di Stefano Petrungaro
Riprendiamo sul sito il tema affrontato nei due recenti incontri organizzati da storiAmestre, in collaborazione con gli Itinerari educativi del Comune di Venezia: “Guerra mondiale, racconti nazionali. La prima guerra mondiale nei libri di scuola”. Pubblichiamo alcune pagine dal volume di Stefano Petrungaro, Riscrivere la storia. Il caso della manualistica croata (1918-2004), uscito nel 2006 in una collana promossa dalla Fondazione Federico Chabod di Aosta, dove si presenta l’evoluzione del racconto dell’attentato di Sarajevo (e dell’identità dell’attentatore Princip) dall’immediato dopoguerra agli anni Novanta del Novecento.
A essere rigorosi, l’evento in questione non appartiene alla storia nazionale croata in senso stretto, poiché si svolge al di fuori dei confini nazionali, l’attentatore non è croato, come non sono croati i principi d’Asburgo vittime dell’attentato; tuttavia, è indubbio il suo ruolo decisivo per la storia della Croazia, confermato infatti dal largo spazio dedicatogli nei manuali esaminati.
Passando quindi alla sua analisi, osserviamo che nei primi testi scolastici monarchici l’attentato di Sarajevo (28 giugno 1914) è cautamente lasciato in una luce ambigua: l’arciduca Francesco Ferdinando quindi «cade», senza ulteriori precisazioni (S. Cajkovac, 1921, p. 232), senza che si indichi un colpevole. E comunque, anche quando questo avviene, in realtà non porta con sé molte delucidazioni: «Caddero [arciduca e consorte] per mano dei cospiratori bosniaci» (S. Srkulj, 1919, p. 413). La luce è fosca («cospiratori»), l’identità vaga («bosniaci»). Nel giro di pochi anni, però, lo stesso autore uscirà da questa iniziale indeterminatezza: l’attentatore ora emerge nettamente, acquista un nome – Gavrilo Princip, ovviamente – e si trasforma in un «Serbo erzegovese» (Srkulj, 1930, p. 277). Anche negli altri manuali si osserva lo stesso fenomeno chiarificatore: s’inizia a precisare che a sparare fu «un giovane Serbo bosniaco» (Z. Jakic, 1929, p. 140), che successivamente è addirittura «un nazionalista serbo della Bosnia» (Jakic, 1935, p. 105), fino a diventare seccamente «il giovane serbo Gavrilo Princip» (Jakic, 1940, p. 132) Assistiamo, quindi, a uno slittamento dell’identità del giovane Princip, il quale diventa sempre meno bosniaco (da leggersi, nell’ottica di allora, come connotazione “vaga”, “anazionale”), e sempre più serbo, mano a mano che si sviluppa un sentimento di simpatia per un giovane che ha avuto il coraggio di opporsi alla dominazione straniera.
L’ambigua circospezione che caratterizza questa prima fase era dovuta al fatto che il governo serbo ha sempre rifiutato qualsiasi coinvolgimento nell’assassinio e che, forse, si pensava che fosse sconveniente appoggiare apertamente un regicida. Pertanto, si procede a depotenziare l’evento in relazione alla guerra che seguì, così che esso fu solo «la scintilla di un fuoco bellico già a lungo preparato» (Cajkovac, 1921, p. 232), o persino un «pretesto» (Jakic, 1929, p. 140). Parallelamente, si ribadisce l’estraneità della Serbia a quanto accaduto: «con l’attentato il governo serbo non aveva alcun legame» (Jakic, 1935, p. 105) – precisazione che si ritrova identica anche altrove (ad esempio in D. Siller, 1926, p. 85).
Riassumendo i dati del periodo monarchico, sembra che la luce di cui è investito l’avvenimento lentamente si modifichi, passando da una prima condanna, di sapore ancora austriaco (i «cospiratori» di Srkulj nel 1919), a una progressiva tolleranza dell’azione regicida sì, ma comprensibile nelle sue motivazioni (contro il giogo straniero). Pur continuando a voler nascondere il coinvolgimento diretto del governo serbo, la valutazione del gesto passa da atto terroristico ad azione di eroica rivolta, guardata quindi con crescente simpatia, mentre Gavrilo Princip esce dalle nebbie vagamente “bosniache”, per diventare d’origine più definitamente serba. A ciò va aggiunta la menzione di una particolare «cultura politica del tirannicidio che si diffuse tra i giovani rivoluzionari balcanici a cavallo tra Otto e Novecento», la quale, prendendo spunto dal mito di Kosovo e dalla figura di Milos Obilic, esaltava l’ideale del “gesto definitivo” contro il nemico, approdando ad una fusione dell’esaltazione del martirio con idealità nazionali e religiose insieme1.
