di Giulio Vallese
Un anno dopo, un nuovo resoconto di un’altra (breve) esperienza di lavoro nel mondo della scuola del nostro amico Giulio Vallese. Applicare tecniche pedagogiche dove tutto è permesso tranne scherzare su presepi e crocefissi; insegnanti “fuori di testa” e insegnanti che devono saper “tenere la classe”; gerarchie tra istituti; precariato o ruolo: cosa conviene?
Il mio primo giorno non riesco nemmeno a entrare in classe. Non ricordo bene se fosse la fine della ricreazione o un semplice cambio dell’ora. Ho scoperto poi che in quella scuola poco importa, è una prassi consolidata, una sorta di quarto d’ora accademico, quello per cui all’università si usava cominciare la lezione ai 15. Nello stretto corridoio che porta all’aula c’è un continuo via vai di ragazzi che discutono, ridacchiano, urlano, cellulare alla mano, auricolare all’orecchio. Li invito a entrare in classe ma appena ne convinco uno a entrare, un altro esce, seguito dalle lamentele del primo che mi sfugge. In un attimo mi ritrovo a fare da spartitraffico. Mentre me ne sto lì sbattuto nella calca dell’ingorgo, riesco a notare alla mia sinistra sull’uscio di un’altra aula alcune ragazze tutte tirate, credo del corso di “moda e design”, che attirano l’attenzione dei ragazzi. Una tizia mora, col caschetto perfetto e trucco apparentemente leggero, se ne sta lì addossata allo stipite, doppio pollice frenetico sul cellulare e lo sguardo che vaga tra lo schermo, le compagne e lo spettacolo circostante. Solo dopo un paio di minuti riesco a farmi largo ed entrare ma, raggiunta la cattedra, mi giro e manca ancora mezza classe. Ritorno quindi sui miei passi, afferro la maniglia e col gesto del vigile invito i ragazzi a entrare. Con tutta calma anche gli ultimi si arrendono.
In genere funziona. Qui no
Rimango un attimo a osservare la classe: sono una trentina di maschi di etnia mista, un piccolo gruppetto in prima fila è seduto tranquillo, gli altri vagano per la classe, chiacchierano, si spingono, saltellano, canticchiano. Che fare? Mi viene in mente una tecnica che consiste nello stare sull’uscio, osservare la classe e dire: “Non entro finché non siete seduti in silenzio”. Non so chi l’abbia inventata ma l’ho sentita da almeno tre colleghi di scuole di ordine, grado e persino regioni diverse. In genere funziona. Qui no, o almeno, solo in parte, poiché 5-6 continuano a vagare indifferenti per l’aula mentre gli altri imperversano a chiacchierare. È vero, c’è pure qualcuno che tenta timidamente di promuovere un po’ di ordine ma è subito fulminato dagli sguardi e dagli inviti a farsi gli affari propri dei più temerari.
Ci vuole del tempo. Nel brusio generale si distinguono chiaramente parolacce e offese gratuite, volano anche santi e madonne.
Qualche giorno dopo, proprio a proposito del turpiloquio, un collega mi fa notare che la bestemmia è un fatto usuale e può essere un valido appiglio per sanzionare gli alunni più indisciplinati. Perché, mi spiega, il problema è che ormai le sanzioni gravi, tipo le sospensioni, si danno solo per tentato omicidio… Così, un anno prima, per punire adeguatamente un ragazzo che aveva messo le mani al collo di una professoressa, il collega aveva sfruttato proprio una bestemmia dello studente perché, sebbene non credente, era “lesivo della sua sensibilità religiosa” e aveva minacciato di andare sui giornali a denunciare lo scandalo di una scuola in cui si permetteva impunemente di pronunciare il nome di dio invano. Di fronte a tale prospettiva, il preside aveva ceduto e avallato la sospensione dimostrando ancora una volta che a scuola su bestemmie, presepe e crocefisso non si scherza.
