di Elizabeth Gurley Flynn
In occasione del novantesimo anniversario dell’esecuzione dei due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, avvenuta la notte del 22 agosto 1927 a Boston, riprendiamo alcune pagine dell’autobiografia di Elizabeth Gurley Flynn, una militante del movimento operaio statunitense che fece parte del comitato per la difesa di Sacco e Vanzetti. Per altre notizie, si veda la nota finale.
Faccio visita a Sacco e Vanzetti
Nell’ottobre del 1920, Mary Heaton Vorse e io facemmo visita a Nicola Sacco nel carcere di Dedham. Fred Moore1 organizzò l’incontro in modo che potessimo fare un po’ di pubblicità alla loro causa. Mary scrisse un bell’articolo per The Nation, che cominciava: «Attraversammo i dolci villaggi del New England». Era autunno, l’aria era impregnata del pungente odore delle foglie bruciate. Visto quello che sono le prigioni, il posto non era male. Mary diceva che sembrava una biblioteca, con un’ampia rotonda al centro; solo che negli scaffali venivano risposi degli uomini, non dei libri. Poi ci venne rapidamente incontro un bel giovane, snello, dal portamento eretto, con gli occhi scintillanti e un sorriso allegro. Era Sacco. Aveva 30 anni. La camicia blu che indossava era pulita e linda, aperta sul collo. Mi salutò con entusiasmo «Elisabetta – ti conosco. Ti ho sentita parlare agli scioperanti di Lawrence!» disse. Poi salutò Fred Moore e la signora Vorse, che parlava un po’ l’italiano, con sua grande gioia. Ci mettemmo tutti a sedere. Mi disse dei suoi ideali – «l’Idea», come la definiva, che per lui significava giustizia sociale. Non più governo, polizia, giudici, padroni, autorità; gruppi popolari autonomi – ogni cosa di proprietà del popolo – lavoro in comune – distribuzione della ricchezza in rapporto al bisogno – uguaglianza, giustizia, fratellanza – amore reciproco; queste appassionate parole sgorgavano come torrenti dalle sue labbra. Odiava l’ozio forzato. Voleva poter lavorare – questo lo indispettiva.
Disse di essere pronto a morire per «l’Idea» – per il popolo. Ma non per un «lavoro da pistolero». Raccontò di come aveva lavorato tutta la vita, le sue mani erano le mani esperte di calzolaio, erano fatte per lavorare, non per uccidere. «Rubare del denaro, uccidere un poveretto per soldi! Questo per me è un insulto!» proclamò appassionatamente. Rizzò il capo e spiegò: «Io sono innocente. Non faccio una cosa simile. Lo giuro sulla testa di mia figlia appena nata!». Queste ardenti parole «Sono innocente! Voi uccidete un uomo innocente!» le gridò alcuni mesi più tardi a una giuria di vigliacchi. Per Sacco, l’omicidio a sangue freddo di un impiegato per portare a termine una rapina criminale era impossibile. Una simile accusa lo feriva, lo feriva profondamente.
Mentre parlavamo, aveva tenuto una mano serrata a pugno. Ma nel trasporto dell’ira l’aprì e ne cadde un pezzetto di metallo, una medaglietta cattolica del Sacro Cuore. Sorrise imbarazzato e spiegò «La moglie del mio padrone, una buona donna irlandese, è venuta, ha pianto e mi ha detto ‘Tieni, Nick, ti salverà!’». «Io non ci credo», disse, «ma non volevo urtare i suoi sentimenti, così l’ho presa». Conoscevo bene quel tipo di anarchico italiano idealista, buono e gentile, che poteva uccidere un re per un atto di «giustizia sociale» – ma non avrebbe fatto male a una mosca. Credetti a Sacco quando mi disse: «Elisabetta, sono innocente». Ci credo ancora, dopo 34 anni. Quel pomeriggio di sole era tanto sicuro della propria innocenza, che non aveva paura. Era convinto che, quando avrebbe raccontato la sua storia in tribunale, l’avrebbero lasciato libero. Non sapeva che si stava avvicinando alla valle della morte. Non temeva il male, perché la verità era dalla sua parte. Ma l’avidità, la corruzione, il pregiudizio, la paura e l’odio verso i lavoratori stranieri con idee radicali stavano tessendogli intorno una rete. Ricordo un altro giovane – Joe Hill – a cui avevo fatto visita alcuni anni prima, che aveva trovato la morte di fronte a un plotone di esecuzione2. Sentivo un peso sul cuore, ma sorrisi e dissi: «Sta di buon animo. Faremo del nostro meglio».