L’intera vicenda si arricchirà sempre più nei dettagli simbolici, per cui, sempre lo stesso Srkulj, nel suo primo manuale ustascia aggiunge l’informazione che il giovane «Serbo erzegovese» – tale rimane, infatti – era «membro di un’organizzazione rivoluzionaria giovanile, che attraverso gli attentati voleva costringere l’Austria-Ungheria ad abbandonare la Bosnia e l’Erzegovina, così che si potessero unire alla Serbia. In questo omicidio c’è la mano anche della Serbia» (Srkulj, 1941, p. 282). In questo breve passo, ci sembra di rilevare una propensione all’esaltazione del gesto in questione da ricondurre a più motivi, tutti utili alla propaganda ustascia: 1) l’attentatore era giovane, 2) era inquadrato in un’organizzazione giovanile, 3) applicava la strategia degli attentati (come il movimento ustascia prima del 1941), 4) voleva liberare la Bosnia-Erzegovina2. Inoltre, la sua presunta identità etnica serba, già dichiarata nell’edizione precedente del 1941, viene confermata, ma non più per esaltare il carattere indomito del popolo serbo: piuttosto, essa torna ora utile come ennesima prova dei continui tentativi egemonistici della Serbia (pochi anni dopo sarà ancora più esplicito, cfr. Srkulj, 1944, p. 198).
Passando ai manuali socialisti, vediamo che la figura di Princip ne esce in una luce decisamente positiva: ripresenta, paradossalmente, tutti i tratti che erano già apparsi positivi nel periodo ustascia (è un giovane, rivoluzionario, che combatte l’invasore), liberandosi però dell’immagine di pedina della politica espansionistica serba. In primo luogo, torna ad essere «bosniaco», denominazione che ora non è più vagamente territoriale, ma che fa riferimento ad una neonata repubblica. In secondo luogo, il fatto che egli e i suoi compagni «venissero da Belgrado» ora, ovviamente, non è più letto come una colpa, quanto piuttosto come indice di una fruttuosa collaborazione infra-jugoslava. In ogni caso, si torna a suggerire un’estraneità all’attentato da parte del governo di Belgrado (S. Djuranovic-M. Zezelj, 1963, p. 11). Non è questa l’unica “involuzione” verso i manuali monarchici, poiché anche l’intera vicenda torna ad essere un mero «pretesto» per una guerra «da lungo tempo preparata» (ibid.).
Sostanzialmente, si può dire che il taglio interpretativo rimane lo stesso per tutta l’epoca socialista, anche se col tempo si raffina e acquista nuovi elementi. Alla fine degli anni Ottanta, ad esempio, l’azione di Princip è calata nel contesto dell’associazione «Giovane Bosnia», il cui giudizio è chiaro: «i seguaci della “Giovane Bosnia” non temevano di mettere a repentaglio la vita pur di realizzare i propri ideali. Essi caldeggiavano l’idea del sacrificio personale e dell’attentato quali mezzi di lotta» (D. Pavlicevic-F. Potrebica-R. Lovrencic, 1986, p. 186). Ancora una volta, come già nel caso dei manuali ustascia, ci sembra di riconoscere in questo tono ammirato un’auto-giustificazione a posteriori delle lotte compiute e dei mezzi adottati per metterle in atto. In questo caso, ci sembra che il richiamo sia alle azioni di varia natura che i partigiani titini mossero, nel corso della seconda guerra mondiale, contro il variegato fronte che gli si opponeva. Certo, subito dopo si aggiunge: «Non sapevano che tale metodo [terroristico] non può portare a dei risultati duraturi»; eppure, ciò non cambia molto il tono elogiativo col quale sono presentati Princip e i suoi compagni. E per quanto riguarda il loro legame col governo serbo, rileviamo che esso è ridotto all’«aiuto in armi [che] verrà offerto loro dagli ufficiali serbi raccolti nell’organizzazione “Unione o morte!”» (ibid.). Sintetizzando quel che riguarda i manuali del periodo socialista, sembra chiaro che l’attentatore, diventato del tutto bosniaco, è presentato come un eroe da prendere a modello.
