di Elena Iorio
Il 13 aprile scorso è morto Pietro Pinna, che, rifiutando di svolgere il servizio militare, nel 1948, riuscì a sollevare la prima discussione pubblica sul diritto di obiezione di coscienza in Italia. Elena Iorio lo ricorda ricostruendo, anche sulla base di documenti inediti, le vicende del suo rifiuto e del processo che ne seguì.
Il 13 aprile 2016 è morto Pietro Pinna, il più famoso obiettore di coscienza al servizio militare italiano. Non fu il primo giovane a rifiutarsi di impugnare le armi, di indossare la divisa o di sottostare alla disciplina militare, ma fu il primo che in Italia rifiutò il servizio militare fornendo pubblicamente una motivazione etica laica alla sua scelta, non legata cioè a motivi religiosi o politici. Fu grazie al suo gesto, e al processo che ne scaturì, che si aprì in Italia la discussione sul diritto negato di dire “no” alla guerra e alle armi. Fu con Pinna che iniziò il lungo e tormentato cammino di richiesta di emanazione di una legge in favore dell’obiezione di coscienza che arriverà solo nel 1972.
1. Nato nel 1927, al momento della chiamata alla leva Pietro aveva 21 anni1. Diplomato ragioniere, lavorava come impiegato alla Cassa di Risparmio di Ferrara e non era legato ad ambienti pacifisti se non attraverso la conoscenza – piuttosto superficiale all’epoca – di Silvano Balboni (1922-1948), un vegetariano, gandhiano e nonviolento ferrarese, disertore dall’esercito italiano nel maggio 1943 e poi partigiano ed esule in Svizzera. Balboni, che era stato assistente di Ernesto Rossi col quale condivideva le idee europeiste (erano stati internati nello stesso campo a Ginevra), era assessore per il PSI a Ferrara e l’organizzatore di uno di quei Centri di Orientamento Sociale, promossi da Aldo Capitini, ormai principale punto di riferimento del pacifismo nonviolento italiano, come spazio per discutere in modo libero e nonviolento temi legati al sociale e alla pace. Pietro non era un assiduo frequentatore del COS, ci era stato solo una volta per ascoltare un convegno dove era intervenuto anche Capitini, ma la sua partecipazione al movimento pacifista italiano non andava oltre.
Chiamato alle armi alla fine del 1948, Pietro si era presentato in caserma alla Scuola allievi ufficiali di Lecce e aveva iniziato il servizio. L’idea di obiettare maturò lentamente nei primi mesi di naja nei quali tentò di attivare anche un contatto con Capitini. Il 3 dicembre 1948 Pietro scriveva al filosofo perugino:
Sono persona a lei sconosciuta. Mi chiamo Pietro Pinna e nacqui in Liguria ventun anni fa, ma sin dalla mia infanzia sono vissuto a Ferrara. Attualmente mi trovo alla Scuola Allievi Ufficiali Complemento di Lecce, chiamatovi di leva dal settembre dell’anno in corso. […]
Sarebbe il maggior desiderio mio attuale di disertare la vita militare, per obbiezione di coscienza. Le sarei veramente grato se volesse dirmi qualche cosa in merito, specie per quanto riguarda le punizioni a cui verrei incontro, sia ora sia in caso di guerra. Comprendo benissimo che nessuna indecisione dovrebbe trattenermi, di fronte alla convinzione della santità dell’idea, saranno considerazioni egoistiche quelle che mi spingono a scriverle (il pensiero di mia madre, forse, verso cui sono debitore di tante cose), ma mi pare che ciò che più mi attendo da lei sia il conforto della sua parola2.
La risposta di Capitini arrivò solo dopo che la scelta di obiettare fu compiuta. Quella scelta, che poteva costare molto a un giovane doveva essere presa in completa autonomia: così si sarebbe scusato Capitini alcuni mesi dopo:
Lei ha capito che non ho voluto influire sulla sua decisione, sapendo bene i dolori che le verranno per la sua idea, che è anche quella di Silvano Balboni e mia […]
In questi giorni in Italia e all’Estero sarà noto il suo caso (che non è il solo), e il suo attuale sacrificio sarà utile a tanti altri come guida verso una civiltà migliore e servirà come elemento prezioso a tutti quelli che operano per una legge che riconosca l’obbiezione di coscienza3.