Poi, pochi giorni più tardi, mi recai con Fred Moore in quella vera e propria galera che era la prigione di Charlestown per far visita a Bartolomeo Vanzetti. Stava scontando là la sua pena. Sembrava molto più vecchio di Sacco, benché in realtà non lo fosse affatto. Aveva 32 anni. Era più pesante, lento nei movimenti, molto calmo e controllato. Mi raccontò della sua visita a New York e di come era andato in fumo l’appuntamento con la signora Libertà. Si chiedeva se l’avrebbe mai più rivista. Era dotato di un bizzarro senso dell’umorismo – ma con la stessa spiritualità di Sacco. Tuttavia, disse a Fred Moore, si preoccupava che riuscissimo ad ottenere per Nick un processo separato, perché lui, Vanzetti, era già stato condannato per rapina. «E questo non nuocerà a Nick?». Era una questione legale da non sottovalutare e Fred gli assicurò che ci avevano pensato. La filosofia sociale di Vanzetti consisteva nel credere nella libertà e nella dignità dell’uomo. Amava Galileo, Giordano Bruno, Dante, Garibaldi e Mazzini. Si sarebbe trovato a suo agio con Emerson, Thoreau o Walt Whitman.
Poi Fred Moore organizzò un incontro tra me, la signora Vorse e la moglie di Nick, Rose Sacco. Costei abitava in una graziosa casa del New England, di proprietà del signor Kelley, il padrone del calzaturificio dove lavorava Nick. Il figlioletto di sette anni si chiamava Dante. La figlia appena nata, Inez, dormiva nel suo lettino. Sedemmo nella grande cucina, riscaldata da una stufa a legna, e parlammo di quella famigliola e della disgrazia che l’aveva colpita. La signora Sacco era molto bella, con la carnagione piuttosto chiara ed i capelli di un rosso intenso. Ci raccontò di come lei e Nick avessero preso parte a spettacoli teatrali, al fine di raccogliere denaro per gli scioperanti e di «istruire il popolo». Ci disse che il giorno in cui era stato commesso il delitto di Braintree, il 15 aprile 1920, si era recata con Nick al consolato italiano di Boston. Era sicura che gli impiegati se ne sarebbero ricordati, perché avevano portato una grande foto di famiglia al posto delle foto regolamentari per i passaporti. Avevano pranzato al ristorante Boni, di fronte alla casa di Paul Revere. Anche lì sicuramente si ricordavano di loro, soprattutto perché conoscevano molto bene Nick. Così si convinse ancor più che Nick non sarebbe mai stato processato e condannato.
Questi sono gli elementi umani delle grandi tragedie della storia – una giovane donna spaventata, avvinghiata ai suoi figli, sorridente attraverso le lacrime, che, quando va a trovare il marito in prigione dimostra tanto coraggio, che i custodi, le guardie e gli altri detenuti evitano con imbarazzo il suo sguardo raggiante. La fredda mano della paura non si era ancora posata su questi giovani coraggiosi, protetti dalla lucente armatura della consapevolezza della propria innocenza.
Il processo di Sacco e Vanzetti
Per alcuni mesi prima del processo, che iniziò il 31 maggio del 1921, in tutta la contea di Norfolk si svolse una silenziosa campagna contro Sacco, Vanzetti e i loro amici, considerati anarchici e bombaroli, e fu preannunziato, durante il periodo del processo, un probabile regno di terrore. Il primo giorno, il tribunale di Dedham era circondato da agenti armati e poliziotti in borghese. I due imputati furono ammanettati e scortati dalla prigione al tribunale da otto agenti. La stessa cerimonia si svolse per tutti i 36 i giorni del processo. Gli imputati presto posto in una «gabbia» di ferro, una barbarica usanza del Massachusetts, circondata da quattro agenti armati. Ciò creava nell’aula un’atmosfera di paura e li faceva apparire come pericolosi criminali.