Finalmente, dopo qualche minuto sono tutti seduti anche se non in silenzio. È un enorme passo in avanti da sfruttare al più presto; si vede, infatti, che già non si tengono: si voltano, chiacchierano, si agitano, pronti a scattare da un momento all’altro. Così, approfittando di quella relativa quiete, chiudo la porta e raggiungo la cattedra: “Buongiorno, mi chiamo Giulio Vallese e sarò il vostro professore di italiano e storia. Facciamo intanto l’appello”. Niente, alcuni mi guardano incuriositi, altri se ne fregano, la maggior parte chiacchiera e alimenta un brusio che subito divampa da ogni direzione. Lì in piedi, di fronte a quel frastuono che si gonfia e si sgonfia, i miei “sst” e i continui inviti al silenzio riescono solo a modularne l’andamento. Pensandoci meglio, bisognerebbe fare dei corsi di “sst” per insegnanti perché è il suono che – con tonalità e risultati diversi, “sss…”, “sst”, “sssss”, “sit!”, ecc. – produciamo più spesso: possibile che non ci sia qualche pedagogista che se ne occupi adeguatamente?
Appello e lezione
Nonostante il brusio, provo ad andare avanti. Apro il registro cartaceo, scorgo velocemente i nominativi e mi rendo conto che ogni due per tre storpio un nome e un cognome –“Abei…Abem…mmm…come si pronuncia?” – e l’appello, che mi sembrava un’ancora di salvezza, diventa uno show comico e imbarazzante. Per la maggior parte gli alunni sono stranieri – la maggior parte di seconda generazione – ed è difficile destreggiarsi a prima vista in quell’inusuale varietà fonetica.
Se è un problema fare l’appello, figurarsi far lezione. È un sabotaggio continuo: uno ti accusa di essere razzista, un altro ti manda affanculo, un altro chiede di andare in bagno, un altro esce senza permesso, un altro ti provoca “Mi tocchi che la denuncio” oppure “Vado dal preside”… e tu tamponi il possibile, perché non puoi fare nulla, hai le armi spuntate, sei un insegnante non un buttafuori. Così l’ora passa nel tentativo di sedare risse, minacciare note e sanzioni, fronteggiare provocazioni e insulti gratuiti, con la speranza che nessuno si faccia del male.
Perché c’è anche questo, un ragazzo a un certo punto si lancia su altro che viene a rifugiarsi da me, dietro la cattedra, e tu sei responsabile. L’impressione è che tra i ragazzi ci sia anche la ricerca della punizione o almeno di un capo branco e una nostalgia della frusta. Può sembrare paradossale ma ho la netta sensazione che siano proprio i più indisciplinati a desiderare la disciplina più ferrea. Mi ricordo M., un campione dell’espulsione, che ho conosciuto durante la supplenza in una scuola privata di “recupero anni”. Era bravo in italiano, aveva una rara sensibilità nell’analisi poetica. Per il resto era incapace di controllarsi. Un giorno mi fa: “Rimpiango i tempi dell’autorità in cui bastava una cazzata per divertirsi, oggi invece tutto è lecito e quindi dobbiamo esagerare”; e guardando la classe con disapprovazione: “Sembra un campo rom… quella le sembra una cattedra?”. Non mi ricordo esattamente cosa ci fosse sulla cattedra ma sicuro lui era il primo ad aver contribuito a ridurla in quel modo.
Al suono della campanella me ne vado sconvolto ma sollevato. Vicino alla porta, noto un ragazzo che mi sembra uno di quelli che preso a tu per tu sia in grado di perdere l’attitudine ferina. Gli faccio: “Non capisco, colpa mia? Come si fa?”. Lui mi rassicura: “No, non si preoccupi, siamo così con tutti, non c’è soluzione. Solo la tizia di chimica riesce a farci stare tranquilli perché è matta, è fuori di testa, pensi che un giorno ha preso il cellulare di un compagno e l’ha lanciato fuori dalla finestra! Abbiamo paura”.
Uno di quella scuola, pochi giorni prima ha ucciso la morosa
Pensavo sì che sarei andato a insegnare italiano e storia in un professionale ovvero in una scuola dove sono considerate materie jolly, tipo l’ora di religione. Sicuro, mi aspettavo di trovare ragazzi vivaci, capaci di qualche bravata, con la propensione al lato pratico della vita e “voia de studiar poca”. Ma qui è il far west, il grosso degli studenti è formato da veterani della bocciatura, ripetenti convinti che ne hanno sentite, fatte e viste di ogni e se ne sbattono di tutto. Sono io il primo a stupirmi di come li vedo: individui rotti, distrutti, mostruosi, brutalizzati dal mondo, dai farmaci, dalle droghe, dalle psicologhe, dalle prediche; voci sgraziate, tic, posture orribili, occhi smarriti, spiritati; capelli sfonati, ingellati, rasati… E, cosa incredibile, sono tutti ammassati assieme, in un unico luogo, come si farebbe con dei carcerati.