Con queste parole Capitini proiettava la scelta del giovane al di fuori di una dimensione individuale, in un universo molto più ampio rispetto a quello che si immaginava Pietro, addirittura incaricandolo del ruolo di “guida”. Capitini vedeva in Pinna il simbolo della lotta per l’obiezione di coscienza in Italia e, per questo motivo, lui e il circolo di intellettuali pacifisti attorno a lui (Edmondo Marcucci e Giovanni Pioli tra i più noti) si mobilitarono adoperandosi sia nelle specifiche questioni pratiche, come per esempio trovare avvocati validi per la difesa in tribunale, sia alimentando una più ampia discussione sui temi della pace e dell’antimilitarismo attraverso comizi, dibattiti pubblici e articoli sui giornali. Fu grazie a loro se il caso ebbe risonanza non solo nell’opinione pubblica italiana, ma anche in quella internazionale.
2. L’obiezione di Pinna si giocò su due livelli paralleli, quello privato e quello pubblico. Sul piano privato la scelta fu molto tormentata e sofferta per il giovane che – come racconta nelle sue memorie – si sentiva responsabile per la sua famiglia: il suo salario era l’unico che entrava in casa, c’era solo la modesta pensione del padre, ex guardia carceraria messa a riposo fin dal 1935. Lo stipendio di Pietro serviva anche per il mantenimento di due sorelle, mentre il fratello maggiore (di sei anni più vecchio), dopo la lunga esperienza della guerra era uscito di casa. La scelta del rifiuto, quindi, doveva anche tener conto di quel che avrebbe comportato per la sua famiglia una sua eventuale incarcerazione. In un diario scritto nel 1950, pochi mesi dopo la conclusione della vicenda giudiziaria legata alla sua disobbedienza, e incluso, parzialmente rivisto, nelle memorie pubblicate nel 1994, Pinna ricorda così la sua scelta:
A quella risoluzione approdavo lungo un processo di anni, attraversati da vicissitudini materiali e spirituali sconvolgenti, segnati dall’esperienza tremenda della guerra. Gli amici più intimi sanno le discussioni che andavamo facendo sull’etica, sulla politica e in particolare sul militarismo e le mie riserve circa il servizio militare. La messa in atto di quell’idea aveva richiesto un tempo prolungato di maturazione tormentosa, non tanto per le conseguenze personali (che pur si prospettavano, nell’ignoranza assoluta di un gesto del genere, enormemente paurose), ma per il complesso di concezioni, di problemi, di posizioni che investiva, che metteva in gioco l’intera visione ordinaria del mondo. Una scelta che cadeva in un vuoto apparentemente totale, in lacerante contrasto col pensiero e l’agire dominanti4.
Dunque, oltre alle questioni pratiche, si sommavano dubbi sulla possibilità di essere compresi. Un elemento che caratterizza tutti gli obiettori fino alla prima metà degli anni Cinquanta è proprio la loro solitudine all’interno di un mondo costituito da persone che “non comprendono”; un “vuoto apparentemente totale” formato da persone che non sembrano aver cominciato a elaborare il lutto della guerra. Ci sono i congiunti e gli amici che non riescono a capire il perché di un gesto che porta solo a conseguenze penali; c’è lo Stato che non accetta questa forma di disobbedienza e non comprendere le motivazioni di questi giovani; c’è la Chiesa che pretende il rispetto delle gerarchie e afferma la necessità, in alcuni casi, della guerra. Chi obietta in questo “vuoto” diventa precorritore di un pensiero e di idee che prenderanno piede lentamente nel corso del decennio, grazie anche alla pubblicazione di memorie e racconti sull’esperienza della disobbedienza militare.
