di Giovanna Bison
Giovanna Bison ci offre alcune pagine e alcune foto tratte dalla sua tesi di laurea, che ha discusso nel 2017, dedicata al cimitero di Mestre.
1. Qualche anno fa ho discusso una tesi di laurea in Antropologia culturale, etnologia, etnolinguistica. Spesso, chi studia antropologia, studia i popoli, persone tendenzialmente vive. E va lontano, via dalla propria città, via dalla propria nazione. Io invece non mi sono allontanata nemmeno dal mio quartiere: vivo a Carpenedo da otto anni, a dieci minuti dal Cimitero di Mestre, argomento della mia ricerca. Una tesi a chilometro zero.
Nel mio lavoro ho portato anche la mia passione per la fotografia e per luoghi che definisco “di confine” o – sulla scia di Gilles Clément – del “terzo paesaggio”, luoghi abbandonati dove nulla sembra accadere, mentre è potuto accadere in passato e potenzialmente tornerà ad accadere in futuro.
Quanto stiamo vivendo nel 2020 mi ha per forza di cose portato spesso a ripensare alla ricerca che avevo fatto. Con il pretesto della commemorazione dei morti, sono andata a ripescare tra le pagine e le immagini della mia tesi.
2. Spesso l’interesse fotografico per i cimiteri è rivolto a quelli considerati esteticamente luoghi di valore, i cosiddetti cimiteri “monumentali”, per l’appunto. Sono state inquadrate e indagate soprattutto le statue di notevole bellezza, le architetture ottocentesche, cariche del fascino del tempo, sepolcri illustri o talmente remoti nel passato da farne oggetti di osservazione priva ormai di ogni lutto. A me interessava altro, i cimiteri comuni e la contemporaneità, anche se, forse, nel momento stesso dello scatto, essa appare già superata, già parte di un passato. Mi interessava anche fotografare il contrasto, notare le contraddizioni, perfino le macabre ed involontarie ironie che ogni tanto presentava il paesaggio cimiteriale.
Racchiuso tra binari ferroviari e una trafficata tangenziale – benché a pochi passi dal centro cittadino –, il cimitero di Mestre è il più grande dell’entroterra veneziano, sia per espansione territoriale, sia per numero di sepolture.
Costituisce una città dentro una città, celata tuttavia dalle sue mura. La forma irregolare, la sua eterogeneità architettonica, la sua espansione sembrano riflettere perfettamente il contesto urbano da cui è stato inglobato e la sua storia urbanistica. Osservando la mappa del cimitero dall’alto, si possono notare bizzarre protuberanze che sfuggono al controllo della geometria: gli allargamenti sono stati fatti adattandosi alla conformazione delle parcelle di terreno libere.
I confini del cimitero non sono solo quelli costruiti con i mattoni. Luogo dedicato alla memoria, è anche un luogo dove imparare a dimenticare, elaborare lutti, scacciare sensi di colpa, malinconie, rancori, mentre ripuliamo tombe, cambiamo fiori, percorriamo vialetti ghiaiosi e labirintici. Con i suoi rumori e i suoi silenzi, è un paesaggio di contrasti. Il cimitero è un microcosmo fatto di passeggiate solitarie, riti e incontri collettivi, memorie individuali o di gruppo, dove vige l’universale necessità di ricordare e dimenticare.
3. Lo sviluppo di Mestre e del suo cimitero, ovviamente, sono stati sempre intrecciati.
A inizio Ottocento, dopo lunghe discussioni avviate negli ultimi decenni del Settecento e soprattutto dopo le leggi napoleoniche (1804) che prevedevano lo spostamento delle sepolture fuori dai centri urbani, la costruzione del nuovo cimitero di Mestre fu avviata su un terreno di proprietà ecclesiastica equidistante dalle due principali parrocchie che allora si trovavano nel Comune di Mestre, quelle di San Lorenzo e di Carpenedo. Inaugurato il 30 dicembre 1812, conobbe i primi ampliamenti a partire dal 1820. Nella seconda metà del XIX secolo fu deciso di trasformarlo in un vero e proprio cimitero monumentale, con tanto di porticato e chiesa. I lavori furono completati nel 1872.
