di Piero Brunello
Sabato 14 maggio 2011, presso l’Ateneo degli Imperfetti di Marghera si è tenuto l’incontro “Militanza e rassegnazione”. Pubblichiamo l’intervento con cui Piero Brunello ha introdotto i temi della serata; sono seguiti gli interventi di Elis Fraccaro, Guido Lanaro e Marco Palma, e quindi una discussione generale.
1. Questo incontro invita a trovare parole adatte per definire i sentimenti di chi ha dato vita o sostenuto in vari modi nel corso degli ultimi anni il Presidio No Dal Molin, ed esperienze simili. Riguarda cioè quelle situazioni in cui un vasto movimento di protesta, basato su buone ragioni e su ampio consenso, non riesce a bloccare un progetto dissennato e deciso dall’alto, oltretutto, come nel caso di Vicenza, sulla base di accordi internazionali e militari coperti dal segreto. Il movimento contro la costruzione di una nuova base militare a Vicenza ha fatto ricorso a tutto quello che poteva mettere in campo: occupazioni di binari, cortei, presidi, spignattate, blitz nei cantieri, assemblee, festival, un referendum cittadino, appelli, ricorsi legali, sabotaggi, forme di disobbedienza civile, pubblicazioni, eventi culturali, vita quotidiana in presidio, e infine sostegno cittadino, nazionale e internazionale. Ciononostante la costruzione della base è quasi ultimata.
Com’è cambiata la vita delle persone che hanno partecipato e partecipano a questa esperienza? Che fine fa la militanza quando sembra essere inutile? È giusto parlare di rassegnazione? E, ancor prima, è giusto parlare di militanza?
2. Il mio compito è suggerire le questioni da discutere e porre interrogativi. Comincio dai termini usati nell’invito a questo incontro.
“Militanza” indica adesione, partecipazione attiva a un partito, a un’associazione, a un movimento politico, religioso, culturale: rinvia a un impegno individuale, condiviso con altre persone sulla base di valori, obiettivi, speranze comuni. “Rassegnazione” indica viceversa rinuncia: rinuncia a un incarico (rassegnare l’incarico, l’ufficio, le dimissioni); significa anche rassegnarsi, mettersi il cuore in pace, accettare un fatto o una situazione come inevitabile.
Che rapporto può esserci quindi tra due parole che definiscono rispettivamente impegno e rinuncia?
Tempo fa – neanche tanto – il titolo dell’incontro sarebbe stato “Militanza o rassegnazione”. Nello schema rivoluzionario classico, un sentimento infatti esclude l’altro; non si può essere militanti e rassegnati: o l’uno o l’altro. Si chiude con la militanza perché e quando ci si rassegna, quando si pensa cioè che il mondo non può cambiare. La militanza esclude la rassegnazione per una serie di motivi. Innanzitutto perché la militanza si regge sulla fede nell’ideale: e la bontà di un ideale non può essere smentita da come va il mondo. In secondo luogo, la lotta non finisce mai, e quindi non ha senso rassegnarsi. Le metafore della politica vengono dalla guerra: battaglie, che si possono perdere o vincere; tattica, strategia, vittoria, sconfitta… Quindi il militante, come il guerrigliero – perché è a maschi che si pensa – non depone mai le armi. Infine il militante non può rassegnarsi perché dedica la sua vita al futuro. Per il militante il presente è il tempo dei padroni e degli schiavi, mentre il futuro è il tempo in cui, spezzate le catene, si instaureranno libertà, solidarietà, giustizia. Questo schema non impedisce rivendicazioni concrete e miglioramenti parziali (basti pensare alla storia del movimento operaio): ma rimane comunque una visione millenaristica. Nel campo dell’anarchismo (data la sede in cui ci troviamo), questo è lo schema grosso modo di Bakunin.
3. Il titolo dell’incontro di oggi non è “Militanza o rassegnazione”, bensì “Militanza e rassegnazione”. Si direbbe cioè che noi crediamo che un individuo possa essere militante e contemporaneamente provare rassegnazione.