Maturata infine, a leva già iniziata, la decisione di rifiutare il servizio militare, Pietro mette in atto il rifiuto, ma senza compiere gesti plateali, semplicemente inviando una lettera al ministero della Difesa nella quale chiede che gli venga concessa la possibilità di rifiutare il servizio militare. Qui di seguito parte del testo della lettera:
Faccio noto a codesto Comando di essere venuto nella determinazione di disertare la vita militare per ragioni di coscienza. Trascurando qui di prendere in considerazione nei dettagli le convinzioni dettatemi da ragioni di fede, storiche, sociali e altro, dico che le mie obbiezioni nascono essenzialmente dall’impegno totale assunto sin dalla fanciullezza ad una apertura ideale e pratica a tutte le creature umane […]5.
Pietro, inoltre, offriva la propria disponibilità a un servizio alternativo di bonifica dei campi minati del ferrarese, eredità della guerra. Non sappiamo se i militari avessero preso in considerazione tale possibilità, magari da attuare per vie non ufficiali nel tentativo di evitare di creare un caso pubblico. Sappiamo però che Pietro venne tenuto in caserma per una decina di giorni (non però in arresto), a dimostrazione che l’istituzione non era preparata ad affrontare situazioni del genere e aveva bisogno di tempo per decidere come intervenire. A questo punto il ministero della Difesa decretò l’immediata esclusione di Pinna dalla Scuola Allievi Ufficiali di Complemento (quindi degradandolo a soldato semplice) e lo rimandò a casa in attesa di ulteriori provvedimenti. Il caso di Pinna era evidentemente nuovo nel suo genere e le autorità non sapevano come comportarsi a riguardo, anche perché nei casi precedenti di rifiuto la situazione sembrava essere stata gestita ai livelli bassi, senza mai arrivare a interpellare il ministero. I giovani che prima di lui si erano rifiutati di prestare servizio militare – un numero estremamente esiguo – erano tutti soldati semplici di leva, e nessuno di loro aveva osato presentare dichiarazioni scritte per il proprio rifiuto: perciò i casi erano sempre stati gestiti entro le mura della caserma, trovando sempre un espediente perché non diventassero un problema più grosso. Ma il caso di Pinna era diverso: era un allievo ufficiale che si era permesso di mandare una lettera al ministero della Difesa, non si poteva congedarlo per motivi fittizi.
Dopo alcune settimana a casa, Pietro viene richiamato a espletare il servizio militare di leva come soldato semplice. Presentatosi al C.A.R. di Casale Monferrato, Pietro chiede di parlare col comandante per comunicargli di non essere intenzionato a seguire l’addestramento militare e per spiegargli direttamente i motivi della propria scelta. Ma il comandante sembra non capire le motivazioni di tale gesto e cerca solo di convincerlo a ripensarci, addirittura lasciandogli alcuni giorni di tempo per ragionarci a fondo e, se possibile, cambiare idea. Pietro non cede e la continua reiterazione del rifiuto viene punita: viene rinchiuso in camera di punizione per 40 giorni. Dopo un periodo di incertezza, ecco che il gesto si è compiuto e Pinna ne sembra quasi sollevato:
Vi entravo [nella camera di punizione] con un senso di sollievo; cominciava a pesare quello stato sospeso, come un vagare in un vicolo cieco; spossavano le continue discussioni, piene di fraintendimenti, e infine sterili. Così si imboccava invece la via diritta, per una effettiva discussione finale6.
La “effettiva discussione finale” avrebbe dovuto essere generata dal processo e quindi, dalle aule del tribunale, estendersi alla società civile. Ma il suo gesto iniziò a riscuotere interesse ben prima dell’apertura del procedimento giudiziario: il giovane obiettore inizialmente sottovalutò la rapidità dell’impatto che il suo caso creò fuori dalle caserme e dalle carceri militari. Sin dai primi giorni di reclusione, infatti, Capitini diffuse la notizia negli ambienti pacifisti; e nel giro di poco anche la stampa e l’opinione pubblica si impadronirono del caso (il processo sarebbe cominciato solo nell’agosto 1949) e non solo in Italia: furono anche pacifisti e intellettuali stranieri a mandare messaggi di sostegno e solidarietà a Pietro.
