di Pietro Di Paola
Il nostro amico e corrispondente da Londra Pietro Di Paola asseconda la nostra passione per le origini del Primo maggio, quegli anni in cui si inventò una festa di cui si sentiva il bisogno, sfidando ostilità, incomprensione e repressione. “Vi mando un Primo maggio del 1895 raccontato da due punti di vista diversi”, ci ha scritto, allegando un ricordo di Pietro Gori (scritto nel 1907) e una cronaca contemporanea del quotidiano londinese “Morning Post”.
1. Come mostrano alcuni dei brani di Marco Fincardi che avete pubblicato, le cronache del Primo maggio variano secondo il punto di vista degli osservatori, partecipi o ostili. Ne sono un buon esempio anche due resoconti del Primo maggio 1895 a Londra: da un lato un ricordo di uno dei più celebri anarchici italiani, Pietro Gori (1865-1911), autore di alcuni canti ancora notissimi, come Addio Lugano bella o Gli stornelli d’esilio o l’Inno del primo maggio sull’aria del Va’ pensiero di Verdi; dall’altro la cronaca della stessa manifestazione pubblicata il 2 maggio dal quotidiano londinese “Morning Post”.
2. Il “Morning Post” comincia la sua cronaca in modo subito ironico e provocatorio: i “Friends of Labour” invitati a partecipare alla manifestazione evidentemente avevano una “poor opinion of their duty”. Per prima cosa il cronista conta i partecipanti (per dimostrare che non erano poi così tanti): all’inizio il corteo non superava le millecinquecento persone, benché il tempo sembrasse favorevole. Molte bandiere, due bande – l’aria favorita quella della Marsigliese –, ma in effetti, secondo il cronista, pochi uomini adulti britannici (per lo più giovani e stranieri – i discorsi che si sentivano erano in francese, tedesco, yiddish) e in generale poco entusiasmo.
Il tempo di arrivare ad Hyde Park, meta della manifestazione, ed ecco un’improvvisa pioggia a dirotto: una “heavy shower” che ha scoraggiato i più dal proseguire. Nessuna folla ad accogliere il corteo: sicché 300, massimo 400 persone davanti a ciascuno dei tre palchi montati dagli organizzatori. Gli anarchici, che occupavano uno spazio separato e discosto dagli altri, avevano messo il proprio palco sotto dei grandi alberi, un po’ al riparo della pioggia, cosicché la massa dei manifestanti si unì a loro, non tanto per essere istruiti nei principi anarchici (parole del giornale) ma per ripararsi un po’ dall’acqua.
Commentando quanto accade di fronte al palco dei socialisti, il cronista torna sull’elemento nazionale: “There was, however, a suspicious absence of British cheers, and the predominance of the foreign Labour element was only too palpable”.
Ironia anche sulla simbologia utilizzata: vengono venduti fogli e opuscoli e caricature, una delle quali mostra un mulo – rappresentante del Labour – che prende a calci proprietari terrieri e capitalisti; ma “a man in the crowd remarked that ‘it’s only human donkeys that works’”.
Chi volesse leggere l’articolo completo, può cliccare qui.
3. È così che Gori introduce i suoi ricordi:
“La prima alba del giorno augurale dei lavoratori ci pareva piena di una luce nuova, e come vibrante delle voci, degli inni, dei saluti delle plebi, lontane per le varie terre del mondo, e pur così vicine le une alle altre nell’idea di resurrezione, che ormai le affratellava: la idea che rendeva grande nelle speranze loro la fede, il numero, la forza, e perfin la miseria – elementi tutti di immancabile vittoria.
Ah quell’alba del 1° Maggio! Non la dimenticherò più.
Avevo varcato di poco i vent’anni, e l’entusiasmo bolliva nel sangue giovine, su cui non era passata ancora l’ondata rabbiosa delle amarezze e dei disinganni di quasi un ventennio.
Se chiudo gli occhi, abbandonandomi alle visioni intime ed incancellabili, rivivo quelle dieci giornate tornanti, ad ogni primavera del Nord, ad ogni autunno australe, per quell’ultima decade del secolo – e mi sembra assistere alla fuga fulminea di un cinematografo, nel quale io non sia ormai più parte viva, ma semplice spettatore”.
Seguono brevi rievocazioni per gli anni dal 1890 al 1898. La “prima pasqua del lavoro” la vive a Livorno. Nel 1891 si trova “nella cornice superba delle prealpi, da Baveno a Locarno, sopra lo specchio azzurro del Lago Maggiore”.
“Ah, il terzo mio 1° Maggio! Rivedo il giovane pallido, in fondo di una segreta del carcere giudiziario di Milano”.
