionalisti –, mentre delle singole vittime non si sa niente. Ma forse non se ne vuol neppure sapere per non rischiare imbarazzanti ammissioni anche su quanto l’atmosfera di sospetto, per non dire di razzismo, che esiste oggi in Italia, e che è sempre stata negata da buona parte delle sinistre quanto delle destre, abbia influito e influisca sulla sorte degli immigrati e dei rom nel nostro paese al momento in cui si trovino a dover affrontare un processo. Una lettura dell’Inchiesta sulle carceri italiane pubblicata a cura dell’associazione Antigone nel 200212 può chiarire molti aspetti di quanto appena detto.
In quel «gioco di scacchi», che tendono a essere i processi, spesso «assurdo quanto lo potrebbe essere, per uno che non sa neanche le regole, mettersi a giocare […] bendato», là dove giudice, accusa, e regole rappresentano gli interessi sociali ed economici delle classi dominanti, una benché minima difficoltà nell’organizzazione della difesa, affermava il Dos Passos di Facing the Chair, può portare al patibolo chi sia privo di potere, anche se innocente e perfino se appoggiato da una campagna politica efficiente come quella messa in piedi nel caso Sacco e Vanzetti.
Ma le cose sono oggi così diverse? No. Jeffrey H. Reiman, nel suo studio sulla giustizia criminale negli Stati Uniti (dal titolo significativo: I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri vanno in carcere) scrive, citando un altro importante studioso, Stephen Gettinger: «Una difesa inadeguata» risultato delle condizioni di povertà degli accusati, «è la caratteristica ricorrente di tutte le condanne a morte. Coloro che rischiano la pena di morte si presentano in tribunale come creature impossibili da capire, virtualmente imbavagliate e mascherate, già pronte per l’esecuzione»13. Negli Stati Uniti di oggi, le condanne, le carcerazioni e le esecuzioni riguardano principalmente bianchi poveri, neri e persone di recente immigrazione oltre che, recentemente, musulmani, perché in tutti i suoi tribunali sono ancora in funzione gli stessi meccanismi. E ciò avviene anche in Italia, aggiungiamo noi, ricordando ancora il rapporto di Antigone – senza, fortunatamente, l’orrore della condanna a morte.
Nota. Il saggio di Piero Colacicchi è uscito per la prima volta in John Dos Passos, Davanti alla sedia elettrica. Come Sacco e Vanzetti furono americanizzati [or. Facing the chair. Story of the americanization of two foreignborn workmen], a cura di Piero Colacicchi, collana “Il risveglio” (n. 17), Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere pp. 205-215. Il libro ha poi avuto una seconda edizione nel 2007 presso lo stesso editore (collana “I saggi”, n. 1, con una introduzione di Francesco Durante, il saggio di Colacicchi alle pp. 189-197). In entrambi i casi uscì con il semplice titolo Postfazione, lo ripresentiamo ora sotto un titolo redazionale.
Piero Colacicchi, nato a Firenze nel 1937, scultore e docente d’arte negli Stati Uniti e all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, è stato sempre un militante nella difesa dei diritti civili delle minoranze, in particolare dei rom e dei sinti. È stato presidente dell’Associazione per la difesa dei diritti delle minoranze (Firenze), ha collaborato con l’European Roma Right Centre, è stato tra i fondatori, nel 2005, e primo presidente di osservAzione (centro di ricerca azione contro la discriminazione di rom e sinti). Ha agito inoltre a lungo nell’ambito della non-psichiatria, collaborando con Giorgio Antonucci, a cui era legato da amicizia fraterna (tra le altre cose, Piero gli dedicò il saggio che ripresentiamo qui).
È facile trovare in rete tracce concrete e testimonianze sull’attività di Piero. Anche sul nostro sito il suo nome ricorre: solo per ricordare gli ultimi interventi, in maggio abbiamo pubblicato un suo “oggetto” (il ritratto della tata russa, Duniascia, eseguito da sua madre, Flavia Arlotta); a febbraio aveva commentato l’articolo di Enrico Zanette sul Centro di salute mentale di Vittorio Veneto. Ma si può andare molto indietro: nel 1998 aveva portato con sé Filippo Benfante, in una sua visita urgente al campo rom dell’Olmatello, a Firenze; nel 1996 aveva contribuito al volume L’urbanistica del disprezzo, a cura di Piero Brunello, pubblicato da manifestolibri.
Rimandiamo ancora ai ricordi pubblicati dalla rivista Altracittà di Firenze; a quello scritto da Nando Sigona, studioso dei temi delle migrazioni e dei diritti delle minoranze e membro del collettivo di osservAzione; infine ad alcuni articoli composti nella tarda primavera del 2014 dalla scrittrice e giornalista Sandra Bonsanti, in vista del settantesimo anniversario della Liberazione di Firenze, in cui si ritrovano anche l’allora piccolo Piero e la sua famiglia (pubblicati sull’edizione fiorentina di Repubblica tra il 25 aprile e il 13 giugno 2014, si leggono ora presso il sito dell’associazione Libertà e Giustizia: Settant’anni fa i giorni terribili della battaglia per Firenze; Prima della battaglia; E finalmente suonò la Martinella; in questi articoli Sandra Bonsanti, amica di Piero sin da bambina, fa riferimento anche ad alcuni ricordi di Flavia Arlotta Colacicchi, pubblicati di recente: Ricordi 1942-1945, a cura di Piero e Francesco Colacicchi, Firenze 2012, edizione fuori commercio).