A fine marzo 1949 (sono passati già 4 mesi dall’inizio della vicenda) Pietro viene trasferito al carcere militare di Torino dove ha un primo colloquio col giudice istruttorio e viene sottoposto a una perizia psichiatrica: decretare Pinna “pazzo” poteva essere il modo più rapido per chiudere la questione senza troppe conseguenze. Ma il giudizio dei medici fu negativo e non venne riscontrata alcuna patologia psichiatrica; la vicenda di Pinna sarebbe da questo punto in avanti proseguita solo per le vie legali. Ad agosto, dopo sette mesi di reclusione e una lunga istruttoria, iniziava finalmente il primo processo per l’obiezione al servizio militare al soldato semplice Pietro Pinna.
3. In Italia il sistema giuridico stabiliva che i giovani che prestavano servizio di leva dovessero sottostare al codice penale militare e quindi anche i giovani che si rifiutavano di prestare il servizio militare venivano processati da un tribunale militare. La legge prevedeva la possibilità che il giovane che si rifiutava ripetutamente di servire nell’esercito restasse in carcere fino ai 45 anni di età, anno in cui scattava (per tutti) l’esonero dal servizio di leva: una volta scontata la punizione per il primo “rifiuto di obbedienza”, il giovane avrebbe dovuto riprendere il servizio militare dal punto in cui lo aveva lasciato; se si rifiutava ancora, sarebbe stato di nuovo processato, quindi incarcerato (in una prigione militare) per un altro periodo che poteva variare dai 10 ai 18 mesi; e così di seguito fino ai 45 anni. I precisi capi di imputazione per questi casi potevano essere vari, ma di solito si utilizzava la “disobbedienza” o la “diserzione in tempo di pace”.
La prima udienza si tenne il 30 agosto 1949. A presiedere la commissione giudicatrice c’era il generale Ratti, mentre il pubblico ministero era un maggiore dell’esercito, “un cattolico”, come ricorda Edmondo Marcucci nelle sue memorie, che fece «ridere l’uditorio quando citò, contro l’obbiezione di coscienza, una regola di vita enunciata da san Tommaso D’Aquino: “agisci sempre secondo la retta ragione”»7. Gli avvocati difensori di Pinna erano Bruno Segre e Agostino Buda, che divennero ben presto gli “avvocati degli obiettori”, poiché si occuparono della difesa della maggior parte degli obiettori di questo periodo (testimoni di Geova compresi). La linea difensiva nel processo Pinna era costruita in modo tale da spostare la discussione dal caso particolare di Pietro alla questione dell’obiezione di coscienza. Da un lato si faceva riferimento ad argomenti storici, religiosi, morali e umani per giustificare il gesto dell’obiezione; dall’altro si faceva riferimento alla Costituzione, in particolare all’art. 28, per sostenere la liceità dell’obiezione di coscienza interpretata come un diritto inviolabile dell’uomo. Il lavoro della difesa era iniziato ben prima dell’apertura del processo: dallo scambio epistolare dell’avvocato Buda con Capitini veniamo a sapere come si fosse cercato di preparare il terreno per le discussioni del processo, diffondendo cioè scritti sull’argomento in librerie e biblioteche torinesi, informando i giudici sull’obiezione di coscienza (inviando cioè loro libri e opuscoli sul tema) e trovando sostenitori di spicco pronti a parlare o scrivere in favore della causa. La difesa, dunque, non si limitava alla preparazione del processo, ma cercava di coinvolgere l’opinione pubblica, i giornali, personalità della cultura fino ai giudici stessi. Quello di Pietro doveva diventare “il processo all’obiezione di coscienza” e aprire una discussione che si sarebbe spenta solo con l’approvazione di una legge a riguardo. Il caso Pinna e tutti i dibattiti che si avrebbero avuto attorno, quindi, sarebbero dovuto servire anche per far pressione in Parlamento.
Capitini venne citato come uno dei testi principali ammessi alla difesa e avrebbe colto l’occasione per tenere in aula un lungo discorso sul significato dell’obiezione di coscienza all’interno della società e della storia. Oltre a lui c’erano altre personalità di rilievo, come Umberto Calosso – già membro della costituente, che di lì a poco, in qualità di deputato, avrebbe presentato un progetto di legge sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza –, che nemmeno conosceva l’imputato. Infine c’era Edmondo Marcucci, sempre al fianco di Capitini, al quale dobbiamo alcune descrizioni del processo e di Pinna. Marcucci ricorda così nelle sue memorie il giovane che viene condotto al processo:
dopo vari mesi di prigione, apparve dinanzi ai giudici militari di Torino il mattino del 30 agosto 1949. Lo rivedo ancora, con non sopita commozione, scendere ammanettato e sorridente (molto bruno, capelli neri, viso rotondo, un simpatico e bel ragazzo) tra i due carabinieri che lo scortavano, dalla camionetta che dalla prigione lo portava alla sede del Tribunale militare di Torino per esservi giudicato come reo di “disubbidienza militare continuata”9.
