a cura della redazione del sito sAm
In questi giorni abbiamo chiesto ad amici e conoscenti di raccontarci la loro partecipazione alle cerimonie pubbliche dedicate dalla città di Venezia a Valeria Solesin, vittima degli attentati del 13 novembre a Parigi. Pubblichiamo le prime quattro risposte, che ci riportano la veglia del 18 novembre e il funerale del 24 con gli occhi (e i sentimenti) della generazione dei genitori.
Una veglia silenziosa, di Marco E.
Quando ieri sera sono entrato con mia moglie in piazza San Marco, una folla si era già raccolta attorno ai pennoni davanti alla basilica; poco dopo i Mori hanno suonato le sette, e sono comparse le candele accese. C’erano molti lumini spenti ai piedi dei pennoni, e qualcuno li distribuiva in giro. La folla è andata aumentando, ma il brusio rimaneva sommesso. Nessuno sapeva che rito fosse e quindi bisognava inventarlo. Per un po’ l’attività principale consisteva nel cercare di riparare i lumini dall’aria della sera e di riaccenderli quando si spegnevano, chiedendo aiuto ai vicini. Poi un gruppetto che stava davanti alla basilica si è mosso lentamente verso il centro della piazza: la folla ha fatto ala e si è formata così una processione lenta e silenziosa. Qualcuno ai margini (chi non aveva le mani occupate a tenere la candela) ha applaudito. Un gruppetto davanti al caffè Quadri ha alzato le candele verso l’alto: il gesto ha fatto il giro della piazza e a quel punto tutte le luci erano sopra le teste. È seguito un secondo applauso, ma quello che continuava a emergere era un brusio leggero.
Mia moglie e io ci siamo spostati sotto uno dei pennoni per salutare gli zii e la nonna di Valeria e stare in loro compagnia. C’erano amici comuni. A un certo punto è arrivato il fratello di Valeria assieme a un gruppo di coetanei, per salutare la nonna, e per un po’ ci siamo messi in disparte. Tra quel gruppo di fioi ci sono amici e conoscenti di nostro figlio. Siamo rimasti lì fino a che, quasi alle otto e mezza, i presenti iniziavano a lasciare la piazza. Nel frattempo qualcuno aveva cominciato a mettere i lumini sotto ciascuno dei pennoni, e a disporli sui masegni formando dei tondi illuminati. Quando abbiamo salutato i nostri amici per tornare a casa, i tondi erano tre, disposti lungo un’ideale linea retta dalla basilica verso il centro della piazza. In uno, i lumini disegnavano il simbolo della pace come la torre Eiffel, visto tante volte in tv e nei siti internet.
Passando davanti al caffè Florian ho visto sopra l’entrata del caffè un tricolore con un nastro nero e la scritta “Valeria nel cuore”, e così ho fatto caso che non c’erano bandiere, e che quella era l’unica: ma era affissa sotto le Procuratie e non si vedeva se non passandoci davanti. Arrivando in piazza ci seguiva una bandiera che mi è sembrata palestinese, ma poi non l’ho più vista. Il lutto si era espresso come nei luoghi di un incidente stradale, soprattutto quando muore un ragazzo e una ragazza giovane, e gli amici in ricordo accendono candele e mettono fiori. Questo era l’aspetto di piazza San Marco al termine del rito: le fiamme dei lumini tremolavano sul lastricato, e i fiori, alla base dei pennoni, erano disposti simmetricamente e con un senso di ordine. Dando l’ultima occhiata alla piazza, ho pensato di aver preso parte a un rito di lutto, in cui la città è un’estensione dei legami di famiglia e delle reti di amicizia tra ragazzi.
Ps Non ho visto macchine fotografiche in azione. Ce n’era qualcuna, assieme a qualche videocamera, dove si trovavano il sindaco e le autorità, per i servizi giornalistici.
Ci sono andata per curiosità, di Maria Giovanna Lazzarin
Lo ammetto, ci sono andata per curiosità: un funerale di Stato, civile ma non laico, in piazza San Marco, dove una cerimonia simile si era vista l’ultima volta per la salma di Daniele Manin, rientrata da Parigi il 22 marzo 1868. Dovevo andare.