Mestre era allora un piccolo Comune da poco entrato nel Regno d’Italia. Il suo volto sarebbe stato completamente cambiato dall’improvvisa accelerazione industriale del Novecento. Soprattutto dagli anni Cinquanta si ebbe un’espansione del tessuto urbano e aumento della popolazione che a sua volta rese necessario l’ampliamento della struttura cimiteriale che a sua volta, da periferico che era, fu assorbito integralmente nella città.
Oggi il cimitero è protetto, paradossalmente, proprio da due elementi della città contemporanea: la ferrovia e la tangenziale. Questi due limiti, questi due confini, ne garantiscono un certo isolamento e hanno permesso una sua relativa crescita nel corso degli ultimi decenni. La sacca creata tra le due vie è stata riempita ormai in modo quasi completo, i campi di sepoltura si sono succeduti e, con una visione aerea, ci rendiamo conto che l’allungamento cimiteriale è pressoché esaurito.
Lo sviluppo quasi violento della popolazione e dell’edilizia a Mestre si rispecchia nel suo cimitero: nella forma irregolare dell’espansione del perimetro cimiteriale, come abbiamo già ricordato; nella giustapposizione di stili profondamente diversi che si notano passeggiandovi dentro – per esempio, a pochi metri di distanza, si elevano le rossastre strutture del portico ottocentesco in mattoni e una densa e verticale linea di nomi posti su colombari razionalisti.
4. La maggior parte delle persone non arriva al cimitero a piedi, i parcheggi sono comodi, vicini, quello davanti all’entrata si chiama inevitabilmente piazzetta dei cipressi. Si configura come un ibrido tra una piazzetta e un parcheggio, qualche panchina, qualche posto macchina, qualche albero (ben pochi i cipressi per la verità) e quattro chioschi, discreti, che vendono fiori.
Tra chi raggiunge il cimitero con i mezzi pubblici gli anziani sono i più numerosi. Possono scendere dall’autobus numero 2, alla fermata “Cimitero” sul viale Garibaldi. Dal viale, basta prendere la stretta stradina pedonale che si chiama via Ognissanti. Impossibile sbagliarsi.
Le entrate al pubblico sono due. Quella che introduce alla parte moderna del cimitero è la più ampia e utilizzata, ed è carrabile: una sbarra si alza al passaggio degli operatori e dei cortei funebri. Lì accanto ci sono anche la portineria, gli uffici e le strutture della Veritas, compreso l’obitorio.
L’altra dà sul vecchio cimitero ed è provvista di un tornello in acciaio che permette un passaggio solo singolo. Ne ho chiesto il perché́ a un ex operatore cimiteriale, durante un’intervista: mi ha risposto che doveva servire a dissuadere le persone ad entrare in cimitero con la bicicletta. La spiegazione mi ha convinto poco: non so più quante volte ho visto persone, soprattutto anziane, varcare l’entrata nuova in sella alla loro bicicletta, evitando semplicemente il tornello piazzato all’entrata vecchia.
5. Varcata l’entrata moderna, si trova ancora qualche posto macchina – riservati per lo più al personale – e di fronte a essi il Giardino del ricordo. Quest’ultimo è uno spazio verde in cui è possibile, previa autorizzazione, disperdere le ceneri dei propri cari. È una delle strutture più recenti, è piccolino, pare incastrato a forza in quell’angolo dell’entrata. Le piante di magnolia sono circondate da sassi bianchi, ci sono dei cespugli curati, qualche gelsomino rampicante, alcune panchine e un manufatto rotondo di cemento, tipo quelli che si usano per delimitare le zone pedonali.