Il paragone col carcere non è esagerato. Uno di quella scuola, pochi giorni prima ha ucciso la morosa incinta sfondandole il cranio, poi è venuto a scuola. Un altro, un giorno gli scappava, si è alzato ed è andato a pisciare nel cestino in fondo all’aula. Da quel che so, inoltre, è una grande piazza di spaccio. E la cosa più sorprendente è che si pensa che queste cose succedano raramente e solo nelle periferie più disagiate, nelle scuole cosiddette di frontiera. E invece accadono ogni giorno proprio dietro casa, in una scuola – come nel mio caso – che si trova nel pieno centro di una delle cittadine più ricche della provincia di Treviso.
La frontiera, in realtà, è dietro l’angolo, basterebbe guardare. Gli stessi insegnanti, forse per paura, vergogna o autodifesa, non ne parlano apertamente. Che io sappia, di scuole così, in provincia di Treviso, ce ne sono diverse e in una certa quota percentuale devono essere presenti un po’ in tutta Italia.
Non sa tenere la classe
La prima reazione che mi è venuta è stata: “Ci vuole l’esercito”. Possibile? È assurdo, ma l’unica alternativa che vedo non è tanto diversa: “Chiudere tutto, giù la clèr”. Oppure? Fare i matti come “quella di chimica”?
Leggo su un libro di didattica che nelle classi difficili bisognerebbe usare spesso un timbrino con la faccia sorridente per promuovere comportamenti virtuosi. Mah…, secondo me se lo mangiano.
E sennò? Bocciare, sospendere, espellere? Perché vadano dove poi, che lavoro non ce n’è, a ingrossare le fila della microcriminalità e del carcere? E la dispersione scolastica?
Come mi spiegano alcuni colleghi la nostra funzione di insegnanti il più delle volte si riduce a quella di gestire per cinque ore al giorno i ragazzi in modo che siano più o meno controllati e non vadano in giro a fare danni. “Per farli a scuola?” mi vien da pensare.
Scuole come quella ce ne sono molte disseminate nel territorio a svolgere una pura funzione di controllo sociale. Scuole in cui non si impara praticamente niente se non tecniche delinquenziali dai compagni più esperti. Possibile? Il tutto mentre nei PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa) si parla di istituti che “offrono una solida base di istruzione generale e tecnico professionale che consente agli studenti di sviluppare, in una dimensione operativa, saperi e competenze necessari per rispondere alle esigenze formative del settore produttivo di riferimento, e permette di acquisire la cultura del suddetto settore produttivo di riferimento in una visione sistemica”, ecc… Frasi di pura fantasia che servono a nascondere una realtà ben diversa e a scaricare l’insuccesso sugli insegnanti che “non sanno tenere la classe”.
Non c’è eccellenza senza mediocrità
A sentire i colleghi più anziani la situazione negli anni è peggiorata anche a causa dell’autonomia scolastica, che spinge le scuole a strapparsi gli studenti migliori. A questo servono i PTOF e le giornate di Scuola Aperta – quando la scuola si apre alle potenziali nuove reclute e si mostra più bella, profumata e divertente – per attrarre nuovi clienti.
Non è che una scuola è migliore perché ha professori migliori, è migliore se ha studenti migliori. Il punto è che più una scuola è attrattiva più potrà permettersi di bocciare, di fare selezione, mettendo in moto un circolo virtuoso che la porterà a eccellere; dall’altra parte, meno una scuola è attrattiva meno potrà permettersi di selezionare, infilandosi in un circolo vizioso dal quale difficilmente riuscirà a risollevarsi. Sono due facce della stessa medaglia: l’eccellenza necessita la mediocrità, ci sono scuole che si possono permettere di bocciare, altre no. È una normalissima dinamica commerciale nella quale si inseriscono anche le scuole private, perché gli scarti dei poveri finiscono tutti insieme a marcire nella discarica più vicina che di norma è un istituto professionale, mentre gli scarti dei ricchi vanno alle private di recupero anni a fare più o meno lo stesso delirio ma con la sicurezza di comprarsi insegnanti e diploma.