Mentre facevo a piedi la strada da piazzale Roma mi chiedevo come sarebbe stata Venezia quella mattina. Normale sembrava, forse un po’ meno gente del solito in campo Santa Margherita, ma sul ponte dell’Accademia una coppia di turisti orientali si faceva il selfie mentre altri si informavano dai venditori africani sulle aste per scattare.
Però, appena prima del ponte, la pizzeria al trancio in calle Toletta aveva le serrande abbassate, un foglio bianco informava: chiuso per Valeria. “Anche per la veglia è rimasta chiusa” stava dicendo una signora alla persona accanto mentre li superavo veloce perché ero in ritardo. E più avanti qualche altro negozio aveva chiuso, uno persino nella via che porta a campo San Moisè e vende firme stracare a stranieri facoltosi.
Ma è solo davanti al porticato del museo Correr che si comincia a cogliere ciò che sta succedendo: l’accesso è sbarrato, una lunga fila di persone viene controllata da poliziotti, vigili, carabinieri. Prima di accodarmi riesco a contarne una ventina.
In lontananza si sente l’inno di Mameli. Sempre in ritardo, Giovanna, arriverai tardi anche al tuo funerale.
Davanti a me una giovane donna col cappotto color cammello spinge una carrozzina. Vorrei vedere questo piccolo portato “nel pericolo”: dorme beato. L’uomo che sta accanto, forse cogliendo il mio pensiero, posa il braccio intorno alle spalle della donna. Mentre la fila scorre le guardie si danno un gran daffare: quelli a lato ascoltano i messaggi dei telefonini, parlano tra loro in modo deciso, vanno avanti e indietro, rispondono alle domande, quelli in capo staranno sicuramente controllando. Le persone invece procedono tranquille, quasi fossero a una processione. Anch’io mi sento così come se l’incertezza, la paura, la potenza del negativo e della morte trasmessa da TV e giornali trovassero un argine in questo muoversi composto e pacifico verso una meta comune.
Dopo il controllo della borsa – veloce come una farsa – entro in piazza: delle transenne delimitano il recinto dove la cerimonia si sta svolgendo e contro le transenne sta in piedi una folla muta. All’interno altre suddivisioni per chi può o deve sedersi e in fondo un palco e un microfono dietro cui penzolano a mezz’asta le bandiere francese, italiana ed europea. Un uomo sta parlando, non riesco a vederlo ma dalle parole che sento penso sia il padre di Valeria Solesin. Mentre mi sposto verso le Procuratie nuove per vedere meglio, si susseguono voci di giovani, amici – credo – saliti a ricordarla.
Un ragazzo recita una poesia, un altro traccia in tre tappe un’autobiografia legata all’amica. Due ragazze salgono insieme, quasi per darsi forza, hanno in mano un foglietto che si passano e quello che leggono mi commuove più di tutto: “la Vale era: fioi c’è il sole, picnic sulla Senna!” o “domani smetto di mangiarmi le unghie” e ancora “non prendetevi gatti, fate figli, le francesi mediamente ne fanno 2, 3!”.
Il rappresentante degli alunni del liceo Benedetti sale a presentare la volontà di portare avanti il progetto per Emergency a cui aveva lavorato la ragazza quand’era studentessa nel loro liceo.
Grazie, ragazze e ragazzi. Questo è un lutto di giovani per giovani, non possiamo dimenticarlo. Forse per questo quando parla il patriarca di Venezia non lo riconosco: sento un discorso che mi sembra scontato e anche un po’ sopra le righe nel suo chiedere ai terroristi – quasi urlando – di cambiare. E noi, non dobbiamo tutti cambiare? Ero finalmente arrivata in un buon punto di osservazione lungo le Procuratie, così mi alzo in punta di piedi per vedere meglio e lì mi accorgo: è proprio il patriarca che parla.
Davanti a me ho due studentesse, dall’età. Accanto un’anziana signora col bastone. Alle mia sinistra due uomini dal fisico possente e più in là alcune coppie probabilmente di pensionati.
