Sabato 12 dicembre 2009, si è tenuta a Mirano (Venezia) una manifestazione nazionale antirazzista, promossa dall'ANPI. Ecco una cronaca della giornata.
di Piero Brunello
Quando arriviamo a Mirano, verso le 15, ora d’inizio della manifestazione, in piazza Martiri della libertà c’è già parecchia gente. È una bella giornata di sole, fredda. Mia moglie e io ci guardiamo per capire che tipo di canzoni stanno suonando a volume non troppo alto dal palco, e, tirando a indovinare, decidiamo che è una musica americana tipo country anni Sessanta. Facciamo qualche battuta sull’età – la nostra – che devono avere gli organizzatori, e ci confermiamo nell’ipotesi guardando le persone tutte attorno.
Questa è una manifestazione nazionale dell’Anpi. Sul fondo del palco si legge una grande scritta: “Gli antifascisti hanno buona memoria. Contro il razzismo, in ricordo delle leggi razziali e della barbarie nazifascista”. In mezzo alla piazza c’è un monumento alla Resistenza che qualcuno al Comune vorrebbe togliere: non è per protestare contro questa minaccia che si è deciso di tenere la manifestazione qui, però questo elemento avrà un certo peso nel dare il tono alla giornata. Noi due siamo qui anche per questo.
La piazza di Mirano ha l’aspetto tipico di mercato, su cui convergono più o meno ad angolo retto quattro strade affiancate da portici. Guardando il palco (abbiamo la chiesa alle nostra spalle, un po’ spostata rispetto allo spazio del mercato), dalla strada di destra sentiamo arrivare il corteo. Così mi sistemo sotto i portici all’imboccatura della piazza, per vederlo passare, mentre mia moglie lo risale camminando in senso inverso.
Dal palco mettono su l’Inno di Mameli. Ci faccio caso anche perché mi trovo sotto la grande insegna dorata “Caffè re d’Italia”. Il corteo, che era avanzato cantando Bella ciao, si ferma in silenzio alla fine della strada finché non finisce l’inno nazionale, e poi entra in piazza. Siamo qui in nome della Resistenza, siamo qui in nome della Repubblica, siamo qui in nome della Costituzione – è questo che dichiara fin da subito la folla.
Davanti a tutti camminano fianco a fianco una decina di bambine e bambini che portano al collo un cartello con la fotografia ovale di un giovane uomo, accompagnata da cognome, nome ed età (“anni 19”, “anni 23”, tutti giovani). Seguono uomini che issano gonfaloni con medaglie, sindaci con la fascia tricolore, persone anziane con bandiere italiane sormontate da una stella iscritta in un cerchio.
Passano i diversi striscioni dell’Anpi delle città venete. Non sono il solo ad abbracciare persone che non vedevo da anni, succede a molti altri. Ci sono gruppi provenienti da altre regioni d’Italia: noto Rimini, Firenze, Scandicci, Catania. L’unico striscione di stranieri, se non ho visto male, è quello, in arabo e in italiano, di una Associazione Marocchina per la Cultura e lo Sviluppo di Venezia, portato da poche persone. Nessun sound system. Niente slogan, né canzoni, né scritte a mano; solo il brusio e il parlottare dei cortei. Come sempre quando la cosa è promossa da organizzazioni, ci sono molte bandiere, e gli striscioni sono standard. Tra i pochissimi striscioni autogestiti, o forse l’unico, ne noto uno portato da donne, con la scritta viola “Antisessismo è antifascismo. Collettivo femminista e lesbico” e la sigla “Ve”. Dopo il tricolore dell’Anpi, ecco il rosso della Cgil (soprattutto Cgil pensionati), di Rifondazione comunista, dei Comunisti d’Italia e del Partito comunista dei lavoratori. Se non fosse per le bandiere del Pd, che arrivano subito dopo, e per uno striscione di Emergency, ci si sentirebbe rituffati nelle Prima Repubblica. Proprio alla fine del corteo vedo alcuni compagni di storiAmestre, e mi unisco a loro.
Faccio un giro per la piazza, saluto compagni e amici dell’Etam, di Mestre, di Mogliano Veneto, dell’Istituto veneziano di storia della resistenza, dell’Ateneo degli Imperfetti di Marghera. Noto le bandiere arcobaleno. Ai margini si formano capannelli, qualcuno va a scaldarsi in un bar. Al centro invece, davanti al palco, la folla ascolta i discorsi in silenzio. Sento leggere i nomi dei partigiani a cui è dedicata la piazza. Mi avvicino e vedo che lungo il palco sono stati disposti i cartelli con le immagini ovali – le loro fotografie. Palloncini rossi sollevano due strisce verticali color giallo con la scritta NORAZZISMO. Alzando la testa, vedo che il cielo azzurro è striato di nuvole.