Si crea così, alla lunga, una sorta di gerarchia in fondo alla quale si trovano le scuole che entrano in processi di degrado e si devono accontentare degli scarti del sistema scolastico. Basta qualche anno di lavoro nella scuola per notare una chiara dinamica: dal liceo classico, al tecnico, al professionale aumentano il caos, gli stranieri e i poveri. La scelta dell’indirizzo scolastico – liceo, tecnico, professionale – non risponde tanto a logiche didattiche quanto a pratiche di marginalizzazione, disciplinari e classiste. Quanto questo sia voluto non capisco, ma è una chiara dinamica segregazionista che rafforza le disuguaglianze di partenza, promuove l’esclusione sociale, alimenta la rabbia e la fede nel bastone.
“Stavo meglio da precario”
Per mia fortuna, l’esperienza è durata poco, perché dopo un paio settimane partecipo a nuove convocazioni e riesco, non so per quale miracolo, a prendere l’ultima cattedra libera in un liceo di Treviso. E pensare che stavo per rinunciare… sono così complicate le convocazioni, specie quelle plenarie. Sono una sorta di mercato delle vacche dominato dal caso: fa caldo, sei lì in mezzo a centinaia di aspiranti professori che fanno e disfano calcoli su ciò che conviene fare, se rinunciare a una cattedra parziale per sperare di essere chiamato poi per una completa, se accettare una scuola vicino a casa rinunciando magari a quella dove ti eri trovato bene l’anno prima, col rischio poi di non prendere un bel niente… Insomma, una cosa complicatissima che dura ore, anche giorni, ma che poi quando ti chiamano devi decidere tutto in un secondo.
Non so se ce l’avrei fatta a portare a termine l’anno al professionale, il rischio di esaurimento, tra frustrazioni e umiliazioni, è alto. Ogni tanto ripenso alla sfiga di quel collega di italiano che aveva ottenuto finalmente il ruolo ed era stato assegnato dall’algoritmo ministeriale in quella scuola a 200 chilometri da dove ha famiglia e dove aveva sempre lavorato. Ogni giorno prende il treno la mattina presto per entrare in quel delirio. Era già esausto: “Paradossalmente” mi aveva detto sconsolato! “Stavo meglio da precario”. Sarà ancora vivo?
Valeria dice
@Luciano Ferrai
Non so se leggerà questo messaggio a distanza di anni dalla pubblicazione del post. Mi sto avvicinando al mondo dell’insegnamento ma con molti dubbi. Da un lato non le nascondo che mi è capitato di rinunciare a una supplenza perché ho vissuto una situazione simile a quella descritta, dall’altro proprio quando me ne sono andata e ho deciso di dedicarmi ad altro ha iniziato a mancarmi la scuola. Approfitto del post per chiederle se può essere indulgente con una persona che ha ancora molto da imparare e magari darle un consiglio. Come si può capire se si è adatti a questo mestiere?
Laura Canino dice
Questo articolo mi ricorda molto la mia scuola. Ho frequentato un liceo classico nel cosentino. L’andazzo era più o meno questo.
E parliamo di un classico… Non pensate che siano solo gli istituti. Io ero una dei alunni più educati e disciplinati. Mi facevano a pezzi!
Ha ragione quando dice che il paragone non è esagerato: le scuole oggi sono carceri/centri sociali. Dalla mia esperienza e da quella di mio zio (professore) la situazione è quella sopra descritta. Degrado e delinquenza, senza bisogno che siano extracomunitari; nella mia scuola erano tutti italiani (anche se meridionali) e facevano lo stesso schifo.
Mauro Pitteri dice
confesso di non essere riuscito a leggere tutto l’articolo perchè mi sembrano le solite cose stereotipe di un professionale.
pura illusione sperare di far cambiare modo di stare in classe a chi è abituato a far così da sempre.
l’unica è fare come la prof di Chimica. spaventarli.
poi scusami se sono maggiorenni, buttali fuori non è scuola dell’obbligo nè noi siamo assistenti sociali.
vadano a curarsi.
il problema è che per non perdere iscritti e relativi posti di lavoro le scuole accolgono anche pluriripetenti e questi sono poi i risultati.
ebbene il Colleggio non accolga chi ha già ripetuto due volte. il resto è poesia.
