di Piero Brunello
Ripubblichiamo con minime modifiche il contributo di Piero Brunello apparso, con questo stesso titolo, nel 1996 nel volume curato da Leonardo Piasere Italia romaní (I, Cisu, Roma 1996, pp. 263-276). L’originale riportava in appendice la trascrizione di 104 cartelli, che ora rendiamo disponibile cliccando qui. Nel 1994 sAm e la rivista "Altrochemestre" avevano organizzato un convegno dal titolo "Campi profughi a Mestre e in Italia. Storia e progetti (1992-1995)". Da quei lavori e da quelle discussioni sarebbe poi nato il volume collettivo curato da Brunello, L’urbanistica del disprezzo (Manifestolibri, Roma 1996).
1. Nella primavera del 1993 ho cominciato a notare a Mestre e a Venezia la presenza di persone che domandavano l’elemosina esibendo dei cartelli con scritte. Erano donne sole o con bambini piccoli in braccio, uomini soli o accompagnati da un bambino, bambini maschi soli o a due a due: che io abbia fatto caso, mai bambine da sole. Da allora la loro presenza è divenuta familiare.
A Mestre la scena avviene ai semafori. Il questuante, uomo o donna, passa di macchina in macchina fermandosi un po’ davanti il posto di guida per mostrare il cartello senza dire niente: se intuisce di poter ricevere qualcosa, si ferma e chiede, se no prosegue per non perdere tempo. Spesso chi sta al volante chiude il finestrino: per invitare a tenerlo aperto, nel luglio del 1995 dei bambini si avvicinavano al posto di guida con un ventaglio, offrendo un po’ di fresco in cambio di una elemosina.
A Venezia invece il questuante, anche in questo caso uomo o donna, sta accovacciato o seduto e colloca il cartello scritto da entrambi i lati e piegato in due come una V capovolta, in modo che stia ben appoggiato per terra e visibile. C’è chi rimane zitto, con la faccia bassa, le donne quasi nascondendola nel grande fazzoletto che portano in testa, gli uomini se fa freddo tenendo il capo tra il bavero della giacca; c’è chi invece ondeggia in continuazione con il busto e con la testa tendendo la mano, cercando gli occhi del passante, biascicando una sorta di cantilena incomprensibile per un italiano, o ripetendo con voce tremolante e piagnucolosa “Prego prego signore”, “Povero signore”. Una donna, implorando la carità con la stessa tecnica, mi ha chiesto una volta: “Prego signore, cento lire per mangiare bambini, signore”.
Non ho mai incontrato questuanti aggressivi. Al contrario, in genere hanno un atteggiamento remissivo, lamentevole anche se insistente nei casi di chi ondeggia. Non fumano mai mentre chiedono l’elemosina: lo fanno prima di cominciare, fumando l’ultima sigaretta facendo un giro attorno al luogo dove si fermeranno. Ho visto fumare, chiedendo la carità, solo un uomo che suonava “Chitarra romana” con la fisarmonica, seduto su un seggiolino da picnic. E neppure occupano strettoie (penso a Venezia, dove sarebbe semplicissimo) tali da mettere troppo a disagio il passante che non dispone di percorsi alternativi. Sebbene occupino posti di passaggio molto frequentati, sugli scalini dei ponti o vicino alla porta delle chiese, il passante ha sempre la possibilità di scostarsi un po’. Il motivo di questa scelta dipende dal fatto che un cartello nel mezzo di una calle stretta o sopra un ponte sarebbe calpestato dalle comitive e nessuno vedrebbe il questuante. L’ho capito vedendo un uomo seduto per terra che teneva sollevato il cartello salvandolo a mala pena dai piedi di una comitiva numerosa che passava senza accorgersi di lui.
Non ho mai riscontrato quella mendicità “diretta, invadente, non facilmente evitabile” di Rom abruzzesi e Xorachané che Vincenzo Padiglione (1994) ha osservato invece a Roma. Potrebbe dipendere da tratti culturali differenti, ma io credo che a Mestre i mendicanti si comportano così perché sono conosciuti o possono essere riconosciuti facilmente dato che vivono da qualche anno in due Campi in periferia, conoscono gente e hanno amici in città, qualche bambino va a scuola e così via: Mestre non è una metropoli, e spesso si ferma al semaforo qualcuno che frequenta i Campi. Per esperienza personale posso dire che in quest’ultimo caso il questuante nasconde il cartello, smette di chiedere l’elemosina e scambia un saluto, frasi di circostanza o qualche battuta di spirito. A me sembrano segni di imbarazzo: infatti tutte le volte che ho invitato in bar un questuante nella cui roulotte o baracca ero stato ospite, ho sempre avuto un rifiuto motivato dalla “vergogna”, a maggior ragione se sono in compagnia, mentre in altre circostanze l’invito è accolto e spesso è reciproco. L’imbarazzo è molto più forte se si tratta di una persona che è stata ospite a casa mia, o di un suo parente stretto (fratello, madre): in questo caso entrambi preferiamo evitare l’incontro, perlomeno le prime volte. L’imbarazzo infatti scompare col tempo. Quando invece mi è capitato di essere in macchina con qualcuno dei Campi e di incontrare un questuante al semaforo, i saluti vengono scambiati senza alcun segno di disagio.
