di Stefano Petrungaro
Stefano Petrungaro ci invia una sua breve riflessione, stimolata da dall’intervento di Piero Brunello «Note sul primo numero della rivista S-nodi…» pubblicato su questo sito nel marzo 2008.
C’è un oggetto, tra i tanti inventariati da Perec in La vita. Istruzioni per l’uso1, che ha attirato la mia attenzione, perché ho avuto, fin dalla prima volta in cui ho letto il passaggio in cui compare, la netta sensazione che avesse molto a che fare con il lavoro dello storico e gli scopi della storiografia.
L’antefatto riguarda l’ebanista Grifalconi che, nelle soffitte del castello in cui aveva lavorato per un periodo, aveva trovato «le vestigia di un tavolo; il piano, ovale, meravigliosamente intarsiato di madreperla, era notevolmente ben conservato, ma la crociera centrale, una pesante colonna fusiforme di legno venato, si rivelò tutta tarlata; l’azione dei tarli era stata sotterranea, interna, suscitando mille canali e canalicoli pieni di legno polverizzato».
L’ebanista si trova quindi di fronte a un problema. E non è un aspetto evidente. Occorre perizia e una particolare attenzione per individuarlo. Poiché «Dall’esterno non traspariva niente di quel lavoro di smangiamento», eppure «Grifalconi vide ch’era impossibile conservare il piede originale il quale, quasi completamente svuotato, non poteva più reggere il peso del piano se non rinforzato dall’interno».
È a questo punto che si deve mettere all’opera l’ingegno. L’ebanista tenta di salvare, conservare quel vecchio e bel tavolo, così che aspira la polvere dai canali e vi inietta una miscela semiliquida di piombo e altro, sperando così di rinforzare sufficientemente quel debole sostegno.
L’operazione non riesce. La fragilità di quel piede è troppa e il tentativo di un suo consolidamento inefficace. Appurata la necessità di sostituire completamente il pezzo, all’ebanista viene l’idea di liquefare il legname residuo, quello che stava attorno agli ex cunicoli, diventati ora rami contorti di quello che appare quasi come «un mazzo di coralli». È questo che ho sentito come molto vicino al lavoro dello storico: questo scambio tra pieno e vuoto, la ricerca della via, il rovesciamento di una lacuna in una risorsa. Vien da pensare a quei temi e quei soggetti, per non parlare di certe epoche, per cui non si sono conservate fonti. L’argomento non lo si può indagare in maniera diretta, ma occorre leggere i silenzi, servirsi del materiale di cui si dispone, al fine di delimitare l’area tematica che interessa, ricavarla quindi da quel che c’è, e dedurre quel che non c’è. Lavorare con i negativi, invece che con le foto.
Possiamo spingerci oltre nelle riflessioni intorno a questo brano di Perec, purché ci si intenda sul fatto che lo si sta strapazzando parecchio e lo si sta utilizzando soprattutto per avere un (piacevole) spunto. Eppure, se si volesse procedere a una lettura sociologica del tavolo, con i ceti nobili sopra e quelli popolari sotto, si noterebbe che, anche nel caso dell’ebanista Grifalconi, se egli avesse voluto narrare la storia del «piano, ovale, meravigliosamente intarsiato di madreperla», avrebbe avuto la vita un po’ più facile, dal momento che «era notevolmente ben conservato». Il problema sono quei maledetti tarli lì sotto, tanti, piccoli e vivaci, che animano la base.
Anche la metafora, forzata, regge fino a un certo punto. Perché ogni narrazione storica, su qualsivoglia tema, deve interpretarle bene le fonti, in genere cercandovi qualcosa di diverso rispetto a quello che esse vorrebbero comunicare esplicitamente. Anche quando ci sono, occorre lavorare un po’ mettendo e togliendo, incrociando e limando. La difficoltà è quindi più generale, riguarda la disponibilità o meno di fonti, le loro reticenze, la loro spudoratezza. Certo, l’intreccio di queste variabili muta in base al tema. E per certi temi bisogna avere proprio l’ingegno di un Grifalconi.
Quando l’operazione riesce, anche solo in parte, ci si ritrova tra le mani una piccola meraviglia, una «arborescenza fantastica, la traccia precisa di quella ch’era stata la vita del tarlo in quel pezzo di legno». Questo è quello che mi emoziona, quando cioè tocco con mano un’esistenza. Sarà poca cosa la mia ricostruzione, che inevitabilmente deforma e irrigidisce, tuttavia risulta una «sovrapposizione immobile, minerale, di tutti i movimenti che avevano costituito la sua [del tarlo] esistenza cieca, quell’ostinazione unica, quell’itinerario tenace, quella materializzazione fedele di tutto ciò che aveva mangiato e digerito». Un assaggio di quotidianità, uno sguardo su quella catena di decisioni e casi che messi insieme costituiscono il percorso di una vita.
E si trattava di una lotta. Poiché anche il tarlo procede «strappando alla compattezza del mondo circostante gli impercettibili elementi necessari alla propria sopravvivenza», in una battaglia senza sosta con il tavolo, il suo peso, gli oggetti posti sul piano ovale meravigliosamente intarsiato, l’uso che ne fanno i proprietari. Senza conoscere questi ultimi aspetti, non capiremmo le vicende dei tarli. Occorre quindi studiare tutto, il sopra e il sotto, il dentro e il fuori, i singoli elementi come pure il tavolo nel suo complesso. Ma è importante che lo si faccia ponendo al centro quella lotta, senza lasciarsi abbagliare dallo splendore della madreperla. Occorre anzi smontarla, detronizzarla e denobilitarla un po’, senza porla al di sopra dei tarli, delle loro fatiche e della loro intensa storia.
Quel che emergerà allora dalle strane operazioni dello storico sarà un’«immagine a nudo, visibile, infinitamente inquietante di quel cammino senza fine che aveva ridotto il legno più duro a un reticolo impalpabile di gallerie di polvere».
1 Georges Perec, La vita. Istruzioni per l’uso (1978), trad. di Dianella Selvatico Estense, Rizzoli, Milano 1994. Le citazioni che seguono sono tutte tratte da questa edizione, pp. 133 e ss.