Sono tutti assorti, ciascuno a suo modo si identifica nella tragedia, ma hanno tutti un sussulto quando parla il presidente dell’unione delle comunità islamiche. L’intera piazza, dall’applauso che lo interrompe, ne è scossa.
Ognuno poteva andare sul palco a parlare senza essere presentato, così aveva voluto Alberto Solesin nel segno della democrazia: una testa, una parola. I presenti l’avevano preso sul serio attraverso l’applausometro. E l’applauso più grande, dopo quello al padre, è andato al rappresentante delle comunità islamiche. Non che io capisca il senso di un applauso a un funerale. Sono rimasta al pianto funebre.
Ma improvvisamente mi sono accorta di ciò che avevo visto senza registrarlo appena entrata in piazza: tutti abiti occidentali tra i presenti, nessun volto che si potesse pensare musulmano dalla barba, dalla pelle, dal velo. Forse avevano avuto paura, forse non avevano tempo, forse altri erano i loro problemi. Le parole di Izzedin Elzir (ora ho imparato il suo nome e anche che le opinioni in rete su di lui sono contrastanti) li hanno resi presenti e vicini.
Nell’applauso “a scena aperta” sentivo sollievo, speranza, forza, ma anche riconoscimento di quanto la realtà sia complicata: era stato un musulmano a restituirne una visione più ampia, a legare il dolore per una giovane vita persa e la condanna per la strage di Parigi al dolore e alla condanna per le stragi in Sira, Mali, Libano, indicando insieme una via di responsabilità per la sua comunità: “Valeria, i tuoi assassini hanno fallito perché non sono riusciti a instillare l’odio in noi e oggi siamo tutti qui per te. Il terrorismo va sconfitto, e per primi devono farlo i musulmani che ne sono le prime vittime”. (Ho recuperato questa citazione dal web.)
A questo punto anch’io cominciavo a comprendere quanti frutti poteva dare l’idea di un funerale di stato civile – ma non laico – fortemente voluta dalla famiglia di Valeria Solesin, come se questo facesse parte del suo dramma e del suo testamento, quindi le fosse dovuto, così il padre.
La ministra della difesa Roberta Pinotti chiude l’ultimo intervento riportando le parole di Dario Solesin, il fratello della ragazza uccisa: provare davvero a cambiare le cose, a fare in modo di vivere in un posto migliore. È questo il messaggio.
Sulle note dell’Inno alla gioia, inno ufficiale dell’Unione europea, mi avvio a tornare con tante sensazioni contrastanti in testa. Appena prima del porticato del Correr mi imbatto in due volti conosciuti, conversando con loro ripercorro il tragitto verso piazzale Roma. Ero andata da sola alla cerimonia, mi sentivo bene tra la folla sconosciuta venuta lì come me, ma questo incontro inaspettato con due persone che stimo mi fa pensare che, se anche l’odio in questo scorcio di secolo si mantiene in gran forma, dietro l’angolo può nascondersi una sorpresa.
Seguendo in diretta TV, di Maria Marchegiani
Ho seguito il funerale di Valeria in televisione. Avevo avuto diverse perplessità nel recarmi in piazza San Marco, da un lato temevo la mia emotività che in situazioni simili mi porta a piangere senza controllo e dall’altro mi sembrava che ci fosse un eccesso di partecipazione: troppe parole, troppe persone. Lo schermo televisivo poteva essere una sorta di filtro che stemperava le mie emozioni, era un esserci senza esserci.
Così non è successo, il coinvolgimento è stato subito totale.
L’ingresso della bara, portata dai gondolieri, in piazza, le migliaia di persone presenti, gli spazi predisposti da una regia sicuramente sapiente e accorta, le bandiere che sventolano in una giornata di cielo azzurro, gli inni nazionali italiano e francese, la presenza di tante autorità nazionali e locali, presenza composta e silenziosa, mi hanno fatto sentire la vicinanza dello Stato.
Nello stesso tempo i primi piani dei volti delle persone, con la loro commozione e dolore (il silenzio eloquente del presidente Mattarella, le lacrime a stento trattenute di uno dei componenti l’orchestra della Fenice, il pianto infinito del fratello della ragazza, e gli occhi lucidi delle tante persone in piazza) mi restituivano la dimensione di un dolore personale, privato ma comune a tutti.
