di Lorenzo Feltrin
Lorenzo Feltrin ci ha inviato la sua lettura di un libro dedicato a un personaggio in cui si è imbattuto di continuo nel suo lavoro di ricerca sulla storia di Porto Marghera: Eugenio Cefis.
Occupandomi di Porto Marghera, mi sono spesso imbattuto nel nome di Eugenio Cefis. D’altronde, l’ex presidente di Eni e Montedison è una personalità molto chiacchierata. Soprattutto dopo la sua morte, è stato oggetto di tutto un sottobosco di letteratura – al confine tra il giornalismo d’inchiesta e il complottismo – che ipotizza il coinvolgimento di Cefis negli omicidi di Enrico Mattei, Mauro De Mauro e Pier Paolo Pasolini, nella fondazione della loggia massonica P2 e nella pianificazione di un colpo di stato, giusto per citare le accuse più eclatanti. Così, quando ho scorto il volto del misterioso manager sulla copertina del libro Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri di Paolo Morando (Laterza, Roma-Bari 2021), non ho resistito alla tentazione.
Per quanto riguarda i misteri evocati dal titolo, il lettore affamato di certezze è destinato a rimanere a dieta. Dopo una lunga rassegna di tutti i sospetti che circondano il vecchio “partigiano bianco”, il libro mostra come tutte le suggestioni esistenti non arrivino a fare alcuna prova, eccezion fatta per le intercettazioni illegali e il già noto sistema di fondi neri per comprare giornalisti e politici, previamente instaurato dallo stesso Mattei. Né d’altra parte emergono alibi di ferro per fugare ogni dubbio sulla “purezza” del nostro.
Ma aggiungo subito che vale la pena di leggere il libro. Si tratta infatti della biografia più sistematica e meglio documentata di Cefis, dalla quale emergono molti temi interessanti oltre a quello dei “misteri d’Italia”. Tra questi c’è sicuramente l’emergere della coscienza del degrado ambientale, al quale le società dirette dal nostro non erano estranee, e su questo sì che non ci sono dubbi. Per esempio, è preziosissima la ricostruzione del braccio di ferro tra Montedison da un lato e ambientalisti e pescatori corsi dall’altro sugli sversamenti nel Mar Tirreno dei nocivi “fanghi rossi” dello stabilimento di Scarlino (Grosseto). Uno dei primi conflitti esplicitamente ambientali in Italia, siamo nei primi anni ’70, combattuto persino a suon di bombe (fortunatamente senza vittime) da parte del “Gruppo della sopravvivenza per la difesa dell’ecologia” e degli indipendentisti corsi (Morando, Eugenio Cefis cit.,, pp. 241-260).
Comunque, il tema che qui mi interessa è la relazione tra Cefis e Porto Marghera, niente affatto estraneo alla questione ambientale. Alcuni episodi di questo sofferto rapporto sono tracciati nel libro di Morando, per altri mi rifarò a fonti diverse.
Un prodromo non menzionato nel libro di Morando è la scomparsa, tra il 10 e il 20 marzo 1962, della nave Hedia, che trasportava un carico di fosfati da Casablanca a Porto Marghera. La verità ufficiale fu che i venti uomini dell’equipaggio morirono in un naufragio accidentale. Tuttavia, un altro libro fresco di stampa – Gianni Papa, Hedia. Ultimo messaggio 10:00 N807 (Supernova, Venezia 2021) – sostiene l’ipotesi che si fosse trattato di un sabotaggio intenzionale da parte dei francesi, governativi o meno. Infatti, all’epoca Mattei sosteneva il Fronte di liberazione nazionale algerino nella guerra d’indipendenza contro la Francia, in vista di accordi preferenziali per lo sfruttamento dei giacimenti algerini da parte dell’Eni. Tale sostegno avveniva anche attraverso l’invio clandestino di armi su navi apparentemente commerciali. Secondo Papa, l’affondamento della Hedia potrebbe essere stato in realtà un avvertimento dei francesi a Mattei. Mattei che sarebbe morto lo stesso anno, quasi sicuramente a causa di una bomba piazzata sul suo aereo privato. D’altronde, il libro di Morando su Cefis si conclude proprio rivelando nuovi elementi sulla morte di Mattei, tutti a sostegno della “pista francese”. Tuttavia, sia per quanto riguarda la Hedia sia per i mandanti ed esecutori dell’omicidio Mattei, restiamo nell’ambito delle congetture.
Dopo aver abbandonato tutti i suoi incarichi in Eni il 15 gennaio 1962 a causa di divergenze con Mattei, Cefis tornò a dirigere la grande azienda di stato subito dopo la scomparsa del suo presidente, e ne divenne a sua volta presidente nel 1967. Da quella vetta, organizzò la scalata alla Montedison con l’aiuto di Enrico Cuccia, direttore generale di Mediobanca. Già dal 1968, Montedison, la più grande azienda privata della chimica italiana, era controllata dall’Eni, la più grande azienda di stato della chimica italiana. Il progetto era quello di creare un colosso in grado di farsi rispettare dai pesi massimi statunitensi e tedeschi. Si sa che Cefis non riuscì nell’impresa: nel 1977, dopo anni di bilanci in rosso, si ritirò in Svizzera, poi in Canada, e non tornò mai più a risiedere in Italia.