Pietro Lisurto dice
Grazie Luciano per la tua risposta, chiarisco tre punti:
– concordo col fatto che, come per molti lavori e forse piu’ che per la maggioranza dei lavori, un insegnante deve essere appassionato per essere un buon insegnante, per comunicare la voglia di conoscere; resta pero’ il fatto che e’ anche un lavoro e una fonte di reddito e che un laureato disoccupato possa cercare innanzitutto un lavoro e un reddito e che dovrebbe avere diritto e obbligo d’essere formato ad affrontare la/e realta’ che lo attendono;
– “prestigio sociale del corpo docente”: nessuna lobby o corporazione, volevo solo evocare il fatto che le difficoltà degli insegnanti ad essere rispettati e riconosciuti come figure autorevoli (riconoscimento senza cui non esiste rapporto pedagogico/educativo – fatto riconosciuto anche dalle pedagogie libertarie) derivano (anche? principalmente?) dal valore (prestigio) socialmente attribuito agli insegnanti (dalle famiglie degli scolari e studenti, dai miei cccuggini, dagli amici, dai tagli alla scuola di cui si sente ogni anno alla televisione, dalla caratura del ministro o ministra, etc.).
– “non si può essere soltanto docenti fatti e formati con 15.000 metodologie per l’inclusione, 6.000 piani formativi per le competenze”: salvo per le scuole primarie, in Italia si diventa insegnanti senza reali corsi di didattica e pedagogia, molto spesso senza veri tirocini, senza esperienze supervisionate, etc. Gli pseudo-corsi abilitanti o meno sono stati montati e smontati senza un progetto ragionato e discusso. (Seppure, grazie per lo più al lavoro volontario-militante-vocazionale, storicamente e in parte ancora oggi, l’Italia sia un campo attivo di sperimentazioni didattico-pedagogiche).
Luciano Ferrai dice
Gentile Giulio e gentile Redazione, vi ringrazio per la risposta. Devo scusarmi con entrambi per il tono aggressivo del mio post, animato soltanto da una sincera passione per il lavoro che svolgo e in cui credo. Dalla vostra risposta capisco di aver equivocato evidentemente fatti e persone del racconto, ma c’erano clamorose analogie e sovrapposizioni con situazioni e supplenze vissute in contemporanea nella mia scuola.
La cosa mi ha indispettito in ragione del fatto che ero stato proprio io ad indicare il nominativo di questo giovane collega alla direzione. Non ricordo più il suo nome, perciò quando mi hanno girato il link di un articolo che descriveva il “mio istituto” scritto da un supplente, ebbene tutto sembrava coincidere clamorosamente. La mia lettura superficiale e mal contestualizzata mi ha portato a leggere quello che evidentemente mi ostinavo a voler leggere in modo sbagliato, perciò il tono era rivolto a chi aveva descritto parzialmente e in malafede alcuni aspetti della scuola professionale amplificando fatti di cronaca (e qui mi sarebbe dovuto venire un dubbio…) di altri istituti o presunti aneddoti da leggenda metropolitana.
Sono stato proprio io ad avere dei pregiudizi e a leggere in malafede l’articolo di Giulio e perciò chiedo scusa dell’equivoco generato dal mio post.
In merito all’intervento di Pietro sono assolutamente d’accordo che la crisi del meccanismo scolastico sia strutturale e avvilente per tutto il sistema sociale e non voglio ridurre tutto ad una questione di “vocazione professionale” e basta, però la considero una componente fondamentale per questo lavoro: non si può essere soltanto docenti fatti e formati con 15.000 metodologie per l’inclusione, 6.000 piani formativi per le competenze e poi pensare di essere pronti ad entrare in classe per sciorinare moduli didattici alla HAL 9000 o Robocop e constatare che la classe funziona meravigliosamente. Scusa ma non sono d’accordo con te sul fatto che essere insegnati debba/possa essere solo un’opportunità meramente professionale: è sicuramente una scelta ma deve essere consapevole e motivata, non può rappresentare solo una “valvola di sfogo” al tasso di disoccupazione dei laureati e sinceramente non capisco nemmeno cosa significhi “lo svilimento del prestigio sociale del corpo docente (???)”: ma cosa siamo? La classe di una lobby del dopoguerra?
Non voglio innescare una polemica: evidentemente non mi rendo conto delle difficoltà che le nuove generazioni incontrano cercando di inserirsi nel contesto professionale dell’attività scolastica oggi e che molte dinamiche di questo meccanismo siano diventate complesse, articolate e sfuggenti, frammentate in uno scenario fatto di normative, classi di concorso e ulteriore incertezza politica. I tempi sono diversi e gli idealismi evidentemente sono retaggi di altri decenni che contrastano con le contingenze contemporanee dell’insegnamento.
Chiudo il mio intervento di nuovo scusandomi per aver generato un malinteso, auguro a tutti in bocca al lupo per le nomine del nuovo anno scolastico e buon lavoro.