Pietro Pinna in manette, scortato dai carabinieri, all'epoca del processo
(Fonte: http://digilander.libero.it/gothicproduzioni/SITO%20BRUNO/Pinna.htm)
L’aula in cui si aprì il primo processo a Pinna era piena: non solo amici e simpatizzanti del giovane, ma anche molti giornalisti e fotografi. Era il primo processo contro un obiettore in Italia che attirava così tanta attenzione mediatica e non solo per la prima udienza: tutto il procedimento continuò a essere seguito dai giornalisti. Naturalmente fu particolarmente attiva la stampa pacifista: Cittadini del Mondo pubblicò, nello stesso giorno della sentenza, un numero speciale dedicato all’obiezione di coscienza; sui periodici anarchici Umanità nuova, Era Nuova e Volontà comparvero vari articoli; perfino il settimanale di criminologia e polizia scientifica Crimen dedicò un articolo al caso. Non fecero eccezione i principali quotidiani nazionali come il Corriere della Sera, L’Unità e La Stampa. Anche le riviste di destra e clericali si occuparono del caso, scagliandosi violentemente contro Pinna e contro il movimento per l’obiezione di coscienza accusato di “eresia” e di essere “protestante”.
Il processo si concluse il 31 agosto del 1949. Pinna fu condannato a 10 mesi di reclusione, col beneficio della sospensione condizionale della pena e della non iscrizione al casellario.
Dato che la sentenza prevedeva la condizionale, Pietro non dovette scontare i mesi della pena in carcere (aveva comunque già avuto sette mesi di detenzione pre-processuale), ma fu subito richiamato al servizio militare e, dopo un nuovo rifiuto, nuovamente processato. Il 5 ottobre il Tribunale Militare di Napoli, in un processo per direttissima, condannò nuovamente Pinna per il suo continuato rifiuto e lo inviò alle carceri di Sant’Elmo per otto mesi di reclusione. Il 29 dicembre Pinna venne liberato in virtù dell’amnistia indetta per l’Anno Santo, nonostante il giovane si fosse rifiutato di firmare il condono.
Nel gennaio 1950, ancora un richiamo di leva e Pietro viene mandato a Bari per riprendere il servizio militare. Obietta di nuovo, ma questa volta, invece di essere arrestato, viene sottoposto a una visita medica al termine della quale il dottore compila una cartella nella quale attesta una “nevrosi cardiaca”. Così il 12 gennaio Pietro, perfettamente sano, viene riformato per motivi di salute e quindi congedato. Si trattava di un escamotage con il quale l’istituzione militare, di fronte alla determinazione della recluta, sperava di chiudere il caso, evitando ulteriori strascichi; il timore principale era probabilmente che esso potesse essere imitato da altri giovani. Ma era ormai troppo tardi, l’opinione pubblica era stata ampiamente informata, soprattutto grazie all’interesse che personaggi della scena pubblica culturale e politica avevano dimostrato per il caso e all’attenzione dimostrata della stampa per il processo. Nel corso della vicenda Pietro ricevette addirittura una lettera pubblica di sostegno dalla vedova dell’ex presidente americano Woodrow Wilson; ci fu un’interrogazione parlamentare e un disegno di legge (la proposta di legge firmata da Umberto Calosso e dal democristiano Igino Giordani poi non approvata) per l’introduzione del diritto di obiezione di coscienza al servizio militare nel codice civile italiano; 23 parlamentari britannici inviarono un Appello al presidente della Repubblica italiana, Luigi Einaudi, e al capo del Governo, Alcide De Gasperi, per esprimere solidarietà per il giovane Pinna e per raccomandare all’Italia di approvare una legge che riconoscesse l’obiezione di coscienza in modo tale da dare ulteriore prova “della tradizione di tolleranza e di libertà cui la nuova Italia partecipa con la nostra e altre nazioni democratiche nel mondo”10. Nonostante l’accesa opposizione di praticamente l’intero mondo politico e istituzionale italiano, Pietro aveva trovato la simpatia e la stima di diversi intellettuali e di una parte del mondo giovanile: dopo di lui i casi di obiezione di coscienza al servizio militare sarebbero cresciuti gradualmente fino a scoppiare definitivamente con le contestazioni studentesche di fine anni ’60. Pietro sarebbe rimasto per molti anni, al fianco di Capitini, ad aiutare gli obiettori nelle loro vicende processuali che diventavano sempre più complesse e con pene sempre più dure: l’istituzione militare non si fece più trovare impreparata e cercò di risolvere il problema con la repressione. Molti degli obiettori degli anni ’50 e ’60 non ebbero la fortuna di Pietro e l’unico modo per sfuggire alla catena di processi e incarcerazioni fu la via dell’esilio all’estero.