E che cosa c’entra tutto questo con Porto Marghera? Semplice, a Marghera la Montedison aveva ereditato le lavorazioni di fertilizzanti, alluminio e zinco in prima zona industriale dalla Montecatini, e il Petrolchimico costruito in seconda zona industriale dalla Edison. Inoltre, l’Agip/Irom aveva un’importante raffineria in prima zona industriale. Insomma, Porto Marghera era un polo produttivo nevralgico dell’impero Eni-Montedison.
Di certo, i grandiosi piani di Cefis non sono stati aiutati dall’esplosione dei grandi scioperi del 1968 al Petrolchimico e dalla lunga ondata di lotte operaie del decennio successivo in tutta Porto Marghera, sulle quali esiste un’amplissima letteratura. Infatti, chiamato a testimoniare in parlamento nel 1972 proprio sulla crisi della chimica italiana, Cefis spiegò come la sua relazione con Porto Marghera non fosse proprio idilliaca:
La situazione, in questa zona, è veramente allucinante: 17.500 persone lavorano in un entroterra stretto da costruzioni ossessionanti, con un’unica via di accesso (per cui bastano cinquanta scalmanati per bloccare tutti gli stabilimenti). Felici noi se svegliandoci una mattina ci accorgessimo che gli impianti di Marghera si sono spostati altrove!
Questa citazione non compare nel libro di Morando, ma è stata riportata da Gilda Zazzara nel suo Il Petrolchimico (Il poligrafo, Padova 2009, p. 52).
Che tra Cefis e Porto Marghera le cose non andassero per il verso giusto lo testimonia anche un articolo di Lavoro zero (rivista dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera, disponibile presso l’Archivio operaio Augusto Finzi della Biblioteca comunale di Marghera), dal titolo difficilmente equivocabile di E Cefis disse: Porco Marghera (numero del febbraio 1976, pp. 18-19). L’articolo era pubblicato a margine della cronaca di una vertenza nella quale “La sera del 22 novembre 1975, per la prima volta, gli operai turnisti del Petrolchimico rimisero in marcia gli impianti senza il permesso e la collaborazione dei ‘capi’” (ivi, p. 18). Ormai dal ’68, gli operai avevano appreso a fermare gli impianti autonomamente e in sicurezza, in modo da rendere gli scioperi più efficaci. Ma in questo caso la Montedison aveva tentato di contrastare tale prassi rifiutando di riavviare gli impianti, decretando così la serrata. Il tentativo non riuscì appunto a causa del riavvio effettuato dagli operai con l’appoggio del Consiglio di Fabbrica. Cefis fu così costretto a volare a Venezia il 24 novembre 1975 per tentare di convincere la giunta comunale di sinistra a dargli manforte.
A proposito dell’esasperazione di Cefis per l’insubordinazione operaia, Morando riferisce un aneddoto:
Come quella volta con Brežnev, il gran capo del Partito comunista sovietico che lo interrogava sulle condizioni dell’industria chimica in Italia. Ah, sapesse, aveva spiegato Cefis, tra scioperi, assenteismo e costo del lavoro… un vero disastro. E Brežnev: “Perché non va a impiantare le sue fabbriche in Grecia? Quella è gente seria”. Ed era la Grecia [della dittatura] dei colonnelli… (Morando, Eugenio Cefis cit., p. 150).
Insomma, una volta partito per l’esilio volontario nel 1977 Cefis sarà stato ben contento di essersi sbarazzato una volta per tutte dall’incubo di Porto Marghera. Ma l’incubo tornò a cercarlo, e più di una volta.
Il 22 febbraio 1990, l’ex agente del Sid Guido Giannettini fu chiamato a testimoniare sulla vicenda dell’Argo 16, l’areo dell’Aeronautica Militare Italiana precipitato il 23 novembre 1973 proprio sul Petrolchimico di Porto Marghera, non lontano dal serbatoio del pericolosissimo gas fosgene che tanto avrebbe fatto discutere trent’anni dopo. La congettura più in voga è quella secondo cui il velivolo sarebbe stato abbattuto dal Mossad israeliano come rappresaglia per gli accordi tra Moro e l’Olp, quindi Cefis non c’entra niente. Ma proprio nel corso di tale deposizione Giannettini citò una testimonianza secondo cui Cefis sarebbe stato uno dei finanziatori del tentato golpe Borghese (ivi, p. 200). Improbabile, ma quel che importa a noi di tutto questo minestrone è che Porto Marghera tornava a bussare alla porta di Cefis.