Se è così, siamo di fronte a uno schema diverso rispetto a quello classico, ottocentesco e a lungo novecentesco, che ho appena indicato, tanto che dobbiamo interrogarci se convenga continuare ancora a parlare di “militanza”: ed è anche su questo che invito a una discussione. Le domande che definiscono oggi l’impegno pubblico non sono tanto “in che cosa credi?”, ma “come ti comporti”?; non sono “che cosa ti aspetti per il futuro?”, bensì “come vivi adesso”? Uno scritto di Paul Goodman del 1946, ripreso negli anni Sessanta, spiega bene questo mutato paradigma della trasformazione sociale: “Una società libera non può essere l’imposizione di un «ordine nuovo» al posto di quello vecchio: è l’ampliamento degli ambiti di azione autonoma fino a che questi occupino gran parte del sociale” (P. Goodman, Individuo e comunità, a cura di P. Adamo, Eleuthera, Milano 1995, p. 129).
Nemmeno Goodman escludeva la rivoluzione, perché aggiungeva immediatamente dopo: “il fatto che una liberazione di questo genere sia graduale non vuol certo dire che possa avvenire senza rottura rivoluzionaria, perché in molti campi, per esempio nella guerra, nell’economia, nell’educazione sessuale, qualunque liberazione autentica prevede un cambiamento totale” (ibid.). Di diverso tuttavia, rispetto al pensiero rivoluzionario classico, è l’atteggiamento nei confronti del futuro. Già Aleksandr Herzen, riflettendo sulle rivoluzioni del 1848, aveva scritto che un fine troppo lontano non è un fine, ma un’illusione, un inganno (A. Herzen, Dall’altra sponda, introduzione di I. Berlin, Adelphi, Milano 1993, pp. 76-78). Su questa scia, lo schema delineato da Goodman comprende tutti i modi in cui si manifestano e si costruiscono “decentramento, libertà individuale, sviluppo della personalità, potenziamento dei valori comunitari, pacifismo, sperimentazione sessuale e familiare” (così Adamo nell’Introduzione a Goodman, Individuo e comunità cit., p. 9). Per tornare all’anarchismo, il riferimento in questo caso non è Bakunin, ma piuttosto l’anarchismo comunitario di Kropotkin fondato sul mutuo appoggio e sulla libera iniziativa dal basso: nei tempi più recenti uno degli interpreti di questa tendenza è stato Colin Ward.
4. Se accettiamo lo schema alla Goodman o alla Colin Ward, un individuo impegnato a contrastare un progetto militarista e devastante come una nuova base americana a Vicenza si rassegna al fatto che la base viene comunque fatta, e contemporaneamente rivendica le ragioni del proprio impegno e della propria partecipazione, e in primo luogo il piacere di fare cose assieme. Come ha scritto Ascanio Celestini nella Prefazione al libro di Guido Lanaro: “E forse questo è proprio il senso di una lotta che, come si diceva qualche tempo fa, non può non mettere insieme personale e politico. Il personale di Marta che si trova a incontrare donne di altre generazioni, ma anche di Christian che non ce la fa più a andare a lavorare a testa bassa. Il politico di donne e uomini che, anche quando perdono la propria battaglia, dimostrano di essere un popolo che non rientra nei parametri ministeriali della docilità.” (A. Celestini, Prefazione, in G. Lanaro, Il popolo delle pignatte. Storia del Presidio permanente No Dal Molin 2005-2009, Quaderni di storiAmestre, n. 10, 2010, p. 6).
L’esperienza del movimento vicentino invita in altri termini a ridefinire parole come “sconfitta” e “vittoria”. Non lo dico solo perché si tratta di capire se comunque qualche risultato è stato raggiunto – e questa è una delle domande che pongo a Guido Lanaro e a Marco Palma. Lo dico soprattutto perché accettare supinamente, questa sì sarebbe stata e sarebbe una sconfitta. Al contrario, il movimento contro la base militare ha avuto e ha il merito di mostrare la legittimità della protesta, oltre a essere stata fin qui una grande esperienza di democrazia e di capacità di auto-organizzazione.