La giuria, varcando ogni giorno le porte sorvegliate del tribunale, vedeva gli agenti perquisire, alla ricerca di armi nascoste, il pubblico che faceva la fila per entrare nell’aula. Il giudice Thayer, durante l’appello dei giurati, e dopo che questi ebbero prestato giuramento, fece alcune osservazioni ingiustificate riguardo al patriottismo e alla fedeltà al governo, evidentemente dirette contro le idee radicali degli imputati. Durante tutto il corso del processo, fece diversi commenti pregiudizievoli e con modo che non compaiono tra gli atti del processo – tono di voce, espressioni del viso e modo di comportarsi – manifestò la propria avversione per gli imputati, più o meno come, anni più tardi, fece il giudice Medina nel processo di Foley Square contro i comunisti3. Infine, nell’allocuzione alla giuria, egli andò molto oltre le solite istruzioni sulle questioni giuridiche ed esortò i giurati ad assolvere il proprio dovere di leali cittadini e di deliberare con orgoglio, «quello che avevano dimostrato di possedere i ragazzi americani che combatterono e diedero la vita sui campi di battaglia della Francia» – un velato attacco agli imputati quali uomini che potessero usare violenza nei confronti della giuria. Solo un’arma fu rinvenuta indosso a uno spettatore, e questi era uno sceriffo di un’altra contea! Ciononostante, fu creato un clima di tensione.
La difesa fu ostacolata in ogni modo, dentro e fuori dell’aula. Fu necessario raccogliere 6.000 dollari per pagare la stesura stenografica dei verbali, dopo che il signor Katzman, il procuratore, si rifiutò di dividere le spese, come si usava fare di solito. Si tentò fino all’ultimo di accelerare la deportazione di Frank Lopez, segretario del comitato di difesa per Sacco e Vanzetti, sposato con prole e provetto ebanista, che risiedeva nel nostro paese fin dal 1904, quando vi era giunto all’età di 19 anni. Era un testimone prezioso per la difesa e finalmente il Department of Labor acconsentì a rimandarne la deportazione fin dopo il processo.
Il governo, come nel caso Mooney4, si basava sull’identificazione degli imputati da parte dei testi. Non fu fatto alcun tentativo di collegare i 18.000 dollari rubati a South Braintree il 15 aprile 1920 con uno dei due imputati o con qualcuno che avesse rapporti con loro. I testi che tentarono l’identificazione furono sette. Il 18 maggio 1920, davanti alla corte presieduta dal giudice Avery, Louis Wade aveva dichiarato: «Posso sbagliarmi». Frances Davlin aveva detto: «Non ne sono sicura al cento per cento». Mary Splaine aveva affermato: «In base a ciò che ho potuto vedere, non credo di aver il diritto di riconoscere quest’uomo con sicurezza». In quell’occasione, un anno più tardi, furono ben più categorici nelle identificazioni, che, dopo il processo, o vennero smantellate, o si rivelarono fondate sulla menzogna. Contro le vacillanti testimonianze di costoro, la difesa fu in grado di produrre 26 testi, tutti presenti sul luogo del delitto, che affermarono di non aver visto né Sacco, né Vanzetti. Alcuni si trovavano così vicino ai banditi da essere fatti bersaglio dei loro colpi e li avevano visti bene. Dei testimoni dell’accusa, alcuni si trovavano alle finestre della fabbrica o di fabbriche vicine. Una donna dichiarò di essere certa di aver visto uno straniero perché questi «aveva quell’aspetto livido tipico degli stranieri dopo che si sono rasati!».
La difesa produsse alcune prove del fatto che Sacco e Vanzetti si trovavano a molte miglia dal luogo del delitto. Sacco era a Boston, a far le pratiche per il passaporto al consolato italiano. L’impiegato del consolato si era ormai trasferito a Roma, ma si recò dal console generale americano di quella città e giurò che Sacco si trovava là quel giorno. Si ricordò del grande ritratto di famiglia che Sacco aveva con sé, descritto a me e alla Vorse da Rose. Altri testimoniarono di aver visto Sacco in un ristorante di Boston. Undici suoi concittadini testimoniarono che Vanzetti quel giorno si trovava a Plymouth, a 25 miglia di distanza, intento al suo solito lavoro.
