di Marco Toscano
Riceviamo e volentieri pubblichiamo dal nostro amico Marco Toscano, già autore di un intervento a proposito di Bella ciao, e che promette di diventare un nostro assiduo collaboratore.
Cari del sito di storiAmestre,
vi ringrazio per aver pubblicato con tanta cura le mie note su Bella Ciao. Girando per il sito – confesso che non l’avevo mai visitato con molta attenzione – ho letto le cronache sul 25 aprile. Interessanti. Sono rimasto colpito da quella di Antonio “Toni” Scanferlato da Mogliano Veneto, tra l’altro per il suo accenno ai commenti dai sottoportici: “Questi signori hanno fischiato il Piave!”. Allora sono andato a riprendere alcuni libri, forse gli stessi che erano tornati in mente a lui e vi spedisco un altro po’ di note disordinate, andando a memoria e con quel che ho in casa, sapendo che un libro tira l’altro e non si finirebbe mai.
1. Per trovare esempi in cui la retorica bellica fiorisce nei caffè e nelle retrovie, a differenza che nelle prime linee, dovrei riprendere in mano Gli ultimi giorni dell’umanità di K. Kraus (lo pubblica Adelphi e lo ristampano ancora, l’ultima volta nel 2007).
Comincio invece con Isonzo 1917, dove Mario Silvestri – un ingegnere civile e scienziato che era appassionato di storia (nato nel 1919 è morto nel 1994, i suoi libri sono ancora riediti nella BUR) – scriveva: “Dalle canzoni dei soldati le parole della retorica convenzionale erano regolarmente bandite: niente Patria, Italia, Trento, Trieste… Questi motivi riecheggiavano tanto più intensamente quando più ci si allontanava dalla zona di combattimento; e il massimo di frequenza era raggiunto dagli avanspettacoli e nei «café-chantants» delle grandi città. qui gran tripudio di bandiere, il tricolore era sprecato [e] quanto più lo spettatore si sentiva al sicuro, tanto più si spellava le mani nell’applauso” (p. 78).
Un’amica di Torino mi ha segnalato che Cesare Bermani apre con la stessa citazione il suo saggio Il canto sociale contenuto nel terzo volume dell’opera Gli Italiani in guerra diretta da Mario Isnenghi per la Utet (Torino 2008, pp. 838-856).
2. La Leggenda del Piave, composta da E.A. Mario (pseudonimo di Giovanni Gaeta, 1884-1961), venne cantata la prima volta al teatro Rossini di Napoli il 20 agosto 1918, quando la guerra stava per finire. Nella prima versione, una strofa faceva ancora riferimento a Caporetto, parlando di “onta” e di “tradimento”: «Ma in una notte trista / Si parlò di tradimento / E il Piave udiva l’ira e lo sgomento… / Ahi quanta gente ha vista / Venir giù, lasciare il tetto, / per l’onta consumata a Caporetto! / Profughi ovunque. Dai lontani monti, / venivano a gremir tutti i suoi ponti. / S’udiva allora, dalle violate sponde, / sommesso e triste il mormorio dell’onde: / come un singhiozzo in quell’autunno nero, / il Piave mormorò: / “Ritorna lo straniero!”».
Ma in seguito questi versi furono omessi: l’unico Piave celebrato nella versione definitiva della canzone è quello del passaggio delle truppe il 24 maggio 1915 e della vittoria del 1918. Quello della “rotta” è censurato.
3. Ha scritto Mario Isnenghi che “solo per un effetto ottico retrospettivo, le sue note sembrano investire e ricoprire per intero il tempo della guerra”, ma in effetti la Leggenda si impone dopo “per reiterazione nelle celebrazioni e nei riti collettivi”, fino a diventare “uno dei maggiori fattori del rito postumo della Grande guerra” (M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Mondadori, Milano 1989, p. 97).
Eseguita durante la tumulazione della salma del “milite ignoto” a Roma nel 1921 e nelle cerimonie commemorative della prima guerra mondiale, la Leggenda entrò a far parte del repertorio degli inni fascisti, e poi del regime. In un discorso tenuto a Cremona un mese prima della “marcia su Roma”, Benito Mussolini disse: “Ma cos’è quel brivido, cos’è quel brivido sottile che percorre le membra quando si sentono le note del La leggenda del Piave?” (25 settembre 1922, citato da Cesare Caravaglios, I canti delle trincee: contributo al folklore di guerra, Leonardo da Vinci, Roma 1930, p. 102).
