a cura di sAm
Alla vigilia della prima presentazione pubblica del Quaderno 12 “Rivolta e tradimento. Sudditi fedeli all’imperatore raccontano il Quarantotto veneziano”, presentiamo alcune pagine tratte dall’introduzione di Piero Brunello, dai testi di Anton von Steinbüchel, di Ferdinand von Zichy e di Georges de Pimodan, e dal saggio di Luca Pes.
L’Ungaro voleva esser libero, ma oppressore dello Slavo e del Valacco. Il Viennese voleva esser libero, ma opprimere e lo Slavo e il Valacco, e l’Ungaro stesso e l’Italiano.
Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra. Memorie (edizione a cura di M. Meriggi, Feltrinelli, Milano 2011, p. 240).
1. Dall’Introduzione, di Piero Brunello
Tre racconti
La caduta del governo austriaco a Venezia nel marzo del 1848 fu inaspettata. La sera della domenica, dal suo ufficio nelle Procuratie nuove, il governatore civile conte Palffy si affacciò a una finestra che dava su piazza San Marco e annunciò la costituzione. Tre giorni dopo, la mattina del mercoledì, l’Arsenale era in mano alla Guardia civica e dopo poche ore il conte Zichy, governatore militare della città, sottoscrisse la capitolazione.
Fin da subito si formarono almeno tre racconti. Il primo diceva che era stato un miracolo della Madonna. Il secondo, che si trattava di una rivoluzione politica. Il terzo denunciava il tradimento dei funzionari e degli ufficiali asburgici.
La prima spiegazione si formò a metà giornata di sabato 18 marzo, giorno in cui nella basilica di San Marco fu esposta l’immagine della Madonna, in attesa di celebrare, una settimana dopo, la data di fondazione della città. Soldati del reggimento Kinsky spararono sulla folla davanti alla basilica. Sul selciato si contarono trecento pallottole. Miracolo!, sembrava che le vittime fossero soltanto un uomo e tre ragazzi (in realtà su diciannove persone colpite, quattro morirono subito e sette in seguito): poche, si disse, rispetto a quelle che potevano essere.
Il secondo racconto parlava di rivoluzione politica. Gli uomini vicini al nuovo governo veneziano vollero immediatamente precisare però che gli avvenimenti accaduti a Venezia non avevano niente a che vedere con gli eventi di Parigi. Quella veneziana era «una rivoluzione politica» fatta «dalla classe intelligente», mentre quella parigina era «una rivoluzione sociale» fatta «dagli artieri, e dal popolo». Altro elemento di diversità, quella veneziana era una rivoluzione «senza effusione di sangue. In questo modo venivano cancellate le persone uccise dai soldati in piazza San Marco, tutte di bassa condizione sociale; e così veniva pure rimosso l’episodio che aveva dato il via alla presa dell’Arsenale, e cioè l’omicidio del colonnello Marinovich, capo delle maestranze.
Raccontando com’era stata la rivoluzione, in realtà si diceva come si voleva che fosse: una rivoluzione borghese. Il 23 marzo 1848, giorno in cui in piazza San Marco fu acclamato il nuovo governo provvisorio, Angelo Mengaldo, comandante della Guardia civica schierata per l’occasione, scrisse nel suo diario: «È troppo, è troppo! Il popolo trascende, non serba più misura. La Guardia Civica è strumento di ordine».
Il terzo racconto denunciava funzionari incompetenti, sudditi ingrati, ufficiali traditori. Ne è un buon esempio lo scritto di Anton von Steinbüchel, che nel marzo 1848 si trovava a Venezia, e che un paio di mesi dopo, nel frattempo ritornato a Vienna, pubblicò il resoconto che qui si pubblica in traduzione italiana.
Dei tre racconti, il primo e il secondo – miracolo e rivoluzione politica – convissero e poterono sovrapporsi l’uno all’altro a Venezia, in ambienti sia borghesi sia popolari. Il terzo racconto invece si poneva in alternativa agli altri due, e a Venezia non ebbe cittadinanza. Il resoconto di Steinbüchel fu conosciuto a Venezia parecchi mesi più tardi, mentre la città era sotto assedio. L’erudito veneziano Emmanuele Cicogna, che pure era un uomo d’ordine, scrisse nel suo diario che quel «libretto tedesco» in vendita dal libraio Münster raccontava «la Rivoluzione e la Cessione della Piazza di Venezia con colori assai offensivi per li Veneziani»: tutto per mostrare «che Venezia ha bisogno dell’Austria per sussistere».