Distolgo lo sguardo dal giardino. Alla sua sinistra inizia il viale principale di cipressi, non è l’unico, ma sicuramente è quello che maggiormente imposta la percezione tradizionale del camposanto.
Imboccandolo alla sua sinistra si trovano numerose tombe di famiglia, con architetture anche impegnative. Nella parte sud, quella ottocentesca, ci sono ancora dei bellissimi esemplari di cipressi che di certo sfiorano il secolo, e grazie alle loro radici verticali, ancora ben coesistenti con le tombe.
La parte antica si può ancora identificare grazie al mattone cotto rossastro usato per i muri esterni, molto bassi, e per la chiesa antica e il bel porticato. All’interno del quadrato ottocentesco sono sepolte e dissepolte diverse generazioni di mestrini ed è curioso confrontare come a pochi metri di distanza si trovino date ben lontane tra loro nel tempo.
Noto fiori di plastica nuovi, fiori di plastica vecchi.
A ovest comincia l’infinito settore dei loculi e dei colombari, con effetto straniante quando si vede in alto, sul viadotto, qualcuno passare. Immagino che all’opposto invece, per il passante, il cimitero sembrerà un’anonima serie di capannoni grigi.
Sulla spalla delle costruzioni rettilinee che ospitano migliaia di loculi c’è una sezione riservata ai bambini: volti da pochi mesi a pochi anni di vita. Alla fine del viale, in maniera non regolare, ci sono i monumenti collettivi dedicati ai caduti di guerra. Sono tre i gruppi rappresentati: i profughi istriani e dalmati, i religiosi e i militari. Durante le ritualità legate alla giornata delle Forze armate (che cade il 4 novembre, ma come si sa le cerimonie si svolgono la prima domenica del mese) vengono deposte corone d’alloro in ogni monumento, alla presenza delle autorità civili e militari e delle Associazioni combattentistiche e d’Arma. Si crea così uno bizzarro corteo di persone con divise diverse tra loro, che a ogni tappa rivolgono un omaggio e uno squillo di trombe.
La parte nuova, a nord, risale agli anni Novanta del Novecento. Ha una struttura molto ripetitiva e regolare che termina curiosamente, però, con una forma a imbuto rovesciato. In molti angoli si ha una sensazione claustrofobica, amplificata dalla mancanza di luce, e dall’opacità dei fiori di plastica.
Negli ultimi decenni la velocità con cui il cimitero si è espanso è aumentata. La popolazione (quella del cimitero, non più quella della città) cresce, il dibattito si fa scottante: bisogna trovare nuove soluzioni, nuove “possibilità spaziali”, nuove idee e – infine – nuove architetture. Bisogna far coincidere i gusti estetici dei vivi nello spazio dedicato ai non vivi. Cambiamo noi, cambia il nostro cimitero. L’architettura cimiteriale contemporanea è specchio non solo del nostro rapporto con l’evento-morte e della relazione che costruiamo con i defunti, ma delle tendenze architettoniche in voga.
Per ora la soluzione è stata costruire una grande “rotonda”, soluzione non particolarmente originale in Veneto, dove ospitare un gran numero di loculi.
L’allontanamento dalla terra in cimitero non è solo una trita metafora, ma un procedere senza fine che sembra alludere ad altro. La verticalità sembra essere l’unica soluzione, l’unica strada da percorrere. La parola chiave che domina le discussioni è saturazione. Tutte le statistiche sul consumo del territorio, sulla mancanza di spazio, declinano e replicano questo concetto.
La Rotonda è al centro della sezione moderna. Affacciandosi verso l’esterno, dalla terrazza del suo ultimo piano, si può avere una visione d’insieme del cimitero. Da lì si nota infine anche la chiesa moderna: non è facile riconoscerla come edificio religioso, sembra piuttosto una casetta prefabbricata. Da degli altoparlanti esce una musica – credo che vorrebbe essere “rilassante” – che si espande per qualche centinaio di metri. Dopo un po’ diventa ipnotica. Ammetto che dopo molte passeggiate solitarie all’interno del cimitero ho cominciato ad associarla alle torture musicali di Guantanamo.