Lino Carrara, che nel 1923 pubblicò un opuscolo di Canti fascisti (sottotitolo: Inni, canzonette, stornelli sgorgati dall’anima del Popolo dal sorgere del Fascismo alla “Marcia su Roma”), scrisse (p. VII): “Due inni soprattutto fanno pulsare più forte il sangue nelle vene: la Leggenda del Piave, che mai avrebbe raggiunto l’odierna immensa popolarità se il fascismo non l’avesse valorizzata, e l’inno Giovinezza, al cui bel suono il bel cielo di Napoli si popolò di selve di gagliardetti; al cui suono Roma immortale vide centomila braccia stendersi sulla tomba del Milite Ignoto in segno di promessa e d’augurio: l’augurio che la fiamma che ci ha animato durante questi anni procellosi non si spenga mai più, la promessa di non cedere finché l’Italia rinnovellata raggiunga all’interno quel benessere a cui ha diritto per l’operosità dei suoi figli, e all’estero quel rispetto che le è dovuto per i doni immortali da essa dati in ogni tempo e in ogni luogo alla civiltà”.
4. Luisa Passerini, nel suo libro Torino operaia e fascismo: una storia orale (Laterza, Roma-Bari 1984), ha sottolineato: “Nel periodo fascista, oltre ai discorsi, un’altra forma fondamentale di espressione orale fu terreno di lotta e oggetto di conquista: la canzone. Su di essa si articolò una contesa in cui, letteralmente, non era mai detta l’ultima parola”.
Nel corso delle lotte politiche e sociali del periodo che viene ricordato come “il biennio rosso”, tale contesa fu molto aspra. Accanto all’Inno dei lavoratori compaiono nelle manifestazioni socialiste e comuniste l’Internazionale e Bandiera rossa. Gli squadristi fascisti rispondono con parodie, rovesciamenti, sostituzione di parole, per esempio: “Avanti popolo / alla riscossa / ai comunisti / si rompe l’ossa”. Socialisti, comunisti, anarchici fanno lo stesso con Giovinezza. Socialisti: “Delinquenza delinquenza / Del fascismo su licenza / Col delitto e la violenza / Lor distruggon la civiltà”. Comunisti: “Giovinezza, giovinezza / Primavera di bellezza / Il delitto e la violenza / Tosto o tardi finiran”. Anarchici: “Giovinezza, Giovinezza / Primavera di bellezza / L’Anarchia è la salvezza / Dell’intera umanità!” (per queste e altre parodie ho visto Canti dell’Italia fascista (1919-1945), a cura di A. Savona e M. Straniero, Garzanti, Milano 1979).
A Roma e a Viterbo, i comunisti Arditi del Popolo fecero una parodia proprio della Leggenda del Piave per schernire gli squadristi appoggiati dalla polizia e da governo: “’Ste quattro facce gialle color del sego / portavano la morte e il me ne frego / anche noi ce ne saressimo fregati / se il governo come a lor ci avesse armati…” (la riferisce Sandro Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Einaudi, Torino 1985, p. 161).
Tra l’altro, molto usate per queste contese musicali furono le strofette dei “Bombacè”, o strofette del “Generale Cadorna”. L’aria su cui si cantavano risaliva a una tradizione romanesca; i soldati della prima guerra mondiale la ripresero per mescolare protesta contro gli ufficiali e spirito di corpo. Veniva usata per scherno contro Francesco Giuseppe, ma più spesso si prendeva di mira il generale Cadorna. Soprattutto nel 1917, e ancor più durante la ritirata di Caporetto, assunsero un carattere antimilitarista. Le cantavano i soldati abbandonando il fronte, ed erano diffuse nel paese, come attestano anche molti ricordi letterari.
Dopo la guerra furono riprese da squadristi – con finale “Bombe a man / e carezze col pugnal” – e da “arditi rossi” e “leghe rosse” – “Quando verrà Lenin / faremo una gran festa / andremo dai signori / gli taglierem la testa / oilì oilà e la lega crescerà”.
5. Ecco, Lenin: fin dal 1917, scrive Bermani, Lenin viene “vissuto dai socialisti italiani non solo come il principale artefice della Rivoluzione d’Ottobre, ma anche come l’anti-Cadorna, colui che ha saputo trasformare il macello dei popoli in guerra civile. Il mito di Lenin si impose subito con la rivoluzione in Russia e ben presto in ogni paese ci sarà un militante socialista soprannominato Lenin” (C. Bermani, Spegni la luce che passa Pippo: voci, leggende e miti della storia contemporanea, Odradek, Roma 1996, p. 191).