Benché la maggiore responsabilità della perdita di Venezia ricadesse sul governatore militare conte Zichy, che aveva ceduto la città a una delegazione di notabili senza richiedere l’intervento delle truppe, tutti gli ufficiali non italiani sentirono l’onta del disonore, come dimostrano i rapporti o le lettere che scrissero a propria giustificazione. I testi che qui si pubblicano lo dimostrano: il colonnello Buday, fatto prigioniero davanti all’Arsenale il 22 marzo 1848, racconta come si fosse strenuamente battuto prima di essere ferito; il tenente Gustav, tagliato fuori dal suo reggimento nei primi giorni della rivoluzione, fa sapere a un amico viennese tutta la sua vergogna per la viltà dei capi; il marchese Pimodan racconta nelle sue memorie come si fosse imbarcato a Trieste in obbedienza agli ordini, arrivando a Venezia giusto in tempo per incontrare un conte Zichy del tutto incapace di reagire e in mano a civili che portavano addosso sciarpe tricolori. Solo Zichy, il principale imputato del tracollo del governo austriaco a Venezia, si giustificò dicendo che a Venezia era successa una rivoluzione: ma, come vedremo, questo non fu sufficiente a togliergli il marchio del disonore che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita.
2. Da La caduta di Venezia. Le giornate di marzo e le relazioni dell’Italia con l’Austria, di Anton von Steinbüchel
Venerdì 17 marzo
Intanto in piazza la scena cambiò radicalmente. Una torma della peggiore plebaglia a piedi nudi (cosa piuttosto rara in Italia), vestita di luridi cenci, irruppe nel luogo dove stava la gente vestita bene che andava un poco alla volta disperdendosi. Il rullo di tamburo e il suono di strumenti a fiato provenienti dalla piazzetta sembravano annunciare l’arrivo della banda militare, come ai bei tempi, quando i rapporti erano pacifici. Pareva una mossa ben indovinata, per incanalare pian piano l’iniziale fermento entro binari collaudati. Ma le cose andarono diversamente. Il popolo – o meglio i suoi capi segreti – aveva raccattato chissà dove alcuni suonatori della banda musicale italiana della Marina; e questi, in mezzo alla calca, si schierarono sulla piazza e fecero un po’ di rumore, poiché di certo non si poteva definire musica quella miserevole accozzaglia di suoni emessi nella magnifica piazza regale. Ciò che balzava agli occhi era vedere la servitù, ossia i gondolieri di diverse e antiche casate nobiliari veneziane, darsi da fare tra la folla come per impartire ordini.
Mentre ancora si aspettava di vedere che piega avrebbero preso quelle inaudite meschinità, emergevano segnali sempre più inquietanti.
All’improvviso infatti, ecco alle finestre aperte del secondo piano delle Procuratie Vecchie e dell’appartamento del conte Contarini Zaffo, apparire le mani delicate di entrambe le sue giovani figlie, con strisce sottili con i colori italiani, rosso, bianco e verde. Al di sotto, giovani uomini ben vestiti mostrarono questo particolare alla folla, che subito applaudendo proruppe in alte grida di evviva. A stento si poteva credere che acclamazioni provenienti da mani e da bocche del genere potessero suonare lusinghiere a giovani dame di un ceto così elevato, ma tutto ciò faceva parte di un piano; perciò ecco sventolare sempre più numerose strisce di stoffa; infine dalla stessa finestra spuntò su di una lunga asta una grande bandiera tricolore (italiana) cucita con ritagli di vestiti di ogni genere.
[…] Comparve un corteo di persone ancora una volta delle classi più basse, con in testa un ragazzino dai riccioli biondi che portava un piccolo busto in gesso del papa regnante, e immediatamente tra alte grida di giubilo tutta la folla di straccioni a piedi nudi si avvicinò all’immagine disponendosi a cerchio, s’inginocchiò prostrandosi con la testa a terra e battendosi il petto: il tutto si ripeté tre volte.