Uscire dal cimitero comporta riattraversare la soglia. Si varcano i cancelli, si superano le mura perimetrali e si torna ad affrontare la città e le sue strade trafficate. In cimitero mi è capitato, più di una volta, di soffermarmi per qualche minuto oltre l’orario di chiusura. Può capitare di attardarsi, soprattutto d’inverno quando il cimitero chiude prima, alle 16.00, appena la luce comincia ad andarsene. Per evitare spiacevoli inconvenienti, se si rimane chiusi dentro oltre l’orario previsto si può schiacciare il grande pulsante rosso che si trova accanto al cancello d’uscita.
6. Il paesaggio cimiteriale è ricco di uno spessore identitario, storico, emozionale, psicologico e immaginativo. Certamente un cimitero moderno come quello di Mestre può avere degli elementi di contatto con i nonluoghi: i grandi palazzoni di loculi, dalle misure standardizzate, i campi dalle forme tutte uguali, perfino le tombe dissimili ma infondo simili perché concepite sempre dagli stessi negozi di marmisti. I cimiteri sono sempre segnalati da alcuni elementi riconoscibili ovunque: qui in Italia, valga per esempio la presenza del cipresso, l’uso del marmo, la presenza di lapidi e di lettere che seguono modelli tradizionali. Ora però la standardizzane ha fatto superare una soglia: i cimiteri cominciano a diventare indistinguibili tra loro e perciò, almeno a un primo sguardo, non sono più legati a un luogo e a una comunità di viventi, ma assumono connotati anonimi, luoghi anonimi lontani da qualsiasi rapporto con il proprio contesto.
Come si sa, tuttavia ogni nonluogo è un luogo, e chi si trova a frequentarlo non fa parte solo di una moltitudine di individualità che s’incrociano senza entrare mai veramente in contatto. Il cimitero di Mestre mi ha offerto, durante le mie perlustrazioni, molte occasioni per constatare la ricchezza di relazioni che intercorrono tra le persone che vi si ritrovano: molte volte ho potuto osservare piccoli capannelli di persone a chiacchierare tra le tombe, alcuni salutarsi mentre percorrevano i viali e aiutarsi reciprocamente nel cambiare la terra alle piante o nello spostare le scale utilizzate per raggiungere i loculi più alti, di solito troppo pesanti per gli anziani. Il cimitero è, quindi, anche un luogo di socialità, un luogo in cui rafforzare il sentimento di appartenenza a una comunità. Non è solo un luogo di silenzio, solitudine, lutto individuale.
Durante le mie passeggiate cimiteriali ho sempre guardato con attenzione la sfilata di fiori posti sopra le tombe. Se notavo dei fiori recenti, ma rovinati, mi ponevo alcune domande. Da quanto tempo potevano essere stati portati in cimitero? Aveva piovuto nei giorni scorsi ed era colpa del mal tempo se si erano sciupati? I parenti avrebbero provveduto a cambiarli velocemente?
Decisamente diverso era il mio atteggiamento se notavo dei fiori finti rovinati, in quel caso ero certa che fosse passato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno si era preso cura di quella tomba.
La plastica dei fiori, una volta sbiadita, è una sicura testimonianza del tempo.
Durante le mie passeggiate sono stata inoltre colpita dall’atteggiamento contrastante nei confronti della natura. Esiste una duplicità per cui si riscontra un continuo atteggiamento simulatorio rispetto alla natura e ai suoi elementi, ma al contempo ne vengono allontanati alcuni suoi elementi fondamentali. Vengono posti sulle tombe fiori finti e persino prati di plastica, ma vengono eliminati con pervicacia muschio, edere ed erbacce. La tomba-casa deve essere protetta dalla furia del tempo, dagli elementi climatici, dalle piante infestanti, ma soprattutto dall’oblio e dal senso di trascuratezza che la nostra società tende a leggere nell’abbandono delle proprie costruzioni, fabbriche o tombe che siano.