Pietro Lisurto dice
Ho letto il racconto e ho letto la replica e della replica mi ha colpito molto l’astio che l’anima e ho cercato di capirne i motivi. Ferrai accusa Vallese di non considerare la dimensione umana, di guardare agli studenti come un problema e non come una risorsa. Eppure, anche a rileggere il racconto delle due settimane non mi pare emerga alcun giudizio sprezzante sugli studenti. Ciò che si sferza è la situazione di una scuola alla deriva. L’astio mi pare allora nascere da un’altra (presunta) disattenzione della dimensione umana: non aver valorizzato il lavoro di chi in quella o in quelle scuole si fa un mazzo tanto ogni giorno. In altri termini, Vallese non dice che la scuola è allo sfacelo ma tanti insegnanti ci mettono energie e tempo. Non valorizza il lavoro (mal pagato e non pagato) degli insegnanti. Anzi non si capisce proprio, secondo Ferrai, cosa ci faccia Vallese lì a fare l’insegnante se non ha la “vocazione” (dimenticando il tasso di disoccupazione fra i laureati italiani – o considerando sacrilego entrare in una scuola se non si è vocati?).
Avanzo una provocazione: questa attitudine è perversa perché funzionale all’erosione irreversibile delle nostre istituzioni scolastiche. L’eroismo e la vocazione di migliaia d’insegnanti italiani permette, nel bene e nel male, al sistema scolastico di non collassare – permette cioè la sopravvivenza al taglio annuale di risorse. Accompagna lo svilimento del prestigio sociale del corpo docente.
Per non mancare di rispetto a chi dà anima e sangue per la scuola si dovrebbe far finta di non vedere lo stallo in cui sta piombando larga parte del sistema scolastico italiano? o l’assenza di un percorso formativo per i futuri insegnanti? etc. E’ una questione politica e non umana.
Si apre qui poi un altro lunghissimo discorso: come pensare una riforma del sistema scolastico in termini libertari, che valorizzi cioè la partecipazione locale collettiva e individuale. Ricordo lunghe discussioni da studente su cosa di dovesse fare noi per rendere la scuola migliore e più vivibile e cosa si dovesse esigere dallo Stato. Difficile equilibrio. Uno striscione guadagnò un largo consenso e rimase appeso diversi giorni sulle scale: “Se la scuola fa cagare, dateci almeno la carta igienica” (per qualche tempo i preziosi rotoli tornarono a essere collocati dalle pubbliche autorità a fianco delle malefiche turche).
redazione sito sAm dice
Ringraziamo Luciano Ferrai per il suo intervento. Cominciamo a rispondere noi, perché ci pare riguardi anche la linea editoriale del nostro sito.
Prima di tutto una precisazione: abbiamo interpellato Vallese e abbiamo motivo di ritenere che l’autore del commento non lo abbia mai incrociato e stia parlando di un’altra scuola. Il che fa pensare che forse la situazione descritta da Vallese sia frequente negli istituti professionali del Nord Est. Ferrai infatti trova veritiero il resoconto, e a noi, che teniamo all’accuratezza e all’attendibilità dei pezzi che pubblichiamo, questo basta.
Per il resto siamo d’accordo che la questione sia importante e complessa (senso e ruolo della scuola, anche quella in cui non si insegna; tecniche di insegnamento, modi per instaurare relazioni, cose che si possono fare). La cronaca descrive la realtà di quel problema osservato da chi ci viene buttato dentro senza avere strumenti per intervire, e contro il quale (e qui siamo in disaccordo con Ferrai) non bastano vocazioni ed energie di insegnanti-missionari.
A differenza di Ferrai, pensiamo che questa realtà vada conosciuta e affrontata partendo da cronache e descrizioni ben fatte. Per noi la narrazione non è un vezzo letterario dovuto ad autocompiacimento, come ritiene Ferrai, ma un modo per attenersi alla realtà, per riflettere sulla propria esperienza e per comunicarla ad altri. Per noi questa è politica, e anche su questo la pensiamo diversamente da Ferrai, che distingue tra politica ed esperienza umana.
La redazione del sito di storiAmestre
Luciano Ferrai dice
“Per fortuna è durata poco” (N.B. per fortuna anche per i ragazzi).
Salve Giulio, mi chiamo Luciano, (credo) uno di quei “temporanei” colleghi di quello stesso istituto dal quale sei scampato miracolosamente dopo due settimane atroci di convivenza con quella sub-umanità da Circo Barnum con la quale, ahimè ti sei dovuto confrontare.