[…] Davanti alla chiesa di San Marco s’innalzano i tre grandi pennoni per le bandiere (stendardi), che l’antica Repubblica aveva collocato come segno del suo dominio sui tre regni di Morea, Cipro e Candia e dove, fin dai primi tempi del governo austriaco veniva issata la bandiera bianco-rossa nelle principali festività, mentre nel resto dei giorni i pennoni rimanevano senza bandiera. Ed ecco all’improvviso si vide, con le funi da sempre utilizzate per quello scopo, issata la bandiera tricolore italiana, anche se va detto che si trattava solo di un pesante cumulo di stoffe cucite assieme alla bell’e meglio che non riuscivano a dispiegarsi. In piazza alcuni personaggi ben vestiti furono visti gettare soldi a piene mani nel berretto dell’uomo che aveva issato la bandiera.
[…] Nel frattempo il disordine continuava imperterrito e rumoroso, senza lasciarsi impressionare dal segnale d’allarme, malgrado i più sapessero di sicuro cosa significava. Improvvisamente tutti si affollarono sotto il pennone con il tricolore, dove aveva preso posizione una divisione di trenta uomini del reggimento Kinsky. Il popolo accerchiò quei pochi uomini, fischiò e inveì per manifestare la propria contrarietà ai soldati intervenuti a rovinare la festa. Allora si vide il generale Culoz, un uomo imponente che sovrastava la folla ondeggiante attorno a lui, uscire dal palazzo del governatore e attraversare la piazza dirigendosi verso la divisione lì schierata. Evidentemente il popolo gli assicurò che avrebbe tenuto un comportamento pacifico, a patto che non ci fossero soldati in piazza: quello schieramento infatti non aveva né senso né scopo, ed era percepito come un passo falso da parte del comando della città. Il generale diede ordine alla truppa di ritirarsi verso la Gran guardia che stava nella piazzetta, stentando a sottrarsi alle dimostrazioni d’affetto del popolo.
Solo in quel momento si palesarono i veri effetti degli spari d’allarme. Da ogni dove arrivarono di gran passo le colonne della guarnigione, con fare severo attraversarono la piazza e in silenzio si disposero in fila lungo le Procuratie Nuove e il palazzo del viceré.
[…] Avevo camminato per ore, in preda ai più diversi stati d’animo, e, sempre più umiliato e affranto, vidi il grande dispiegamento di soldati e nessun indizio di nuovi assembramenti. Dovevo anche occuparmi dei miei, riferire quel che avevo sentito, rincuorare gli animi affranti. Appena messo piede in casa, sentii suonare la campana di San Marco: un incendio forse? Infatti, dal momento che la truppa era schierata in piazza nei pressi del campanile, poteva questo scampanio avere altro scopo? poteva venire da un ordine delle autorità? Certo che no, il suono chiamava alla rivolta: chiamava a raccolta in piazza San Marco il popolino e la disordinata plebaglia per diffondere agitazione e disordini in tutta la città. Pochi impudenti agitatori avevano preso possesso del campanile e ora suonavano le campane a più non posso, finché non fu mandata una guarnigione di granatieri a riprendere il controllo del campanile e di quelle facce toste di rivoltosi. Visti però preparativi così spaventosi, come mai venivano trascurate in questo modo le consuete precauzioni, mentre i rivoltosi non aspettavano altro che di prendersi per prima cosa il campanile?
La plebaglia, radunata dalle campane che chiamavano alla rivolta, in numero sempre maggiore e con modi di fare sempre più sfrontati, poteva in definitiva ben dare adito a preoccupazioni, quando, per utilizzare tutti i mezzi disponibili (ma fin dall’inizio del tutto inutilmente), ecco che il patriarca, indossando gli abiti della sua alta dignità ecclesiastica, si fece alla finestra accanto al governatore, per benedire il popolo e assicurare tramite la religione l’ordine cittadino e la quiete. La folla, così si racconta, credendo che l’alto prelato volesse riferire una comunicazione da parte del governatore, si precipitò in massa verso il palazzo. I soldati e il loro comandante credettero di cogliervi l’intenzione di un attacco generale; fu allora che le baionette vennero abbassate; l’intera linea avanzò, e così il popolo accalcato si dileguò in modo scomposto, senza però riuscire a evitare che qualcuno venisse ferito lievemente e che le vetrate del Caffè Quadri andassero in frantumi per colpa di chi cercava di rifugiarsi all’interno. Solo il tizio biondo che portava il busto del papa fu gettato a terra dai suoi stessi compagni nel fuggi fuggi disordinato, e morì schiacciato.
