di Giannarosa Vivian
Giannarosa Vivian ha partecipato alla manifestazione del 15 ottobre 2011 per protestare contro il Pat del Comune di Venezia organizzata da cittadini e associazioni locali. Qui di seguito la cronaca di quella mattina.
1. Portare con sé ciambelle salvagente di plastica, pinne colorate e maschere da sub. Oggetti che di solito tiriamo fuori a inizio estate e alla fine delle vacanze tornano in ripostiglio, e che invece in un prossimo futuro dovranno essere tenuti a portata di mano. Oggetti simbolici – ma neanche poi tanto – della realtà che si prospetta a chi andrà ad abitare nell’area compresa tra l’aeroporto Marco Polo di Tessera, il fiume Dese, e la bretella che collega la zona di Marcon-Dese alla via Triestina: cioè ai futuri abitanti di Tessera City. Oltre che agli attuali abitanti della zona.
Il volantino che riporto (cliccare qui per visualizzarlo) è stato scritto da Fabrizio Zabeo, portavoce del Comitato Allagati di Favaro Veneto, una delle zone del territorio veneziano regolarmente colpite dagli allagamenti. La manifestazione di oggi è promossa da più di trenta tra associazioni ambientaliste e comitati attivi a Venezia, Mestre, terraferma ed estuario.
2. È una bella mattina di autunno: aria fresca frizzante, sole splendente che accende di riflessi caldi il giallo, il marrone, l’arancio del fogliame di alberi e siepi. Appena esco di casa mi accorgo però che quella che mi era sembrata una fresca aria frizzante è in realtà un vento freddo che arriva da nord e, come si dice, taglia le orecchie: dev’essere se non vera e propria bora, come minimo un borìn. “Cosa, dici – mi chiede Chiara per strada – riusciremo a essere almeno un duecento persone?”.
Chi ha organizzato la protesta è già pronto sul piazzale antistante la chiesa di Tessera, ognuno attrezzato a suo modo per la marcia anfibia.
Fabrizio Zabeo ha istallato sulla struttura di un passeggino per bambini l’ingrandimento fotografico di un’istantanea che lo riprende nell’atto di portare in spalla un uomo più vecchio (suo padre? un parente? un vicino di casa?). Sta attraversando un corso d’acqua. Sotto, foto più piccole mostrano diversi momenti vissuti durante un allagamento: una stanza di casa molto bene arredata e molto allagata; visi che esprimono fatica, rabbia; lo sforzo di organizzare i soccorsi. Niente rassegnazione però, a giudicare dal volantino.
La stessa sensazione me la trasmette, nel suo linguaggio senza parole, un’altra foto ingrandita che mi capiterà di vedere più tardi durante la marcia, fissata sul manubrio di una bicicletta, come una specie di schermo sottilissimo. Un locale (taverna? soggiorno?) è invaso dall’acqua. Appese alle pareti della stanza si vedono le cose che tutti abbiamo in casa: stampe incorniciate, ninnoli, ricordi di viaggio a cui col tempo ci si affeziona, presine a forma di guanto per non scottarsi le mani. Lo spazio oltre l’arco di mattoni sotto al caminetto, là dove di solito si tiene la legna per alimentare il fuoco, è pieno d’acqua fino a metà dell’altezza.
Per il momento siamo in pochi sul piazzale della chiesa, direi una ventina di persone tra donne, uomini e bambini. Pian piano ne arrivano altre. Mentre aspettiamo di essere di più, Stefano Boato distribuisce copie di una sua piccola interessante pubblicazione: , Corte del Fontego editore, Venezia 2011. Le tiene in una busta di nylon bianca, di quelle per la spesa. Le foto che seguono fanno capire che i partecipanti alla marcia hanno preso sul serio l’invito a mostrare la futura condizione di abitanti anfibi.
3. Circa mezz’ora dopo l’orario previsto per la partenza prendiamo in mano cartelli e striscioni e il corteo si mette in marcia. La presenza delle forze dell’ordine è sproporzionata rispetto al numero dei partecipanti. E a proposito di proporzioni, la manifestazione di oggi è una dimostrazione di proporzionalità inversa: quanto più grave e spaventoso è il pericolo incombente, tanto meno massiccia sembra essere la presenza in piazza (per oggi, in strada) di chi vi si oppone.
Camminiamo sul margine della via Triestina in direzione dell’aeroporto Marco Polo. Marciapiedi non ce ne sono. Sarà per l’ora mattutina che transitano poche auto? I vigili urbani e i poliziotti che ci scortano, distribuiti tra la testa, la metà e la fine del corteo, tengono il passo alla nostra stessa andatura.
Ogni tanto il corteo decide di disturbare il traffico automobilistico, anche se in forma minima: si attraversa la strada camminando né svelti né lenti. Le auto sono costrette a fermarsi. Qualche autista abbassa il finestrino e guarda fuori per vedere cosa sta succedendo, ma i più tengono il motore acceso e il lettore cd in funzione, e aspettano solo di poter ripartire.