Non ho preso appunti dei discorsi, perciò vado a memoria e posso confondermi. Una donna sul palco presentava i diversi oratori, diceva i nomi degli uomini politici e delle delegazioni presenti in piazza, leggeva i messaggi di adesione. Ho perso il discorso del primo oratore. Le parole dell’uomo che ha parlato dopo di lui, spesso sottolineate da applausi, erano “Resistenza”, “Costituzione”, “razzismo, antirazzismo”. Mi è sembrato di notare una leggera cadenza emiliana. L’uomo ha accusato le norme che colpiscono oggi gli stranieri, ha ricordato le leggi razziali del 1938 e le responsabilità dell’Italia nell’aver causato, assieme alla Germania nazista, una guerra che ha fatto cinquanta milioni di morti; ha parlato della democrazia in pericolo.
Mentre mia moglie e io ci avviamo a un bar, una donna denuncia dal palco la violenza sulle donne. Non saprei riportare il suo discorso, perché ho sentito solo la parte finale, quando siamo tornati in piazza. Subito dopo di lei è stata data la parola ad Armando Cossutta (“che non ha bisogno di essere presentato”). A nome dell’Anpi, Cossutta ha denunciato la svolta autoritaria in atto proprio in questi giorni in Italia. Ha chiamato a raccolta il popolo per sventare quello che ha chiamato “l’alto tradimento” di Berlusconi. Le sue parole, accompagnate da un crescendo di applausi, erano “popolo”, “patrioti”, “patria”, “destre eversive”, “democrazia”, “costituzione”, “resistenza”.
Verso la fine, un’amica mi farà notare che la manifestazione aveva messo in secondo piano il tema specifico dell’antirazzismo e del razzismo, in nome del richiamo a un’opposizione politica e parlamentare. Più di una volta l’ho pensato anch’io. È come se l’antirazzismo fosse una conseguenza implicita, quasi scontata, dell’opposizione politica. In questo modo ci sentiamo esonerati dalla responsabilità di esprimerci ad alta voce sui temi del razzismo. Per lo stesso meccanismo tendiamo poi a distinguere tra antirazzisti (sempre noi) e razzisti (sempre gli altri): senza smontare le cause del razzismo dentro la nostra storia, dentro i discorsi e le pratiche sociali.
Mentre penso a queste cose, la donna dal palco ricorda la strage di piazza Fontana, avvenuta alle 16,37 di un 12 dicembre di quarant’anni fa, e chiede un minuto di silenzio per le vittime della strage neofascista. Guardo l’orologio, alle 16,37 mancano una ventina di minuti. È uno scherzo della memoria oppure ho notato davvero in quel momento le prime ombre della sera? Il silenzio si è diffuso dal centro della piazza verso i margini, finché è cessato ogni brusio. Io pensavo alle manifestazioni del 12 dicembre dei primi anni settanta, quando si urlava “La strage è di Stato” contro quello che si chiamava “arco parlamentare”, e confrontavo quelle grida con il silenzio rituale delle piazze di oggi, come qui a Mirano, che testimoniano fedeltà alla Costituzione. Sarà per questo che nessuno attorno a me s’interroga sul numero dei manifestanti, come si fa di solito? Forse perché oggi sono in gioco non i rapporti tra maggioranza o minoranza, ma i principi stessi che regolano la democrazia? Come possiamo allargare gli spazi di autonomia? e difendere la democrazia? Si sta formando un arco costituzionale? E sulla base di quali esclusioni? Così pensavo. Il silenzio continuava a reggere, finché non è stato interrotto da applausi partiti dal palco.
È stato un uomo di colore, presentato come un esempio di integrazione (mi è sembrato che la donna sul palco lo chiamasse “onorevole” o “deputato”), a riportare l’attenzione sul razzismo. L’uomo ha cominciato dicendo di riconoscersi, lui straniero immigrato, nella Resistenza italiana, e quindi in questo paese. Faccio parte di questo paese e lo amo, diceva l’uomo. Ma a me sembrava che con queste parole dicesse: sono un nero e parlo a un pubblico di bianchi. O forse l’ho pensato perché, mentre parlava, ho fatto ancor più caso al fatto che in questa manifestazione quasi non si vedono immigrati. L’uomo dal palco ha ricordato, chiamandoli per nome, gli stranieri uccisi o aggrediti in Italia per razzismo. Ha ricordato il Mediterraneo insanguinato dalle morti di chi cerca di raggiungere l’Italia, e ha detto che le generazioni future ci chiederanno dove eravamo noi quando queste atrocità succedevano. Se non sbaglio, è stato l’unico a ricordare che nessuno è vaccinato contro il razzismo, e che il razzismo è tra noi (mi sembra abbia detto “anche tra i democratici”).