Del resto, lo ammetto, anche noi siamo sopravvissuti in pochi dopo l’ultimo attentato messo a punto dal clan dei “kossovari”, al nostro consiglio di classe, durante gli ultimi scrutini di giugno; siamo riusciti a farci strada nel ghetto del 1° piano (ormai completamente in mano all’etnia macedone) e finalmente siamo riusciti a scendere in segreteria didattica per affiggere i risultati degli scrutini. Esiti scontati naturalmente: tutti promossi perché altrimenti poi le ritorsioni diventano feroci: “spako botilia, amazo familia, ucido gato e faccio kaka su leto” (giuro: parlano veramente così, incredibile!). L’ingresso dell’istituto ormai è in mano al clan dei “colombiani” e la palestra è diventata definitivamente la piazza dello spaccio gestita da un club di aspiranti Escobar attorniati da ragazze che ballano il twerk a ritmo di ossessivi reggaeton. La Regione, dopo una serie di contrattazioni diplomatiche, ha accolto le nostre richieste di creare un corridoio umanitario per far uscire i docenti -scusate i formatori; effettivamente non abbiamo neanche la titolarità di docenti, siamo “impiegati della formazione”- per la pausa pranzo: pochi di noi ce la fanno e quei pochi vengono ripagati con una manciata di buoni-pasto di sola andata.
La situazione forse è anche peggio di come la descrivi nel tuo report con velleità letterarie da saggista in sedicesimo; ti sei concentrato molto sul contesto ma poco sul focus di quello che, credo, conti veramente e cioè sul rapporto con i ragazzi. La tua esperienza è stata breve, l’hai raccontata secondo il tuo vissuto ma ti compiaci in alcune descrizioni di quello che riporti (tra l’altro con inesattezze ed imprecisioni abbastanza fuorvianti, compresi tragici fatti di cronaca che fanno riferimento ad altri istituti o gli aneddoti da “miocugggino mi ha detto che una prof. gli ha fatto una mossa ad uno che dopo treggiorni è morto”). Anche io sono un docente (pardon: un indegno impiegato della formazione) di italiano e storia, con qualche anno in più sulle spalle di esperienza in classe, e una delle cose fondamentali sulle quali mi accanisco con i ragazzi è quella di non essere mai banali, né retorici o scontati e soprattutto di non ragionare mai con i luoghi comuni più beceri e insopportabili da osteria (ormai l’osteria, suo malgrado, è il mainstream dell’opinione pubblica).
Credo di ricordarmi un poco di te e una delle cose che avevo pensato era stata: “Un collega giovane, spero riesca a far presa sulla classe” (chissà perché continuo a pensare che i ragazzi siano ancora una risorsa e non un problema? A proposito sei stato ripreso dal direttore perché sei andato a fumare in cortile, poco dopo, nonostante i divieti disseminati ovunque? Wow!!! Sembravi veramente uno “contro”), comunque sia, la cosa che ho trovato sconfortante e desolante del tuo articolo è la contraddizione tra l’apparire e l’essere e il tuo reportage è di un conformismo disarmante costruito con l’esperienza di due sole settimane di presenza in classe e poca lungimiranza professionale.
La cosa che probabilmente mi infervora di più è la contraddizione di cose che pensavo inscindibili, e cioè essere giovani (e idealisti) e voler essere insegnati; meglio, prima educatori e poi docenti perché credi nei ragazzi e pensi che lavorare con loro non sia solo un “mestiere” ma un privilegio. Io non conosco le ragioni per le quali tu abbia intrapreso questa strada, mi è capitato di parlare con altri ragazzi che vorrebbero insegnare, e il problema non è “cosa” vuoi insegnare, ma capire se sia la tua vera vocazione professionale oppure no, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Sarà sicuramente presunzione ma il ruolo che abbiamo non credo sia solo quello di trasmettere dei contenuti, ma far capire ai ragazzi perché quei contenuti possono essere importanti per loro e per la loro formazione. Tu sei rimasto incastrato in un piccolissimo frammento di tempo di una situazione con dinamiche difficili e complesse, dalla quale sei riuscito ad esaltare e a evidenziare in modo compiaciuto solo la formuletta che serviva alla tesi del tuo articolo: hai scalfito appena la superficie di una realtà che non hai voluto capire ma hai giudicato e riportato con effetto più letterario che informativo. É vero, la realtà sociale dei ragazzi con i quali abbiamo a che fare è dura, pesante e faticosa, ma questa umanità deforme e grottesca di ragazzi e ragazze che hai descritto è il prodotto sociale dei tempi in cui viviamo e che abbiamo contribuito a costruire: licenziarli come paradigma della propria esperienza personale -e in maniera così superficiale- solo per sostenere in maniera narcisista l’impianto di uno scritto è frustrante per chi conosce bene quella realtà e la vive quotidianamente. Lasciamo stare il discorso religioso, pietistico o sociale, perché penso che la questione principale sia culturale e non umanitaria, riconosco che il problema della concentrazione sia reale (a proposito: da dove provengono i fallimenti scolastici e i dropout dei ragazzi che ritroviamo nelle nostre classi? Tu stesso lo ammetti: sbatterli fuori è facile; raccoglierli e ri-motivarli mettendo insieme tutti i pezzi di ciò che erano invece è un lavoro lungo e faticoso).