“Primo Maggio del ’93, fiero numero dall’aspetto giacobino, come ti ricordo soavemente, sul gran quadro verde della campagna di Pisa, col saluto lontano delle Alpi Apuane!…”
“Il primo Maggio del 1894 avrebbe potuto essere per il troppo intimo amico mio giorno di meditazione forzata, come quello del 1892; ma l’arresto operato troppo presto, per una bestialità provvidenziale delle guardie che lo eseguirono, dette luogo ad uno scandalo, che arrivò fino al Parlamento, di modo che proprio il 30 di aprile l’imprigionato fu rimesso in libertà.
Oh, bel golfo di Spezia, su cui egli salutò all’indomani, liberamente, il primo sole di Maggio!…”.
Ed ecco il “primo Maggio d’esilio”, quello del 1895: a Londra
“La bufera reazionaria aveva soffiato da tutte le parti d’Europa, con l’impeto delle passioni cieche e vili; e mentre il fior della gioventù generosa, in Francia, Italia, Spagna ed in altri paesi gemeva nelle carceri e nelle relegazioni orrende – alcuni, riusciti a sfuggire a codesto delirio di ferocia ammanettatrice, esulavano come l’ebreo errante della leggenda – di terra in terra.
In Londra – questa vasta e fumosa fucina di tutte le rivoluzioni – avevan trovato rifugio, per quanto fatto di miseria, i proscritti del Sud.
Per essi, tra le venti piattaforme erette in Hide Park per gli oratori della grande manifestazione operaia, ve ne era una speciale, dalla quale parlarono a turno Kropotkine, Malatesta, Luisa Michel, e, con altri, il giovane proscritto più pallido ancora.
La imponente massa di popolo, un vero esercito di lavoratori (di cui immaginavo la invincibil potenza, sol che avessero voluto) passava con le seriche bandiere spiegate, da ore ed ore – mentre da ore ed ore, fiumane di vera eloquenza popolare, dalle venti piattaforme, mettevano su quel mare di teste come una ondulazione ed un fremito di procella.
Ed una procella passava infatti, su per il cielo caliginoso della metropoli, mentre Luisa parlava con quel suo melanconico e gagliardo accento bretone di questa grande famille des malheureux, ch’ella aveva fatto propria, dacché i prepotenti le avevano ucciso, a colpi di terrore e di amarezze, la sua.
Quella vecchia, pur tanto nella sua bruttezza bella di gioventù ideale, coi capelli grigi svolazzanti, su cui era passato il soffio tragico della rivoluzione parigina di marzo, si ergeva, – come la nemesi della storia in faccia agli uragani, – contro le raffiche che le flagellavano con le grosse goccie di pioggia le guancie emaciate: mentre gli occhi, due occhi grigi pieni d’infinita dolcezza anche tra i lampi di sdegno umano, stavano fissi, mentr’ella parlava, e come irradiati dalla luce trionfale d’un meriggio lontano. Le sue parole suonavano squillanti e sicure, come un vaticinio: ed ognuno degli ascoltanti vedeva ascendere la realtà viva di quei sogni, in un domani immancabile”.
Gori conclude nelle pagine seguenti rievocando anche i primo Maggio del 1896 (ancora in esilio, negli Stati Uniti), del 1897 (in Toscana), del 1898 (a Milano, con la polizia alle calcagna, a pochi giorni dalle terribili giornate delle cannonate di Bava Beccaris). Chi volesse leggere il testo integrale (uscito per la prima volta nel 1907 sulla rivista "Pensiero", a. V, n. 3), può cliccare qui (diamo l'edizione apparsa nel 1948, nel volume X, Pagine di vagabondaggio, delle opere pubblicate da Editrice Moderna, Milano in 14 voll. tra 1946 e 1949).
4. Le differenze tra i due racconti sono dunque evidenti, ciascun lettore avrà sussultato più o meno in vari punti, a seconda dei gusti e della sensibilità. Per conto mio, sottolineo due cose.
Quelli che per il “Morning Post” sono stranieri, per Gori viceversa sono un segno del carattere internazionalista della manifestazione. Dal canto suo, Gori non conta i partecipanti (esagera però dicendo che le piattaforme per i discorsi erano venti), e sottolinea piuttosto l’intensità emotiva della partecipazione. Mentre per il “Morning Post” il protagonista della giornata è il tempo atmosferico, nel ricordo di Gori si intravede la pioggia solo perché Louise Michel, che tenne uno dei discorsi, sfidando “le raffiche che le flagellavano con le grosse goccie di pioggia le guancie emaciate”, simboleggiava “la nemesi della storia in faccia agli uragani” (e sembra di sentire un verso di Addio Lugano… “noi oggi t’accusiamo in faccia all’avvenir”). Ma è soprattutto per il tono che gli scritti sono opposti uno all’altro: l’articolo del “Morning Post” è ironico, il ricordo di Gori, pur intriso di nostalgia, è sostanzialmente epico.