3. Da La mia difesa scritta in condizione di prigionia nella fortezza di Olmütz, di Ferdinand von Zichy
Non avrei potuto comportarmi altrimenti da come mi sono comportato. Dio è testimone della verità di ciò che qui affermo.
Durante i sei anni e mezzo da me trascorsi a Venezia la situazione di questa città straordinaria, la profondità e la condizioni di navigabilità delle sue lagune e le sua capacità di difesa mi sono sempre state perfettamente note.
Conoscevo molto bene anche la nostra Marina cosiddetta «Austriaca» e i suoi sentimenti.
Già sei mesi dopo il mio arrivo a Venezia in qualità di Comandante di Fortezza nel 1842 e fino agli ultimi mesi prima dello scoppio della rivoluzione, avevo fatto ufficialmente presente che quella che di cui disponevano era una Marina non Austriaca – altamente inaffidabile. Affermavo infatti che era – e si sarebbe fatto meglio a chiamarla – una «Marina Italiana».
[…] Sennonché gli alti comandi a Vienna mi condannarono sulla base dell’addebito «di aver consegnato la fortezza di Venezia senza ricorrere alle armi».
Con questa formulazione questi signori mostravano di non tener conto del fatto che Venezia di per sé non è una fortezza: è una città accessibile solo via acqua, circondata dalle lagune, tagliata da molti canali e da centinaia di ponti strettissimi, e popolata da 129.000 abitanti. È considerata un «porto fortificato» solo in ragione dei forti situati su alcune isole molto distanti dalla città. Anche le polveriere sono situate fuori città, sulle isole. Forti e polveriere possono dunque essere annoverati come parte integrante di Venezia – e Venezia considerata a tutti gli effetti una «piazza fortificata» – solo ove si abbia il controllo della Marina, poiché in mancanza di quest’ultima è impossibile comunicare con quelli. Tutte le vettovaglie e ogni altro genere di necessità possono arrivarvi solo via acqua.
Escluso l’Arsenale, che non era sotto il mio controllo, non c’è punto di Venezia che sia idoneo alla difesa.
Qualora vi scoppi una rivoluzione, Venezia può essere tenuta a bada soltanto per mezzo della Marina, e cioè circondando la città con tutte le imbarcazioni da guerra a disposizione adeguatamente armate in modo tale da isolarla. Atteso che si abbia la forza necessaria a ridurre la città a un cumulo di macerie o ad affamare in pochi giorni la sua popolazione tanto da costringerla all’obbedienza, qualsiasi rivoluzione sarà immancabilmente sedata.
Se i ribelli non avessero potuto contare sull’appoggio della Marina, è chiaro che non sarebbe scoppiata nessuna rivoluzione.
A quell’epoca la Marina aveva a disposizione duecento cannoni, cento dei quali potevano essere immediatamente dislocati. Anche cinquanta sarebbero stati sufficienti. Erano inoltre disponibili tre barconi a vapore, che in pochissimo tempo potevano essere condotti in qualsiasi punto.
Quale sarebbe stato il risultato di una siffatto dislocamento delle truppe? Che, trovandosi il passo sbarrato dalle barricate erette in quelle vie larghe 5-8 piedi, quelle si sarebbero ritrovate intrappolate nei punti loro affidati e, non potendo procurarsi vettovaglie e munizioni, si sarebbero trovate costrette o a morir di fame o a capitolare.
E sarebbe stata una capitolazione infamante, giacché, visto il suo atteggiamento ostile, di certo non c’era da aspettarsi che la Marina intervenisse per liberarli dallo scacco.
Trovandosi a dover resistere in una situazione in cui anche le prove di più alto valore erano destinate a insuccesso, col passare dei giorni i ribelli avrebbero imposto la supremazia che derivava loro dalla situazione geografica, con il risultato che tre ampi ed eccellenti battaglioni di fanteria formati da seicento artiglieri (calcolando anche gli artiglieri di guarnigione) nonché molti ottimi officiali delle file dell’armata del Feldmaresciallo sarebbero andati perduti o perché prostrati dalla fame, o perché rinchiusi come prigionieri di guerra nei forti sulle isole (dove una gran parte di loro sarebbe morta a causa della malaria) o, infine, perché rilasciati in cambio della parola d’onore di non prestare mai più servizio in Italia.