A circa un chilometro dalla partenza ci spostiamo tutti sul lato della strada che dà verso i campi compresi tra Favaro, Dese e Marcon. Prendiamo via Ca’ Zorzi, una stradina all’inizio asfaltata che poi diventa sterrata, fiancheggiata da alberi e siepi. Il primo tratto è quello tipico di una qualsiasi strada di periferia, il luogo dove la città diventa campagna. Ai lati sorgono villette di recente costruzione e case più vecchie restaurate, circondate tutte da un giardino. Spesso vicino a casa c’è anche un orto. Passiamo davanti a un deposito di materiali per l’edilizia e, più avanti, a una costruzione lunga e bassa ora in disuso che ha l’aria di essere stata una stalla.
Pian piano le case si diradano e davanti a noi si aprono solo campi, al massimo qua e là si riconosce un capanno in muratura destinato agli attrezzi agricoli. Da destra, in lontananza, proviene il rumore sordo di un trattore che alza una grande nuvola di polvere.
Il terrapieno al margine della stradina è rinforzato in un punto con grosse pietre bianche, squadrate irregolarmente. Non sembrano sassi comuni, tipo quelli che capita di vedere in montagna. Questi sassi bianchi mostrano segni di scalpello, devono essere stati lavorati da qualcuno, chissà quando, chissà perché. Sono ammonticchiati uno vicino all’altro intenzionalmente. E poi qui siamo in pianura.
Pino Sartori si accorge che io e Giovanna ci siamo fermate a guardare questa specie di muretto a secco e ci spiega di cosa si tratta. Sono pietre trovate dai contadini che, anno dopo anno, hanno lavorato questi campi. Le hanno messe da parte e usate per rinforzare i dislivelli del terreno. Per di qua passava la via Annia, sicché probabilmente sono pietre databili all’incirca duemila anni fa.
4. È una mattinata bellissima. Qualcuno ha portato il cane. La bora fredda ha ripulito il cielo delle nuvole di ieri. In lontananza, all’orizzonte verso il Friuli si intravvede il profilo delle montagne, ma nelle foto che ho fatto non si vedono.
Il gruppo dei manifestanti cammina per la stradina di campagna. Si parla di quello che succederà se il progetto chiamato Tessera City verrà realizzato. In occasioni come questa capita di incontrare persone amiche che si vedono di quando in quando, e anche tanti volti nuovi di giovani. Una ragazza tiene alta una bandiera contro il progetto di costruzione di una linea Tav Venezia-Trieste. All’asta è appeso un salvagente a forma di paperetta con la scritta “Lido di Jesolo”.
A un certo punto ci fermiamo. Quello che c’era da vedere lo abbiamo visto. Campi e campi di terra grassa, fertile; siepi e alberi rigogliosi; alte montagne all’orizzonte; spazio libero; cielo aperto.
Ci disponiamo a semicerchio. Michele Boato spiega quello che sarà il prossimo paesaggio giusto qui. Fa una breve cronistoria di come sono andate le cose, chi ha preso le decisioni, quando e come. Ricorda i nomi dei politici e degli imprenditori che sono stati a capo dell’impresa. I loro nomi spiccano sugli striscioni bianchi che per tutto il tragitto abbiamo portato alti, tenuti di lato sul fianco in modo che fossero visibili agli automobilisti di passaggio sulla strada statale Triestina. Tre, forse quattro persone che partecipano alla marcia intervengono per dire cosa succede nel posto dove abitano quando piove per un paio di giorni, a volte anche meno.
Il vento continua a soffiare fortissimo, e il cielo continua a essere blu. Quella che era stata presentata come una camminata di un chilometro, dal piazzale della chiesa fino a via Ca’ Zorzi, in realtà è stata un percorso un po’ più lungo. Tutti quelli che erano provvisti di attrezzatura per ripararsi dal freddo, non da anfibi ma da normali esseri umani, si sono calcati in testa il cappello, alzato il bavero del giaccone e infilato gli occhiali da sole. Ora però le mani sono gelate.
5. Ho abitato per 14 anni a Favaro, a un tiro di schioppo da qui. Un condominio a tre piani che si vede bene dal punto in cui siamo fermi ora, tanto lo sguardo può spaziare tutt’intorno senza incontrare ostacoli. Quando alla mattina mi affacciavo al balcone della cucina, in direzione di Dese, accarezzavo con gli occhi i campi di terra arata in solchi profondi, campi ben coltivati, separati l’uno dall’altro da ordinate file di siepi e fossati. Mi si apriva il cuore. Pensavo «È bellissimo, abitiamo in città eppure possiamo godere di un tale paesaggio. Bisognerebbe estenderlo a altre zone della città, farlo diventare più diffuso, portare più verde dentro Mestre. Fino a quando durerà tutto questo? Riusciremo a conservarlo e a lasciarlo a chi verrà dopo di noi? Non succederà poi che qualcuno ci mette sopra le mani? L’interesse di pochi la vincerà su benessere di tanti? Sarebbe giusto?». Quello che succederà nei prossimi anni mi darà la risposta.
Giannarosa Vivian
Mogliano Veneto, 30 dicembre 2011