L’avvocato del Commonwealth (così viene stranamente soprannominato il Massachusetts)5 insisté soprattutto sugli elementi psicologici e, precisamente, sulla «consapevolezza della propria colpevolezza». Le sue affermazioni si basavano sul fatto che Sacco e Vanzetti avevano mentito il 5 maggio 1920, venti giorni dopo che il crimine era stato commesso. Secondo lui, essi si erano recati in compagnia di altri due individui, Boda e Ociani, a casa di un certo Johnson, nel garage del quale Boda teneva la propria auto, una Overland. (L’auto del delitto era risultata essere una Buick.) La signora Johnson, vedendo due «stranieri», aveva chiamato la polizia. Sacco e Vanzetti vennero poi arrestati a bordo di un tram. Gli altri due non furono mai arrestati. Poiché, come ho già detto, Sacco e Vanzetti si erano rifiutati di dire dove erano stati e con chi, si vide in ciò il segno di una «consapevolezza delle propria colpevolezza». Con questo sporco cavillo legale, Katzman costrinse la difesa a introdurre l’argomento e le prove delle idee e delle attività radicali di Sacco e Vanzetti, salvo poi declinarne ogni responsabilità.
Entrambi gli imputati resero lunghe testimonianze. Spiegarono che non avevano detto alla polizia la verità, in primo luogo perché durante la guerra avevano rifiutato di iscriversi sulle liste di leva e si erano rifugiati in Messico. In secondo luogo, quando Vanzetti si trovava a New York, nell’aprile del 1920, il segretario dell’Italia Defence Committee di quella città, Luigi Quintiliano, gli aveva detto, dietro consiglio del procuratore Walter Nelles, che se avevano in casa pubblicazioni anarchiche, dovevano distruggerle o nasconderle in vista di un prossimo pericolo. Così, egli riferì la cosa ai compagni del New England e insieme decisero di prendere una macchina, raccogliere tutto il materiale che si trovava in casa dei compagni e portarlo in un posto sicuro. La sera del loro arresto, la polizia li aveva interrogati solo in relazione alle loro idee politiche e ai loro compagni, senza fare alcuna menzione del delitto di Braintree, quindi era giustificabile che pensassero a un arresto politico. Dissero che erano decisi a proteggere sé stessi e i compagni e di conseguenza si rifiutarono di fornire informazioni esatte, e che avevano fondati motivi di timore, poiché appena due giorni prima il loro compagno Salsadeo6 era stato trovato morto.
Il Commonwealth insisté anche molto sul fatto che i due erano armati al momento dell’arresto. Un’indagine effettuata da tre eminenti avvocati, uno dei quali un ex-accusatore, per conto del Civil Liberties Committee del New England, portò, riguardo a questo punto, alla seguente constatazione: «Che si può presumere con sicurezza che il 75 per cento degli italiani giri armato». Il datore di lavoro di Sacco, il signor Kelley, chiamato per testimoniare sulla buona condotta dell’imputato, dichiarò che Sacco lavorava per lui da tre anni, che egli sapeva del fatto che fosse sempre armato, che l’aveva impiegato come guardiano notturno nello stabilimento e che avrebbe potuto rubare in qualsiasi momento merce per più di 20.000 dollari. Portare armi era abitudine comune tra i lavoratori molto più di quanto non lo sia oggi.
I testimoni della polizia tentarono di collegare la Colt di Sacco al delitto tramite il proiettile fatale. Ma gli esperti della U.S. Cartridge Company e della Colt Automatic Pistol Company smentirono categoricamente le loro affermazioni. Il capitano Proctor, della polizia di stato, fu un teste stranamente reticente e in seguito confessò ad Albert H. Hamilton, espero balistico, di essere convinto che il colpo mortale non era partito dalla pistola di Sacco. La giuria si ritirò dall’aula per cinque ore e giudicò entrambi gli imputati colpevoli di omicidio di primo grado.