Questo il triste futuro che mi si parava davanti agli occhi: per questo motivo accolsi la proposta di partire.
La capitolazione degli Austriaci
4. Dai Ricordi della guerra d’Italia, di Georges de Pimodan
Finalmente, ero fuori Venezia! Costeggiammo l’immenso ponte ferroviario, e vidi arrivare all’imbarcadero una locomotiva coperta di bandiere tricolori; come ho saputo in seguito, recava delle false notizie; per mantenere la rivolta effervescente, le persone che ci erano sopra gridavano: «Treviso, Vicenza hanno proclamato la repubblica!», «Viva San Marco» rispondeva il popolo. Durante il tragitto, l’atteggiamento indeciso dei Veneziani mi aveva ispirato l’idea di andare a Padova, per incontrare il generale barone d’Aspre, che comandava in quella piazza. La sua energia, le sue capacità erano note a tutto l’esercito, e mi sembrava che lanciando qualche battaglione su questa città, ancora stupefatta per la sua libertà, si sarebbe potuto ristabilire l’autorità imperiale. Arrivando a Mestre, i gondolieri si fermarono presso una casa isolata dove avrei potuto, mi dissero, trovare una carrozza e dei cavalli. Mi fidai del padrone di casa, e gli dissi che volevo andare a Padova. «A Padova!» gridò, ostentando un grande stupore, «ma la campagna è piena di crociati e di contadini in armi: appena fuori Mestre, sarete ucciso o impiccato a qualche albero». D’istinto intuiva che bisognava impedirmi di partire per Padova. «Vi domando» gli dissi «una vettura, dei cavalli, e subito». «Ah, signore», mi disse in preda a grande emozione «poiché non posso trattenervi, impedirvi di sfidare morte certa, permette almeno che vi dica addio, che vi abbracci versando lacrime sul vostro sfortunato destino». Poi, alzando gli occhi al cielo: «Un uomo così giovane!» gridò «e correre così verso la morte!». E, gettandomi le braccia al collo, mi abbracciò versando qualche lacrima; ma, vedendo che i suoi sforzi erano vani, mi volle fare arrestare e, col pretesto di andare a prendere una carrozza, risalì insieme a me una lunga strada, su uno dei cui lati correva il muretto del canale. Visto che guardava di continuo e ostentatamente verso l’acqua, gli chiesi «Allora, che cosa vedete?». «Ah, mio Dio», mi rispose, «questa mattina il popolo ha massacrato alcuni soldati del reggimento d’Este, e ha gettato i cadaveri nel canale». Non era vero, come ho saputo in seguito. Camminavo svelto, per paura di essere circondato dalle persone che riempivano la strada e già cominciavano a seguirmi; arrivai su una piazza, coperta di capannelli d’uomini; mi fermai e mi addossai, tranquillo e pronto a tutto, al muretto del canale: il mio uomo mi aveva abbandonato. Tutti, allora, si fecero avanti verso di me, prima lentamente, come dei curiosi che vengono a guardare; poi, quando ebbero formato un semicerchio intorno a me, quelli che erano dietro gridarono: «Morte al cane! Morte al tedesco!». Si spingevano uno con l’altro, agitando le braccia per minacciarmi. Li guardavo in faccia senza tremare, ma temevo di essere buttato nel canale, oltre il muretto della riva, quando un ometto con in testa un tricorno, e una larga sciarpa, si fece largo tra quel popolo e venne da me. Pensavo che fosse il podestà e, prendendo saldamente il suo bavero con la mano sinistra, gli dissi sfoderando la mia sciabola: «Se questi mi toccano, vi ficco la mia sciabola nella pancia». Provò a fare un salto indietro, ma lo tenevo saldo, e si fermò guardandomi fisso. Due personaggi piuttosto ben vestiti, probabilmente temendo la vendetta delle truppe imperiali, si piazzarono tra la folla e me; mi fecero scudo con i loro corpi e chiamarono un uomo che passava di là con un carretto. Questi pochi minuti mi erano sembrati eterni; ero fradicio di sudore. Questi signori montarono con me sul carretto, che prese subito la strada per Castelfranco. Mi accompagnarono fino in campagna, e dopo avermi detto addio, scesero dalla vettura.