E poi le parole: decise e sicure quelle dei rappresentanti delle tre religioni, composte e calde quelle del Sindaco (bella la proposta di dedicare a Valeria un ponte), e così autentiche, quotidiane quelle delle amiche e degli amici, parole che ci hanno fatto conoscere una Valeria tanto simile ai nostri figli. E le parole del padre, ancora una volta di grande impatto, saggezza e compostezza.
Quello che percepivo, e apprezzavo, davanti alla televisione, era la continua presenza della dimensione pubblica e solenne del funerale di Stato e la dimensione intima, privata del ricordo di una ragazza che lascia la vita a soli 28 anni e in un modo che ci offende tutti.
Mi chiedo oggi perché fossi lì, incapace di muovermi, davanti alla televisione; non ho una risposta certa, come tutti forse cercavo un senso a quella cerimonia, da molti criticata perché giudicata eccessiva. So però che ho fatto bene a esserci.
Mentre mi commuovevo per Valeria, ricordavo anche le altre tante vittime, in troppe parti del mondo. “Nel cuore nessuna croce manca” scriveva Ungaretti, e per me ricordare questa bella ragazza, era ricordare tutti.
Alcuni hanno detto che Valeria ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato, come mamma e nonna – anche mio figlio vive e lavora all’estero – non voglio accettare il pensiero che ci siano posti e momenti sbagliati dove i nostri cari, e tutti i giovani del mondo, possano avere la sventura di transitare.
Ecco, forse è questo il senso che ho trovato nei funerali di Stato attribuiti a Valeria: il ribadire la volontà e l’impegno perché ogni posto del mondo sia sicuro e accogliente per i nostri figli.
Per tutta la mattina due piccole candele azzurre sono state accese sul mio davanzale.
Perché siamo stati tutti così colpiti?, di Lucio Sponza
Ero in piazza San Marco anch’io, mercoledì scorso, per i funerali “civili” e “di Stato” di Valeria Solesin. Pare che da quando Venezia diventò parte dello Stato italiano in piazza furono celebrate solo le esequie di Daniele Manin – nel 1868 (era morto anche lui a Parigi, da esule, undici anni prima).
Da dove mi trovavo, in mezzo a molta gente, non vedevo chi parlava per ricordare la giovane veneziana, anche se la prima voce era ormai inconfondibile: quella di suo padre Alberto. Assieme alla parola e all’immagine di sua moglie Luciana aveva meravigliato l’Italia per compostezza, dignità e nobiltà di sentimenti con cui aveva affrontato il grande dolore. Era anche riconoscibile la voce del patriarca, in parte per la cadenza un po’ strascicata e in parte perché non poteva (forse) non fare ricorso a stilemi religiosi. Più forti ed efficaci mi sono sembrate le parole del rappresentante delle comunità islamiche d’Italia e del rabbino capo di Venezia.
Ma l’impressione più profonda l’ho avuta sentendo quello che hanno detto le amiche e gli amici di Valeria, perché, invece di usare parole solenni – loro che l’avevano conosciuta bene – hanno accennato con voce commossa alla realtà umana di Valeria. Una sua compagna di università a Trento, Elena (anche lei dottoranda fuori d’Italia, a Berlino) ricordava che con Valeria discuteva sul senso dei loro studi e della vita, ma anche che Valeria prometteva sempre di “non mangiarsi le unghie”, ma che poi si dimenticava della promessa.
Ascoltavo tutte quelle voci con lo stupore suscitato dalla reazione dei veneziani (e anche degli italiani) alla morte di Valeria. C’era stata la veglia alla luce di candeline e lumini, sempre in piazza, la settimana prima; c’erano state le lunghissime code silenziose davanti alla bara, a Ca’ Farsetti; c’erano state pagine intere sui quotidiani della città (ma credo anche di tutto il paese). La partecipazione dei veneziani era sempre stata grande e al di là delle attese – una persistente coralità emotiva che raramente si manifesta. Sono rimasto stupito da tutto ciò, e mi sono chiesto perché – sia di quella reazione collettiva che dei miei stessi sentimenti. Ma non ho trovato ancora una risposta.