Il verdetto del Civil Liberties Committee del New England non concordava con quello della giuria. Affermava che erano state loro negate «le componenti di un equo processo». Diceva:
Finora, nulla di quanto si è verificato ha scosso in alcun modo la nostra fiducia nei confronti di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Anzi, essa è maggiore oggi di quanto lo fosse prima del processo. Ora abbiamo udito le loro testimonianze, abbiamo ascoltato le accuse del Commonwealth e crediamo sinceramente che essi siano innocenti del delitto di Braintree… Siamo decisi a riparare in qualche modo, in qualsiasi modo, al torto fatto a Sacco e Vanzetti dai dodici uomini che formavano la giuria di Dedham.
Questo fu il verdetto di milioni di persone.
Nota. Tratto da Elizabeth Gurley Flynn, La ribelle, trad. it. di Michele Buzzi, la salamandra, Milano 1976, pp. 302-305; 314-320 [ed. or. The rebel girl. An Autobiography. My First Life (1906-1926), International Publishers Co., New York 1973 (seconda edizione)]. Ringraziamo il nostro amico Manlio Calegari per averci ricordato questo vecchio libro e Anna Di Qual per la preparazione del testo.
Elizabeth Gurley Flynn (1890-1964) fin da giovane militò nell’Industrial Workers of the World (IWW); nel 1920 fondò l’American Civil Liberties Union; nel 1927 entrò nel Partito Comunista statunitense. Viaggiò in tutti gli Stati Uniti, tenendo comizi e organizzando scioperi operai.
Separata e divorziata dal primo marito, fu unita all’anarchico italiano Carlo Tresca dal 1912 circa al 1925; fu Tresca a coinvolgerla nella campagna a sostegno di Sacco e Vanzetti negli anni Venti (“Mentre stavo per partire da New York, diretta a Boston, Carlo mi disse: «Elisabetta, ci sono due compagni italiani del Massachusetts che si trovano nei guai grossi a causa di Salsadeo [vedi la nota 6 al testo]. Guarda di che si tratta mentre sei là e magari vedi se puoi ottenere l’aiuto degli americani»”, in Gurley Flynn, La ribelle cit., p. 298).
Nel 1951 – nel clima del maccartismo – fu arrestata; condannata nel 1953 per aver violato la legge sull’immigrazione, fu in carcere dal gennaio 1955 al maggio 1957. Nel 1955 uscì la sua autobiografia I speak my own piece. Autobiography of the rebel girl. My first life.
Dal carcere dove fu detenuto nel 1914-15 con l’accusa di omicidio (sarebbe stato condannato a morte) il cantore popolare Joe Hill le dedicò la canzone The rebel girl (Elizabeth era poco più che ventenne), che si può ascoltare su youtube. Come illustrazione nel testo abbiamo inserito la copertina dello spartito della canzone, tratta dal sito https://www.dailykos.com/stories/2015/7/3/1398692/-Hellraisers-Journal-We-have-organizers-throughout-the-wheat-district-Elizabeth-Gurley-Flynn, dove si possono trovare altre informazioni e ritratti di Elisabeth Gurley Flynn risalenti a quegli anni.
- L’avvocato militante incaricato della difesa di Sacco e Vanzetti. [↩]
- Vedi nota conclusiva. [↩]
- Si riferisce a un processo subiti dai leader del Partito comunista statunitense nel 1949 con l’accusa di aver formulato propositi sovversivi contro il governo degli Stati Uniti. [↩]
- Tom Mooney era un attivista, processato nel 1916 con l’accusa di essere responsabile di un attentato dinamitardo che fece una quarantina di morti a San Francisco nel luglio 1916; condannato a morte, la sentenza fu commutata in ergastolo; sarebbe stato graziato nel 1939, dopo 22 anni di galera. [↩]
- Una delle denominazioni storiche dello Stato del Massachussets è Commonwealth; qui, e più sotto dove scrive semplicemente Il Commonwealth, intende il pubblico ministero. [↩]
- Svista per Salsedo. L’anarchico italiano Andrea Salsedo fu arrestato a New York, gli ultimi giorni di febbraio del 1920, in relazione alla sua militanza politica; qualche settimana dopo, durante un interrogatorio, precipitò dal quattordicesimo piano del grattacielo sede del Fbi; si capisce che le autorità sostennero la tesi del suicidio. [↩]