Sottolineo: l’analisi “politica” della situazione è corretta, quella umana parziale e zeppa, appunto, di luoghi comuni: comuni tanto quanto l’affermazione che in questi ragazzi c’è veramente molto di più di quanto tu abbia potuto scorgere in due settimane distratte di presenza in classe. Certo, entrare in un liceo e trovare ragazzi bravi, buoni e belli è rassicurante; “spiegare” (che verbo atroce) Pirandello, Leopardi, Dante, il Romanticismo, affermare il proprio fascinoso ascendente sulla classe ci restituisce un’immagine gratificante e compiaciuta di sé (sia chiaro, tutti i docenti hanno questa componente: riconoscerla e disfarsene sarebbe già un grande traguardo), questo però è l’immaginario de “L’attimo fuggente” (anche abbastanza ridicolo e soffocante). Esistono altri immaginari culturali che facevano da perno “ideologico” al mestiere di “docente”, ma evidentemente il ricambio generazionale ha diluito e sbiadito ogni cosa mescolandolo con il qualunquismo delle nuove necessità sociali e prammatiche di “voigggiovanidioggi”. Gli immaginari naturalmente sono personali, ognuno di noi attraverso la propria esperienza ha in mente un modello di maestra, professore o docente che ha segnato, positivamente o negativamente il proprio percorso e questa è l’ombra che ci accompagna, in un modo o nell’altro, tutti i giorni in classe. Tengo sempre in mente, nonostante gli anni trascorsi, un passaggio tratto dal film “La scuola” di Daniele Luchetti: “Preside, Astariti non è bravo, Astariti è un "primo della classe". Astariti non c'ha i capelli tagliati alla mohicana, non si veste come il figlio di uno spacciatore, non si mette le scarpe del fratello che puzzano. Astariti è pulito, perfetto. Interrogato, si dispone al lato della cattedra senza libri, senza appunti, senza imbrogli. Ripete la lezione senza pause: tutto quello che mi è uscito di bocca, tutto il fedele rispecchiamento di un anno di lavoro! Alla fine gli metto 8, ma vorrei tagliarmi la gola! […] Ma perché Astariti è la dimostrazione evidente che la scuola italiana funziona solo con chi non ne ha bisogno!”.
Insisto (ancora): la tua analisi sullo status degli istituti oggi e sulla gestione da Mercante in fiera degli Open Day è corretta, e sono d’accordo sul meccanismo politico-classista che ha portato a costruire un sistema di questo tipo, ma riconoscerlo dopo il tono del racconto della tua breve esperienza è, francamente, come voler salvare qualcuno che sta cadendo a corpo morto da un dirupo afferrandolo per il toupet. Comunque sia non posso notare, anche dagli altri articoli pubblicati, che sei molto concentrato sull’aspetto “narrativo” delle tue (brevi) esperienze professionali e poco sul senso di ciò che vorresti fare: sei sicuro della tua strada? Difficile essere dei buoni meccanici se si ha paura di sporcarsi le mani d’olio e si continua a dare la colpa agli utensili sbagliati.
Chiudo l’intervento per preparami al seminario propedeutico sulle nuove metodologie organizzato dal mio istituto per affrontare il prossimo anno formativo: un corso di sopravvivenza avanzato in Guatemala; cinque modi su come interrogare gli allievi lasciandoli vivi, come costruire velocemente dei fossati intorno alla cattedra e soprattutto come elettrificare efficacemente la lavagna durante gli esercizi, in fondo è solo un problema di metodologia didattica.
Luciano Ferrai