5. La partecipazione al presidio No Dal Molin, o ai comitati contro la Tav, si può definire militanza? Come si è detto, “militanza” esprime l’adesione a un complesso di valori, a un movimento, a un partito, a un sindacato eccetera: in questa prospettiva, un’esperienza come il No Dal Molin è solo una tappa di una lotta in cui non è mai detta l’ultima parola. Ma non è questo lo schema a cui si rifanno presidi e comitati, che si concentrano viceversa su di un singolo obiettivo.
È vero che nel tempo, come dimostra Guido Lanaro nel Quaderno di storiAmestre, gli obiettivi si allargano: un no a questa base davanti a casa mia diventa un no alle basi militari e al militarismo; un no a distruggere le falde e il verde di questo spazio urbano nella mia città mette in moto nuove idee di città, di territorio, di paesaggio, di società civile. Ma chi si impegna per un singolo obiettivo – No Dal Molin, No Tav, No Mose, No Pedemontana, No Zincheria a San Pietro di Rosà, No Quadrante di Tessera, No Veneto City, No nucleare, No privatizzazione dell’acqua –, quando vede che alla fine il progetto contro cui si è lottato si realizza, cosa fa? Torniamo così alle domande iniziali: che parole adatte ci sono per esprimere il sentimento che si prova?
Sono questi i temi su cui discutiamo questa sera.
PS. Tra le parole usate nella discussione me ne sono segnate alcune che avrebbero potuto essere un buon titolo per il nostro incontro: “Partecipazione e resistenza” (Marco Palma), e “Autogestione e protesta” (Elis Fraccaro). Questo mi ha ricordato il titolo di un vecchio libro pacifista che chiedeva il disarmo nucleare unilaterale: Protest and survive, a cura di E.P. Thompson e Dan Smith, Londra 1980 (trad. it. Protestare per sopravvivere, Pironti, Napoli 1982). Da qui mi sono ispirato per intitolare, ora, il mio intervento.
m. dice
Andrò fuori tema di sicuro, ma lascio comunque questo commento. Sono infatti pensieri suggeriti da questo intervento. Non ho vissuto esperienze simili a quelle del Presidio No Dal Molin, ma oggi mi sono ritrovata a leggere queste riflessioni e mi hanno fatto pensare a quello che sto vivendo al lavoro, con i colleghi, e a come mi sento quando sempre più spesso amici e parenti mi parlano della loro situazione lavorativa (o non lavorativa) precaria e dove i diritti della persona sembrano non valere più. Ci unisce solidarietà, comprensione, mutuo aiuto, sopravvivenza e un sentimento di ingiustizia.
Minacce più o meno velate, straordinari passati come obbligatori, il senso di competizione e di sconfitta personale, un contratto a tempo determinato o a progetto e soprattutto il timore di ritorsioni con conseguente perdita del lavoro, non ci permette di esprimere questo malessere comune in maniera pubblica e molti non ne sentono nemmeno il bisogno.
Ed è questo uno degli aspetti che ammiro di più nei presidi e nei comitati elencati: aver reso pubblico un sentimento che rischiava di essere vissuto come ingiustizia privata.
alessandro voltolina dice
ho riletto il bell’articolo di Piero proprio in questi giorni in cui si riparla di Genova 2001, di Giuliani, di violenza, di movimenti, di stato.
Lo stato contro chi aveva visto giusto.
Aveva visto giusto e questi 10 anni hanno dato ragione a quella profetica denuncia.
Credo abbia ragione Piero: la frustrazione, la rabbia, la sconfitta provata allora per quella violenza non ha generato solo rassegnazione. Sono oggi ancora più convinto che quella era la parte giusta dove bisognava, dove bisogna, stare. un caro saluto a tutti, alessandro.
Paola Ricciardi dice
Mi sembra un’iniziativa molto interessante e molto utile per capire la realtà dei movimenti di cittadinanza attiva che stanno proliferando anche in Toscana e a Firenze.
Anche qui a Firenze chi da anni sta cercando di contrastare la deriva della politica attuale si sta ponendo queste stesse riflessioni.
Grazie di cuore e un augurio che questa riflessione possa esere ripresa in ambito fiorentino.
saluti Paola