Il destino ha voluto che Piero morisse proprio l’11 agosto, data dell’inizio dell’insurrezione partigiana a Firenze, che oggi si celebra come anniversario della Liberazione della città. Dal 13 agosto è sepolto in un piccolo cimitero fiorentino, in via del Gioiello, zona Castello, a pochi passi dalla vecchia casa di famiglia. La salita tira un po’ in qualche punto, siamo sulle colline di Careggi, ma è una bella passeggiata, per luoghi che a Piero erano molto cari.
- Da una lettera di Lamont Branch, presunto omicida, detenuto in attesa di esecuzione per 13 anni nella Shawangunk Correctional Facility di New York, infine liberato perché riconosciuto innocente, citata da S. Christianson, Condemned. Inside the Sing Sing Death House, New York University Press, New York 2000, p. 24. [↩]
- Per una breve rassegna, si può vedere L. Botta, Sacco e Vanzetti: giustiziata la verità. La vicenda dei due anarchici, nei fatti e nelle battaglie per la riabilitazione, con lettere, fotografie e documenti inediti, prefazione di P. Nenni, Edizioni Gribaudo, Cavallermaggiore 1978, pp. 135-193. Sembra che il mito sia ancora presente nelle manifestazioni politiche. Marina Forti, inviata a Teheran per seguire le elezioni presidenziali del giugno 2005, ha raccolto voci – sembra che la stampa fosse presente, ma non è trapelata nessuna notizia pubblica e ufficiale – su una manifestazione di donne davanti alla sede dell’università, per i diritti, la democrazia, la liberazione dei prigionieri politici; era la prima protesta di donne a Teheran dai primi mesi della rivoluzione del 1979. Striscioni e cartelli erano accompagnati da slogan, cantati sul motivo della ballata per Sacco e Vanzetti (cfr. M. Forti, Bombe sulle elezioni. Iran Domenica esplosioni vere, con 10 morti, e ieri «immaginarie». Polizia contro una protesta di donne, “il manifesto”, 14 giugno 2005). [↩]
- Il termine «rossi» equivaleva, molto genericamente, a «estremisti di sinistra». Anche James Larkin, famoso sindacalista irlandese e membro fondatore dell’American Communist Party fu condannato per «criminal anarchy» e detenuto a Sing Sing per tre anni. [↩]
- J. Baldwin, An Open Letter to My Sister Angela Davis, “The New York Review of Books”, vol. XV, n. 12, 7 gennaio 1971; la traduzione italiana di G. Antonucci e P. Colacicchi, Lettera aperta a mia sorella Angela Davis è stata pubblicata in “Il Ponte”, a. XXVII, n. 1-2, gennaio-febbraio 1971, pp. 235-240. [↩]
- B. Vanzetti, Background to the Plymouth Trial, published by Road to Freedom Group, Chelsea, Massachusetts, s.d. [1926?], p. 8. [↩]
- Conspiracy against Sacco and Vanzetti, published by the Sacco and Vanzetti Defence Committee, Boston, Massachusetts, s.d. [1921?], p. 1. [↩]
- Si vedano Christianson, Condemned cit. e Id., Innocent: Inside Wrongful Conviction Cases, New York University Press, New York 2004. [↩]
- La sedia elettrica fu inventata da Harold P. Brown a New York tra il 1886 e il 1889, ma lo scienziato Thomas Edison, nei cui stabilimenti Brown lavorava, partecipò attivamente agli studi che la resero funzionante. [↩]
- Settantasei persone finirono sulla sedia elettrica negli altri penitenziari dello stato di New York. [↩]
- Su un totale di 614 esecuzioni 465 erano di bianchi, 130 di afro-americani, 7 di asiatici, 2 di filippini, 2 di nativi americani. Da notare che dei 130 afro-americani ben 70 vengono uccisi nel periodo 1940-1963. Dati desunti dalla lista conservata negli archivi del penitenziario, dove sono impiegate le categorie di «bianco», «nero», «asiatico», «filippino» e «nativo americano», pubblicata da Christianson, Condemned cit. La suddivisione dei bianchi in italiani e non italiani è stata fatta da noi in base ai cognomi. [↩]
- Da una conferenza tenuta da Scott Christianson alla Croton Free Library l’8 marzo 2004; ringrazio Christianson per avermene fornito il testo. [↩]
- Inchiesta sulle carceri italiane, a cura di S. Anastasia-P. Gonnella, Carocci, Roma 2002. [↩]
- S. Gettinger, Sentenced to Die: The People, the Crimes, and the Controversy, MacMillan, New York 1979, citato da J.H. Reiman, The Rich get Richer and the Poor get Prison, MacMillan Publishing Company, New York 1984, p. 93. [↩]
Nadia Caldieri dice
Grazie a chi ha ricordato e grazie a Piero (e lui sa perché).