Rinunciai a Padova; ero stato giocato dalla commedia del tizio di Mestre e dalla sua commozione simulata, poiché poi ho saputo che non c’era un solo crociato tra Mestre e Padova.
5. Da Venezia salvata da due ungaro-austriaci?, di Luca Pes
Punti di vista
L’immagine di Venezia che gira in Europa per tutta la prima metà dell’Ottocento parla di gente sudicia e spensierata; di canali puzzolenti e palazzi di una bellezza grandiosa; di una città addormentata da una «una maligna pozione magica», soggetto di lezioni di morale e di decadenza, teatro di poesia e romanzi storici, luogo di sogno e di piacere. Ma non prevede scenari dove si costruisce il futuro e si fa la storia del presente.
Questo è il contesto nel quale entra in scena il marchese Georges de Pimodan, sottotenente della cavalleria austriaca, la mattina del 23 marzo 1848: la prima cosa che fa, arrivando con il piroscafo nel porto, è «ammirare il magnifico colpo d’occhio». Quando viene interrotto bruscamente dalle grida «fora la bandiera», pensa sia una regolare formalità. Poi vede una grandissima folla e sente le urla: «viva San Marco! viva la repubblica! viva l’Italia». Così si accorge di essere entrato in piena rivoluzione.
La notizia dei fatti veneziani vengono accolti con stupore e diffidenza, anche da parte rivoluzionaria. Molti pensano a una ridicola risurrezione del vecchio regime aristocratico e il fatto che si inneggi a San Marco e alla Repubblica sembra avvalorarlo. È questo che Cristina di Belgioioso tenta di smentire, quando scrive sui fatti di Venezia, cercando di convincere i lettori della Revue des Deux Mondes che si tratta di una moderna rivoluzione, italiana e costituzionale.
Quello che ci si trova davanti nei giorni di marzo – spiega George Trevelyan – è «una nuova Venezia, sconosciuta a Goldoni, Buonaparte o Byron». Se il primo segnale di questa trasformazione è stata la ferrovia, ora è il Quarantotto. Venezia diventerà il centro rivoluzionario europeo che resisterà più a lungo, con un governo relativamente stabile dal marzo 1848 all’agosto 1849, nelle mani di rivoluzionari democratici tutto sommato moderati, tanto che qualcuno ha voluto parlare di Model Republic.
Gli elementi che più sorprendono sono la rapidità degli eventi, non anticipati da sommosse o manifestazioni di dissenso politico diffuso, e soprattutto il poco spargimento di sangue. Il confronto con Milano è significativo: a Venezia, città ritenuta tranquilla, ci sono 10 morti e gli austriaci vengono “cacciati” senza quasi sparare un colpo; nella città lombarda, dove c’erano già stati veri e propri scontri, l’esercito interviene subito e si combatte per cinque giorni tra le barricate. Esito: oltre 600 morti, tra civili e militari, secondo le stime più affidabili, ma qualcuno parla di oltre 1.500, senza contare i caduti di parte austriaca.
I resoconti italiani sottolineano i meriti e l’incontenibilità della rivoluzione. I veri eroi però non sono tanto i popolani morti in piazza (dei quali non sapremo per lungo tempo il numero preciso né i nomi), ma i tre avvocati, Daniele Manin, Angelo Mengaldo e Gian Francesco Avesani, che nei giorni di marzo hanno saputo determinare e controllare gli eventi con intelligenza, contribuendo in modi diversi ai momenti chiave: l’istituzione della Guardia civica, la presa dell’Arsenale, la capitolazione degli austriaci e la dichiarazione della repubblica. «Così – riassume per esempio Carlo Alberto Radaelli – con poco sangue versato, pel mirabile accorgimento di chi diresse il movimento popolare, si compieva una memorabile rivoluzione che rivendicava l’onore della città delle lagune, compromesso dai degeneri patrizi nel 1797».