Col passaggio all’indipendenza della Croazia, il fatto è subito illustrato in maniera diversa, iniziando col far notare la coincidenza della data dell’attentato con il giorno di san Vito, patrono dei Serbi; si prosegue indicando un certo coinvolgimento della Serbia (F. Potrebica-D. Pavlicevic, 1992, p. 153), che si farà nettamente più esplicito nella riedizione dello stesso manuale del ’96, dove nel paragrafo intitolato «La Serbia prepara l’attentato» si legge: «Hanno mandato subito in Bosnia degli attentatori del gruppo detto “Giovane Bosnia”. Erano addestrati ed armati in Serbia e mandati a Sarajevo per uccidere l’erede al trono» (Potrebica-Pavlicevic, 1996, p. 106). I toni si fanno più crudi e ne danno un chiaro giudizio di condanna, la responsabilità è nettamente addossata a Belgrado, la coincidenza della data è presentata ora come intenzionale perché simbolica («la festa nazionale serba»). Finché si giunge all’ultima tappa della trasformazione di questo gesto, definito «un atto terroristico» (ibid.; lo stesso in I. Viucic, 1998, p. 33).
Eppure, proprio nello stesso anno è pubblicato un altro manuale dove i toni, e i contenuti, sono molto diversi: nel paragrafo «L’attentato a Sarajevo fu il pretesto per la guerra» (corsivo mio: certe scelte lessicali ci risultano a questo punto assai significative) si legge che «Il suo arrivo [di Francesco Ferdinando] lo hanno sfruttato gli appartenenti all’organizzazione segreta Giovane Bosnia, i quali combattevano con metodi terroristici per la liberazione della Bosnia e Erzegovina dal governo asburgico» (D. Agicic, 1996, p. 97). Si riportano in tutta la loro gravità i metodi violenti di quell’organizzazione, ma non compare nessun accento antiserbo, senza con ciò voler celare che «L’indagine sull’attentato ha dimostrato il coinvolgimento della Serbia nell’omicidio di Francesco Ferdinando» (ibid.). E la “spinosa” questione delle origini dell’attentatore – peraltro grandemente declassato, tanto da non comparire nel testo, ma solo in foto – è così risolta dalla didascalia che dice: «lo studente sarajevese Gavrilo Princip» (ibid.). Che studiasse al ginnasio di Sarajevo è, infatti, incontestato e, forse, il dato fondamentale.
Nota della redazione. Le pagine sono tratte Stefano Petrungaro, Riscrivere la storia. Il caso della manualistica croata (1918-2004), prefazione di Stuart J. Woolf, Fondazione Federico Chabod-Stylos, Aosta 2006, pp. 195-200 (paragrafo Slittamenti identitari: Gavrilo Princip e l’attentato di Sarajevo, con minime modifiche rispetto all’originale). I nomi e le date tra parentesi si riferiscono agli autori dei manuali di storia per le scuole e alla data della loro pubblicazione.
Note al testo:
- Cfr. S. Bianchini, Sarajevo, le radici dell’odio. Identità e destino dei popoli balcanici, Edizioni Associate Editrice Internazionale, Roma 1996, p. 69. Per quanto riguarda Milos Obilic, secondo la tradizione egli sarebbe il vendicatore della sconfitta subita dai cristiani contro gli ottomani nella battaglia che si combatté il 28 giugno 1389 nella Piana dei Merli («Kosovo polje»; da questa disfatta nasce “il mito di Kosovo”); egli penetrò nel campo nemico e uccise il sultano Murad I. Si veda F. Martelli, La guerra di Bosnia. Violenza dei miti, il Mulino, Bologna 1997, pp. 67-115. [↩]
- Si tenga presente che l’annessione delle due province bosniache alla Croazia costituiva uno dei principali obiettivi della politica ustascia; esso fu temporaneamente raggiunto con l’instaurazione dello Stato indipendente croato del 1941-45. [↩]