Nel cimitero di Mestre possiamo leggere le varie fasi che si sono susseguite nel modo di concepire il ruolo degli alberi nella pratica funeraria. Osservando il cimitero come fosse una mappa temporale possiamo notare che nei lotti più antichi ritroviamo alberi maestosi dalle grandi chiome e viali ombrosi. Nei lotti predisposti a loculi degli anni Sessanta e Settanta di alberi e verde non c’è traccia.
Osservando alcune cappelle di famiglia si possono notare alcuni bassorilievi creati dall’artista Remigio Barbaro che ha scolpito diversi pannelli di pietra bianca con figure, talvolta astratte, talvolta raffiguranti la figura umana. L’edera si è infilata tra le fessure, nei contorni del bassorilievo, riempiendoli. Si è adagiata comoda, come fosse il posto giusto per lei, come fossero solchi creati appositamente perché lei li riempisse.
Alcuni considerano l’edera un disagio, perché essa avvolge e risucchia la forza delle altre piante, e intacca le pareti di pietra e con le sue continue, incessanti, pressioni riesce a smuovere i rigidi materiali umani. Questo spaventa, disturba e turba. Dobbiamo difendere i nostri spazi, i nostri monumenti, le nostre tombe. Ma allo stesso tempo questo lento strisciare vegetale mi fa sentire ottimista. Mi sembra a suo modo giusto. Il tempo scorre e i luoghi e i paesaggi si modificano, non rimangono immobili, non possono essere preservati in eterno, i paesaggi si modificano insieme a noi, al nostro modo di viverli, di concepirli, di utilizzarli e infine di vederli.
Occhi scoloriti mi osservano dalle loro tombe, le immagini sbiadite, quasi sparite, rendono malinconicamente evidente l’oblio a cui sono destinate.
Nota. Mi sono laureata in Antropologia culturale, etnologia, etnolinguistica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia il 10 marzo 2017, con una tesi intitolata Al di là del muro, tra gli alberi. Analisi antropologica sulla percezione del cimitero mestrino negli anni Duemila (relatore prof. Gianluca Ligi). Nello stesso 2017 la mia ricerca ha ricevuto il premio di laurea assegnato dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti.
Con il mio lavoro avevo l’ambizione di illustrare i diversi aspetti che coinvolgono la complessa entità spaziale del cimitero, muovendomi tra temi che – nelle suddivisioni disciplinari – appartengono tanto all’antropologia del morire quanto all’antropologia dello spazio.
Prima che scrivere, la mia tesi è stata “trascrivere”: ascoltavo e registravo le memorie altrui, prendevo appunti, mentre passeggiavo e scattavo fotografie nel cimitero di Mestre.
Mi occupo di fotografia ormai da qualche anno, la mia prima mostra ha avuto come soggetto una fabbrica abbandonata, l’ex Sava di Fusina. Lì ho scoperto la mia – forse non particolarmente originale – passione per l’archeologia industriale, ma soprattutto ho scoperto che mi piaceva scoprire. (g.b.)
Carlo Cappellari dice
Vedo che la passione per i cimiteri è più diffusa di quel che pensavo. Da tempo ho intenzione di avviare una branca dell'"andare a vedere" relativa ai cimiteri che mi piacerebbe chiamare "Cose dell'altro mondo". Chi è interessato mi può scrivere alla mail carlocappellari58@gmail.com Grazie Carletto
domenico canciani dice
mi è piaciuto leggere queste pagine. (anche) io sono un appassionato visitatore di cimiteri e ci trovo sempre nuovi pensieri. per esempio quando vado in vacanza in sud Tyrol-Alto Adige, o in Istria. grazie si possono fare molte buone osservazioni, intime e storiche, alberi genealogici e storie familiari, occupazioni e guerre, confini e unioni… GRAZIE