Porta che fu sfondata pochi anni dopo dal celebre processo ai dirigenti del Petrolchimico per l’inquinamento dell’ambiente e la morte di 157 operai a causa dell’esposizione al cloruro di vinile (Cvm) (ivi, pp. 311-321). Anche su questo snodo la letteratura disponibile è piuttosto ampia. Così il Pm Felice Casson – che forse sperava di fargliene pagare una per tutte – trascinò nuovamente Cefis dalle parti di Marghera. La prima volta fu per una deposizione in fase istruttoria il 7 febbraio 1996 presso la Procura di Venezia, la seconda volta fu durante il processo, l’8 maggio 2001 all’Aula Bunker di Mestre. L’accusa si soffermò su una lettera firmata da Cefis e inviata nell’estate del 1975 alla Presidenza del Consiglio regionale veneto, in cui si leggeva: “Il Cvm è un sorvegliato speciale tenuto sotto rigoroso controllo da almeno cinque anni”. Secondo l’accusa, questa lettera contribuiva a provare che i vertici Montedison sapevano della rischiosità del Cvm da prima del 1974, data in cui la natura cancerogena della sostanza divenne pubblica e l’azienda si mosse per ridurre l’esposizione degli operai. Cefis invece sottolineava come i suoi compiti non riguardassero la gestione tecnica degli impianti.
In ogni modo, il 2 novembre 2001 la sentenza di primo grado del giudice Nelson Salvarani assolse tutti gli imputati. Nella rassegna stampa dell’Archivio Bortolozzo – anch’esso disponibile presso la Biblioteca comunale di Marghera – ho trovato questo interessante scambio a margine della sentenza tra l’avvocato della difesa Federico Stella e il giornalista del Corriere della sera Alessandro Trocino:
AT: Esporre qualcuno a una morte probabile non è un crimine?
FS: Per il nostro codice penale non è reato. È un errore pensare che il diritto penale sia strumento per risolvere problemi sociali. A questo deve pensare lo Stato amministrativo, non il giudice.
AT: Alle vittime chi ci pensa ora? E ai familiari? Se li incontrasse ora, cosa direbbe?
FS: Li abbraccerei. Come farei con tutte le persone che soffrono perché hanno avuto una disgrazia.
AT: Disgrazia? Ma non sono morti di morte naturale.
FS: Questo è tutto da provare.
AT: Non crede che, al di là della responsabilità penale, gli ex dirigenti del Petrolchimico siano responsabili moralmente per queste morti?
FS: Va su un terreno difficile. Tutti noi utilizziamo le cose buone del sistema produttivo senza fare una piega. Usiamo oggetti di pvc, cioè di plastica, e quindi anche noi siamo responsabili moralmente.
AT: Tutti colpevoli nessun colpevole.
FS: Non direi. Il problema di fondo è che facciamo parte di un sistema produttivo che mette nel conto un certo numero di vittime. E lo accettiamo. Lamentarsi delle conseguenze e trovare capri espiatori è ipocrita (“Corriere della sera”, 3 novembre 2001, p. 2).
Quello che non sapevo, e che ho scoperto nel libro di Morando, è che nel 1988 Federico Stella fu avvocato delle Acli di Milano che si erano costituite parte civile nel processo per la tragedia di Stava, in cui il crollo dei bacini di decantazione di una miniera di fluorite fece 268 vittime. Tra gli imputati c’era anche Cefis, che venne assolto tra le proteste di Stella, secondo cui “dietro a tutto stava la filosofia prioritaria di Montedison: il profitto doveva venire prima della tutela della collettività” (Morando, Eugenio Cefis cit., p. 296). Lo stesso Stella dell’intervista qui sopra. Morando commenta così il cambiamento del giurista: “Di certo la parcella pagata da Foro Bonaparte a Stella avrà fatto impallidire quella saldatagli dalle Acli milanesi” (ivi, p. 321).
Il 15 dicembre 2004, la corte d’appello ribaltò in parte la sentenza di primo grado del processo Petrolchimico, condannando con pene leggere cinque imputati e riconoscendo le responsabilità di altri. Ma tra i condannati non c’era l’ex presidente Montedison, era morto sette mesi prima. Solo così Eugenio Cefis si liberò dell’incubo di Porto Marghera.
Nota 1. Questo contributo è stato realizzato con l’appoggio della borsa di ricerca ECF-2020-004 della Leverhulme Trust. (l.f.)
Nota 2. Lorenzo Feltrin è ricercatore presso l’Università di Birmingham (Regno Unito), dove svolge un progetto di ricerca su Marghera. Il suo lavoro ha una specifica attenzione sul rapporto ambiente-lavoro e un interesse per le trasformazioni conosciute dal quartiere nel corso del tempo. Ha contattato storiAmestre quest’estate, chiedendo una mano per raggiungere persone che hanno lavorato o vissuto a Marghera. (red)