di Pietro Di Paola
Il nostro amico Pietro Di Paola, riflettendo sulla sua ormai lunga esperienza di insegnante nelle università inglesi, spiega perché storiAmestre sarebbe una manna per una università inglese, ma anche perché nessuno studioso potrebbe pubblicare nel sito o nei Quaderni di storiAmestre se vuole soddisfare ai requisiti in base ai quali viene misurata oltre che finanziata la ricerca (“Impact”, “Dissemination”, “Value for money”). Per sopravvivere, l’università deve utilizzare le reti locali e le ricerche esterne all’università, trasferendo i risultati entro un circuito accademico.
Vorrei contribuire alla discussione aperta da Piero Brunello sulla Public History basandomi sulla mia esperienza universitaria in Inghilterra dove lavoro.
“Public History”, come disciplina, ha una sua tradizione, ma non è questo il punto centrale da discutere, mi pare. Quello su cui volevo riflettere invece è su come il concetto di Public History, almeno qui in Inghilterra, si è trasformato negli ultimi anni per rispondere a specifiche esigenze del governo e delle università, fino a trasformare radicalmente il ruolo e lo scopo degli studi storici.
Ci sono tre concetti fondamentali che orientano oggi le attività di ricerca e di insegnamento nelle Università, e da cui noi docenti non abbiamo alcuna possibilità di fuggire. Tutti e tre hanno a che fare con la quota di finanziamenti concessi alle singole università. In particolare, due sono legati ai finanziamenti che il governo attribuisce alle Università ogni sette anni e che si basano su vari criteri; il terzo è da collegare invece al fatto che le Università da qualche anno sono soggette alla custom law, la legge che protegge i consumatori (e con questo si è codificato che l’insegnamento è un prodotto esattamente come gli altri). Non a caso questo passaggio si è avuto dopo l’aumento delle tasse degli studenti a 9000 sterline l’anno.
I tre concetti di cui parlavo sono “Impact” cioè “impatto”, “Dissemination” cioè “divulgazione”, e “Value for money” che potremmo tradurre rapporto qualità-prezzo anche se non rende perfettamente.
L’Impact è una categoria introdotta qualche anno fa e che ha già avuto e avrà sempre più peso nella distribuzione dei fondi di finanziamento. Il concetto è che l’Università per avere i fondi deve dimostrare di avere un impatto reale nella società, di avere fatto e di fare “la differenza”. Questo, anche se poi la questione è più articolata, dato che è più facile da dimostrare nelle materie scientifiche che in quelle umanistiche. Nell’area degli studi storici è più difficile dimostrare infatti che la tua ricerca ha “cambiato” il mondo. Per capirci: se scrivi un libro di storia, non è sufficiente che tu abbia introdotto un’interpretazione straordinariamente innovativa su un qualche argomento, devi dimostrare che chi ha letto il libro non solo ha cambiato idea ma che sei stato tu a fargliela cambiare.
L’Impact è quindi completamente differente dalla Dissemination. I contatti e le collaborazioni con il mondo esterno (musei, scuole, associazioni storiche) diventano fondamentali per potere creare degli “Impact Case”. Che cosa significa? Significa che quando fai un progetto di ricerca devi dimostrare di avere un “Dissemination plan” e preferibilmente di potere sostenere di avere un “Impact”. Banalizzando ma non troppo: fai la ricerca su un argomento qualsiasi e organizzi una mostra in collaborazione con un museo, alla fine della quale i visitatori riempiono un questionario indirizzato a provare che quella mostra li ha “cambiati”.
Da questo punto di vista un’associazione come quella di storiAmestre per un’Università inglese sarebbe una manna. Però il rapporto sarebbe di “vampirizzazione”. Ricerche come quelle sui fiumi e le acque alte a Mestre e dintorni sono ottimi esempi di “Impact Case” (suggerisci soluzioni, alternative, ecc.). Ma alla fine delle ricerche un docente non può pubblicare i risultati sui Quaderni di storiAmestre, ma su riviste scientifiche di fascia A. Non per questioni di carrierismo, ma di semplice sopravvivenza, e secondo le regole della divisione del lavoro di cui parlano sia Stefano Portelli che Piero Brunello. Nei contratti, che possono essere diversi per ogni università ma il concetto è lo stesso per tutti, è stato introdotto infatti sotto vari titoli il “Requirement” (“requisito”) o “Expectations” (“aspettativa”) di pubblicare un certo numero di articoli in giornali accademici di fascia A ogni anno, e di fare un certo numero di domande di fondi ogni anno. Per il momento i finanziamenti vengono calcolati su base di dipartimento e non di singolo. Per ora. E ogni anno c’è un meeting di dipartimento dove questi parametri vengono esaminati.
C’è infine la questione del “Value for Money”. Una delle principali categorie di valutazione in questo senso è la prospettiva di impiego degli studenti: dopo quanto tempo trovano lavoro gli studenti della tua università? (Il governo sta discutendo di introdurre come criterio anche quanto guadagneranno.) Questa valutazione viene utilizzata per le classifiche nazionali delle università che vengono stilate alla fine di ogni anno accademico da diversi enti o giornali, e che sono molto importanti non solo per il prestigio ma anche per attirare studenti ovvero le loro tasse senza le quali l’Università fallisce. È quindi importante per un dipartimento di Storia, sia nei confronti del governo che degli studenti (e dei loro genitori), avere dei corsi in cui gli studenti possano fare esperienza di tirocinio, e quindi avere un rapporto con biblioteche, associazioni, musei, ecc., e fare così “Public History”.
Insomma dobbiamo pensare alla Public History non solo come a una disciplina che – come dicevo – ha una sua tradizione – e metodi, organizzazioni, praticanti, sostenitori e detrattori –, ma come a una nuova modalità a cui si devono e si dovranno sempre più attenere gli accademici se vogliono sperare di potere attrarre finanziamenti per le loro ricerche.
GIGI CORAZZOL dice
Leggo solo oggi l'accurato rapporto di Di Paola. Dell'esser vecchi al vecchio spiace tutto. Ma consola me il non aver avuto a che fare con impact, dissemination e value for money, bastando e avanzando, ai mica troppo beaux jours d'antan, alcune idee fisse e qualche archivio (accogliente) in cui perdersi via. E niente fasce. Quando è toccato a me c'erano già i pampers. La mia sincera, viva gratitudine a Di Paola.