Da parte austriaca e filo-austriaca, ci si misura invece con le concessioni fatte dai governatori imperiali, davanti a «facce da far paura, come da tempo non se ne vedevano», «ceffi con i loro ghigni selvaggi e feroci, e deformati in modo ributtante da una rabbia innaturale»; «alla peggiore plebaglia a piedi nudi […] vestita di luridi cenci» e di fronte a Manin, «un ometto sulla cinquantina […] con lo sguardo spento». Un’arrendevolezza che porta all’umiliazione del governatore militare, il conte Ferdinand Zichy, il quale si lascia tenere in ostaggio da «uomini sconosciuti» e avvocati impertinenti e arroganti che vestono coccarde tricolori. Dopo questo «cambiamento mostruoso, incomprensibile e repentino», scrive il tenente austriaco Gustav, non ci si può che sentire vecchi, cioè parte di un mondo che non c’è più.
In queste testimonianze (scritte da militari, nobili e borghesi fedeli all’impero) ci si interroga sulle ragioni di un collasso istituzionale che consente una sovversione dei ranghi e un disordine plebeo. I riflettori sono sull’ammutinamento dei soldati e della marina e sull’inadeguatezza dei funzionari militari e civili, nel quadro di un fatto percepito come davvero epocale per l’impero.
Ancora Gustav scrive: «la storia di nessuna epoca ha da vantare una rivoluzione così incruenta con risultati così enormi»; «per quanto i veneziani si vantino di questa impresa eroica senza spargimento di sangue, dovrebbero nondimeno capire che senza il disonorevole tradimento della Marina e delle truppe italiane non sarebbe mai venuta loro l’idea di impossessarsi di Venezia». E Anton Steinbüchel: «gli austriaci non erano ancora abituati a una così dissennata condotta militare, come l’abbandono delle armi davanti ad autorità civili».
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Brani tratti da: Rivolta e tradimento. Sudditi fedeli all’imperatore raccontano il Quarantotto veneziano, a cura di P. Brunello, con un saggio di L. Pes, storiAmestre, Venezia 2012 (Quaderni di storiAmestre, numero 12), rispettivamente pp. 9-12, 36-41, 78-81, 92-94, 98-101.
Piero Brunello dice
Ringrazio Stefano Borgarelli per le questioni che pone. Non userei il termine “xenofobia”, perché non fa differenze tra diversi e specifici comportamenti. In generale poi eviterei di definire stati d’animo e cercherei piuttosto di individuare dispositivi e comportamenti sociali. Tanto meno parlerei di “tradizioni millenarie” della Serenissima, come è stato fatto in un intervento nel dibattito, perché è un’espressione che ignora la specificità dei contesti storici (e quindi non riesce nemmeno a dar conto dei fenomeni di continuità). Per dire, i mercanti tedeschi presenti a Venezia si erano insediati in città da poco, in seguito all’apertura del porto franco nel 1830; e le normative riguardanti i “forestieri” che ho ricordato erano quelle austriache, non dissimili peraltro a quelle di altri Stati preunitari. Infine, ho parlato del nazionalismo come di una tonalità della vita quotidiana, perché a me non interessa tanto “l’immagine dello straniero” (che si suppone abiti oltre le Alpi: ma è chiaramente una costruzione culturale), quanto i rapporti tra vicini di casa, la prassi amministrativa e poliziesca, il funzionamento degli ospedali e delle istituzioni totali, le storie individuali. Quanto ai rapporti tra pressioni dal basso nei confronti degli stranieri e iniziative prese dall’alto, il tema aspetta ancora di essere pienamente indagato.
Piero Brunello
stefano borgarelli dice
Approfitto di questo spazio per due righe riferite al convegno di sabato 31/3 al Candiani, in margine all’intervento di Piero Brunello: stimolante, per me nuovo. Ne è venuta fuori una Venezia xenofoba, che costituisce lo ‘straniero’ (tedesco) radicalizzando le connotazioni più negative della categoria ‘foresto’. Il punto a me non chiaro: fu questo un frutto quasi improvviso della Rivoluzione del ’48, oppure prese forma una latenza che stava già nella ‘tonalità della vita quotidiana’ – per riprendere i termini usati da Brunello – precedente? S’è detto di Manin (e dei ‘maninisti’) moderato, ma l’esclusione del tedesco straniero dalla civitas veneziana m’è sembrato un fenomeno di segno diverso, favorito dal contesto politico, ma prepolitico (perciò forse, un intervento dal pubblico ha suggerito una chiave antropologica, in relazione alla costruzione identitaria nei secoli della Serenissima).
Grazie dell’attenzione comunque.
Stefano Borgarelli