di Piero Colacicchi
In casa mi rimangono molti quadri dipinti da mia madre, che sin da giovanissima si era dedicata alla pittura. Tra i ritratti ce n’è uno abbastanza piccolo (cm 35×24) che tengo nell’ingresso di casa mia e ho avuto sempre caro: è quello del volto di Duniascia. Forse mai come in questo caso un oggetto parla di una persona, anzi di due.
Venuta dalla Russia per far da bambinaia prima a mio zio, poi a mia mamma e rimasta parte integrante della mia famiglia, Duniascia fu per noi tutti, con la sua forza il suo coraggio e la sua abnegazione un punto di riferimento sicuro durante tutta la sua vita; per me e per mio fratello, poi, fu la nostra nonna, sostituendo quella vera che non avevamo conosciuto.
Della sua esistenza prima di venire in Italia si sapeva poco. Raccontava, tra le altre cose, di aver vissuto con il marito e due figli in un villaggio sperduto in mezzo a boschi infestati da orsi che il marito uccideva, per salvare i cavalli, affrontandoli con un coltello. Ammalatasi di reni mentre era incinta, dovette fare circa quaranta verste (45 chilometri) a cavallo, da sola, per raggiungere il più vicino ospedale dove la visitarono, le dettero qualche medicina e la rimandarono indietro. Nessuno sapeva quanti anni avesse, ma quando morì, nel 1959, doveva averne più di ottanta. Venne assunta dai miei nonni a Mosca verso il 1910 e li seguì a Napoli con la speranza di essere, in seguito, raggiunta dai figli, affidati nel frattempo a parenti: speranza che la Rivoluzione trasformò in impossibilità e, per lei, in un rimpianto durato tutta la vita.
Il quadro, a olio, è dei primi anni Cinquanta. Mamma ci lavorò per vari mesi, tornandoci sopra ogni volta che lei e Duniascia trovavano il tempo. A un certo punto però mamma lo lasciò perdere: disse che proprio non le piaceva. Qualche tempo dopo decise perfino di disfarsene e, staccato il ritratto dal telaio, lo mise a mollo nella tinozza pensando che la colla della preparazione avrebbe ceduto e che si sarebbe così potuta recuperare la tela, ma la pittura rimase quasi intatta. Vari anni più tardi e solo per le insistenze di tutta la famiglia mamma si decise a rimontarlo.
Lavorare a ciascun quadro per mesi era, per lei, un’abitudine, anzi un metodo. Costruiva piano piano, impastando pazientemente colori densi, asciutti, sulle tele ruvide ed attardandosi su vivaci macchie di colore, ricami, trasparenze, brillii improvvisi, come per dilatare il tempo, fino a che il soggetto risultava vivere in un momento del giorno e in uno spazio indeterminati, quasi affrancati dalla realtà contingente. (Per mamma la prospettiva era un impaccio, un obbligo sintattico a cui si sottoponeva con leggera irritazione.) Così, in esclusiva intimità con quanto dipingeva, e affrontando quasi sempre, come in questo ritratto, narrazioni complesse, riscopriva, attraverso persone, oggetti e paesaggi a lei cari, gli aspetti più profondi della sua ricca eredità culturale.
Nota. Flavia Arlotta Colacicchi è morta alla fine del 2010 a 97 anni. Il figlio Piero Colacicchi ha scritto una versione di questo testo per il catalogo della mostra Flavia Arlotta. Donna e pittrice del Novecento – 26 voci per una biografia, Accademia delle Arti e del Disegno, Firenze (9 maggio-6 settembre 2014), curato da Mario Ruffini e Max Seidel (Polistampa, Firenze 2014).
Il ritratto di Duniascia è visibile anche nella sezione dedicata a Flavia Arlotta all’interno del sito sull’opera del pittore Giovanni Colacicchi (dagli anni Trenta compagno e poi marito di Flavia): http://www.giovannicolacicchi.com/.