- Riprendo qui alcune pagine della mia tesi di dottorato, riviste per l’occasione. [↩]
- Archivio di Stato di Perugia, Fondo Capitini, Corrispondenza, Pinna Pietro, b. 1370, f. 87. [↩]
- Copia della lettera, datata 13 febbraio 1949, ibidem, f. 97. [↩]
- Pietro Pinna, La mia obbiezione di coscienza. Scritti 1950-1993, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 1994, p. 10 [↩]
- Il testo della lettera riprodotto ivi, p. 14. [↩]
- Ivi, p. 17. [↩]
- Edmondo Marcucci, Sotto il segno della pace, Biblioteca Comunale Planettiana, Jesi 2004, p. 128. [↩]
- L’articolo 2 della Costituzione italiana recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. [↩]
- Marcucci, Sotto il segno della pace cit., p. 128. [↩]
- “L’incontro”, ottobre 1949. Citato in Marcucci, Sotto il segno della pace cit., p. 130. [↩]
Elena Iorio dice
Grazie Enrico per il commento. La questione che sottolinei credo sia fondamentale ed è stata uno degli oggetti di studio principali della mia tesi sugli obiettori di coscienza. Il vuoto che inizialmente circonda gli obiettori italiani e l'incomprensione del loro gesto da parte della società sono massimamente evidenti anche nel linguaggio: in Italia il termine "obiettore di coscienza" entra nel lessico solo a partire dal caso Pinna, mentre prima si chiamavano "disertori" o "refrettari". Pian piano assieme all'espressione e ai rifiuti si diffonde anche questo nuovo concetto di diritto alla libertà di scelta per il servizio militare. In questo caso dunque si è diffusa prima l'idea e poi, dopo 25 anni, il diritto; altre volte, più raramente, è la giurisprudenza che favorisce la rielaborazione e la diffusione di nuove idee. Quella dell'obiezione di coscienza è una bella storia, con un lieto fine (oggi in Italia nessuno è più obbligato a fare il servizio militare; certo, il vero lieto fine sarebbe l'abolizione dell'esercito e delle spese militari, ma ci si dovrà lavorare ancora un bel po'). Però capisco il tuo pessimismo: sfortunatamente in Italia gli ultimi esempi non sono così positivi (penso, per esempio, alla legge sulle coppie di fatto e sull'adozione del figlio del partner). Di persone come Pinna ce ne vorrebbero di più, con la testardaggine e il coraggio di portare avanti idee di pace, libertà e uguaglianza e disposte anche a sacrificare parte della propria vita per queste idee.
Enrico dice
Mi ha colpito molto questa idea della percezione del “vuoto”, dell’incompresione del gesto e delle parole che lo dettano. Le parole che non funzionano, che non lasciano il segno, scivolando sui preconcetti, imbrigliate in retoriche, disinnescate dagli interessi. Le parole che non riescono a fare breccia “nel pensiero e nell’agire dominanti” e che ci condannano – in questo caso solo temporaneamente…ma quanto dura? – all’isolamento.