Ho fatto attenzione alle parole della signora Tamara, ucraina, che ha parlato dopo di lui, perché era stata relatrice qualche anno fa a un incontro di storiAmestre, quando abbiamo presentato e discusso il quaderno di Christian de Vito. Allora ci si chiedeva come affrontare l’allarme sociale che si stava sviluppando nei confronti della presenza degli stranieri in via Piave, dove ci trovavamo per quell’incontro. Poi mi è capitato di collaborare con lei quando, con altri stranieri e un gruppo di abitanti del quartiere Cipressina, sempre a Mestre, siamo intervenuti, prima con incontri e poi con un’assemblea finale, in seguito ai conflitti sorti tra italiani e stranieri per l’uso di un parco pubblico. In quell’occasione ci fu una festa al parco e la signora Tamara presentò un coro di donne ucraine, che scapparono non appena finito di cantare, per raggiungere gli anziani che accudivano. La signora Tamara fa un intervento breve. Dice che i valori antifascisti sono importanti, ma che non bisogna essere contro, ma a favore di rapporti buoni tra le persone. Lei usa la parola “amore”. Mentre l’ascolto, immagino una manifestazione in cui invece di dare la parola ai politici, dal palco si raccontano testimonianze, storie e vicende personali.
Dopo un altrettanto breve intervento di don Pagotto, della Caritas di Treviso, parla don Bizzotto, animatore dei Beati costruttori di pace ai tempi della mobilitazione contro i missili a Comiso, e poi durante la guerra nella ex Jugoslavia. Ricordando l’ora tarda e il freddo della sera, don Bizzotto comincia riportando una battuta che ha appena detto a un vicino dietro il palco: “E poi non lamentatevi con i preti che le messe vanno per le lunghe”. Io sono un prete e parlo a comunisti che vanno in chiesa: così mi è sembrato volesse dire. Poi ha fatto un’altra battuta. Qualcuno, incontrato lungo il corteo, si era rammaricato con lui per il fatto di trovarsi sempre i soliti, a distanza di anni. Io non mi lamento di questo, ha detto: anzi sono contento. Tuttavia mi è sembrato che le sue parole volessero esprimere rammarico per la scarsa presenza di giovani. Don Bizzotto ha parlato dell’attualità della Resistenza, dicendo che non ha senso essere contro la guerra se non si denuncia e si blocca la produzione di armi. Quando ha ricordato l’importanza della lotta contro la nuova base militare Dal Molin, che non riguarda solo Vicenza ma tutti, a me è sembrato un rimprovero per le forze politiche, alcune almeno, presenti in piazza. Don Bizzotto ha finito mettendo in guardia dai discorsi di quanti fanno del crocefisso un simbolo etnico contro gli stranieri: perché sono cominciate così le guerre nella ex Jugoslavia, ha ricordato tra gli applausi.
Mia moglie e io lasciamo la piazza verso le 17,15, quando sta parlando un generale dell’esercito in pensione. Dopo poco avevamo un incontro all’Ateneo degli Imperfetti a Marghera: e anche lì abbiamo trovato più di una persona che aveva preso parte alla manifestazione di Mirano.
ruggero lazzari dice
Caro Brunello, leggo solo oggi 26 dicembre queste tue righe sulla manifestazione di sabato 12 a Mirano. Mi sento di aggiungere, per la cronaca, che sventolavano anche 4 bandiere rosso nere a semplice testimonianza della presenza dell’arcipelago anarchico/libertario(una retta dal sottoscritto fino alla fine della veloce e mal gestita performance musical/canora finale)e che non ho tratto una impressione così positiva dall’evento, troppo chiuso nella retorica dei “valori costituzional/patriottici” e troppo farcita di partecipazione ascrivibile all’arco politico parlamentare con netta dominanza delle componenti “comuniste” e “catto-comuniste” vuoi pure nelle versioni sindacali o partigiane che fossero. Presenza giovanile minima, coinvolgimento del bacino riviera del Brenta e miranese di cui Mirano si può riconoscere il centro quasi zero(sempre a mio modesto parere). Vero rammarico non esser salito sul palco a distinguere civilmente dal contesto la posizione dei libertari…(ma chi sono io se non l’espressione di un parere personale) o quantomeno a sottolineare la distanza della così detta “società civile” da manifestazioni e scioperi organizzate e occupate da formazioni politiche storiche e dalle loro “cinghie di trasmissione”. Insomma, con la soddisfazione della goliardica rimpatriata fra libertari artistoidi(o anarcoidi artisti) e lo scambio ironico con il portavoce regionale dei rifondaroli come sempre pronto a dichiararsi cittadino qualunque, mi sono portato a casa una certa amarezza e sensazione d’inconcludenza per aver partecipato ad un evento senza aver avuto il coraggio di dire a tutti quello che stavo provando e pensando (compresa la riflessione sul senso di partecipare ad una manifestazione per poi ascoltare degli “oratori” e non di dar voce alla piazza su temi attuali come neo razzismo e neo fascismo, vivendo con la memoria, ma non di memoria e per la memoria).
Un abraccio fraterno
Roger dal Fosso