Quando ascoltava la Leggenda del Piave, il socialista Raffaele Offidani, che sarebbe diventato un noto autore di canzoni comuniste con lo pseudonimo di Spartacus Picenus, pensava con ammirazione a Lenìn che aveva fatto finire la guerra, tanto che il verso «Il Piave mormorò “Non passa lo straniero”» diventava “Quell’uomo fu Lenin liberator del mondo”. In una breve autobiografia di mezzo secolo dopo, Spartacus Picenus ricordò così il momento in cui scrisse quella sua prima canzone, sull’aria della Leggenda del Piave: “I miei primi versi sociali risalgono al 1914, ma sul finire del 1918, trovandomi degente in un ospedale per una grave infermità contratta in guerra, ad un bravo sanitario nazionalista che non si stancava mai di canticchiarmi La leggenda del Piave allora molto in voga, mi venne l’idea di rispondere con delle strofe sulla stessa aria, nelle quali contrapponevo al Piave, la Neva, gloriosa culla della rivoluzione [bolscevica]. Il malato mio vicino di letto, un bravo operaio torinese, che l’aveva ascoltata con entusiasmo, volle trascrivere di suo pugno le parole della Leggenda della Neva (che dovevano inaugurare la lunghissima serie dei miei Canti di Spartaco) e questa canzone egli la fece sollecitamente stampare per suo conto in un foglio volante a Torino dove ottenne, malgrado i madornali strafalcioni della trascrizione un successo veramente strepitoso, diffondendosi immediatamente fin nei più sperduti villaggi d’Italia, dove veniva intonata nei cortei, anche con accompagnamento di banda” (Autobiografia di Spartacus Picenus [Raffaele Offidani], “Il nuovo canzoniere italiano”, 3, 1963, p. 40, poi in Il nuovo canzoniere italiano dal 1962 al 1968, prefazione di C. Bermani, Mazzotta-Istituto Ernesto De Martino, Milano 1978).
6. C’è un canto che non entrò nei canzonieri, e rimase confinato in una delle tante memorie di piccolo raggio. È Ponte de Priula l’è un Piave streto. Racconta i giorni della ritirata, quando sul Piave venivano uccisi i soldati italiani che erano scappati e avevano perso o buttato il fucile per strada, e quando il fiume diventò rosso di sangue. Io la conosco per caso, da un amico veneto che l’aveva ascoltata dal suo nonno materno (classe 1889). Il testimone raccontava che sul ponte della Priula si accalcava una folla con carri, bestie da soma e soldati in fuga, e che nessuno obbediva più agli ordini. Un ufficiale italiano tentò di fermare i soldati sparando con la pistola e gridando “Vigliacchi”. Riuscì a fermare un gruppetto di soldati del genio, tra cui il testimone, e ordinò loro di far saltare il ponte. Siccome i soldati non volevano obbedire, l’ufficiale li affrontò con la pistola e poi diede fuoco alla miccia. Il ponte fu fatto saltare con tutti quelli che si trovano sopra. A questo punto il testimone, diceva che il Piave diventò rosso di sangue: come nella canzone. Il mio amico aggiunge che lo sentiva dire da tutti quelli della generazione di suo nonno.
7. Nel saggio del 2008 che ho citato all’inizio, Bermani ricorda che, benché la guerra fosse agli sgoccioli, i soldati fecero in tempo a stravolgere anche La leggenda del Piave e riporta una parodia che raccolse da un reduce della guerra nel 1964: “Il Piave mormorava / calmo e placido al passaggio / puzzavano li piedi di formaggio. / L’esercito marciava / per raggiunger la frontiera / puzzavano li piedi di gruviera. / Muti restaron / nella notte i fanti. / Puzzavano li piedi a tutti quanti…” (p. 853).
PS. Dicevo del mio amico veneto, e di suo nonno. Quando mi porta in giro per i paesi della "sinistra Piave" – così usa dire il mio amico – e delle colline ci sono due cose che mi colpiscono: l’abbondanza di acqua corrente e di fossi (dove abito io c’è piuttosto siccità), e la strabordante presenza della memoria della guerra del 1915-18.
Fino a tempi recenti, la retorica sottolineava che era nella prima guerra mondiale che s’era compiuta l’Italia, contadini di tutte le regioni nelle trincee per la patria comune. Oggi l’inno patriottico, composto da un musicista napoletano che si trovava ben nelle retrovie, sembra sottolineare che la prima guerra mondiale è la guerra del Veneto. La regione Veneto, del resto, intende valorizzare il “patrimonio di valori umani e civili espressi nel corso della prima guerra mondiale” in chiave di marketing territoriale, come ho letto proprio sul sito di storiAmestre.
Segni di una "rivoluzione" culturale a Mogliano Veneto? Dài, esagerato, e poi senz’altro chi vive là starà registrando segnali da anni (cerimonie, anniversari, musei, sacrari, scaffali nelle librerie, fotografie alle pareti degli agriturismi, eccetera). Ma la cronaca di Scanferlato avvisa: l’11 novembre si festeggia il 25 aprile, festa dei veneti, che dunque si celebra con L’inno del Piave. La solita amica di Torino mi dice che di solito basta anche meno per inventare tradizioni.
PS2. Anche con gli argomenti, uno tira l’altro. Curioso che “i veneti” aspirino a festeggiare il patrono della ex “Dominante”: ma su questo spero di mandarvi un contributo specifico. Sempre che non disturbi.