Se ricevono l’elemosina ringraziano, a volte con un cenno del capo, altre volte dicendo “Grazie”. Quando non ricevono niente, dicono qualcosa? L’ho chiesto a un anziano rom italiano, che vive a Mestre da molti anni, e questi mi ha risposto che i Xoraxané Romá dell’ex Jugoslavia (perché di questi sto parlando) se non ricevono niente mandano maledizioni. Lui è di origine slovena e capisce abbastanza la loro lingua; personalmente però non l’ho mai notato. Ho sentito di soli due casi, ultimamente, riferitimi da persone attendibili: di un bambino davanti a un supermercato di Mestre che “risponde male” se non gli si dà qualcosa, e di un uomo che una volta ha picchiato i pugni sul cofano della macchina gridando “puttana” a una ragazza che non aveva dato niente.
Di solito le donne sedute chiedono la carità posando un recipiente per terra, che può essere una ciotola per gatti, un sottobicchiere di plastica, una vaschetta in polistirolo per frutta, un secchiello per giochi di bambini. Gli uomini invece raccolgono i soldi nel cappello, anch’esso posato per terra, oppure tendono un piattino di plastica. Che io abbia notato, nessuno raccoglie soldi con la mano, tranne in qualche caso ai semafori. A Venezia ho notato un questuante seduto sugli scalini di un ponte che aveva supplito alla mancanza di cappello e di un recipiente mettendo qualche moneta per terra per far capire dove voleva l’elemosina, ma non tendeva la mano.
Nella ciotola o nel cappello c’è molto spesso un’immagine sacra, “santini” che si trovano nelle chiese: molto usato mi sono parsi sant’Antonio di Padova e santa Rita, ma anche immagini della Madonna. In rari casi c’è la fotografia di una famiglia o di bambini, spesso a corredo di un cartello le cui parole richiamano l’attenzione su famiglie con molti figli a carico.
Nei due Campi profughi di Mestre i Dasikané Roma e i Xoraxané Romá hanno elaborato un linguaggio per comunicare con i non zingari (Brunello, 1994). In questi due Campi “andare a elemosina” si dice “caritare”. Se non ho capito male, è un calco dal rómanes: “vado di caritare” traduce alla lettera l’espressione “giav te mangàv”. Nei primi mesi del 1994 “caritare”, cioè “chiedere per avere”, mi veniva presentato come una attività momentanea e obbligata, in attesa di qualcosa di migliore (ad esempio un lavoro), ed era contrapposta a “lavorare”: “Vado di caritare, mangiare bisogna, sì?”; “Io no Jugoslavia caritare”; “No voglio caritare, voglio lavorare”; “No vado di caritare, ma vado di vendere rama, pignatte”. Nei mesi successivi, aumentando la conoscenza reciproca, “caritare” diveniva spesso, perlomeno per alcuni gruppi familiari, sinonimo di “lavoro”.
Chiedere la carità può causare vergogna? Dipende da come lo si fa. Nella discarica di San Giuliano, a Mestre, dove nel 1994 vivevano più di duecento Xoraxané Romá provenienti da Obilić, vicino a Priština nel Kosovo, era considerato lazó (vergogna) per un uomo adulto mendicare seduto per terra, mentre non lo era chiedere la carità ai semafori o girare per le case; inoltre era lazó mendicare a Venezia perché, così dicevano, ci sono troppi turisti che vedono. Per i Dasikané Roma provenienti da Šabac, in Serbia, e sistemati nel Campo profughi di Zelarino, sempre a Mestre, è vergogna per un capofamiglia sedere per terra o andare a carità lui stesso ai semafori, mentre non è vergogna mandarci i figli e le donne. Sempre a Zelarino ho conosciuto dei serbi, sia uomini che donne, che non hanno mai chiesto prima la carità, e che in Italia riescono a farlo solo ai semafori e senza piattino.
Perlomeno nei due Campi Profughi di Mestre nessuno sembra eccessivamente preoccupato delle denunce per accattonaggio. Sono esasperati dal fatto che i vigili o la polizia li cacciano dalle strade e li portano in questura sequestrando loro i soldi, ma non fanno molto caso alle denunce. Nella primavera del 1995 leggo sulla stampa cittadina che un uomo del Campo di Zelarino è stato condannato a due mesi con la condizionale per aver “costretto” due figli e un nipote a mendicare. Chiedo informazioni all’interessato. L’uomo, un macedone, che al Campo viene definito musulmano o xoraxanó, cade dalle nuvole. Ti avranno pur mandato una carta, gli dico. Carte, risponde, tante, un pacco così, le prendo e le butto via (mi fa il segno). Come buttare via? Sì, vengono tante volte i carabinieri a riportare i figli e gli fanno firmare una carta, così. Chiedo: sei tu che vai a carità? L’uomo, non so se offeso dalla insinuazione o stupito della domanda, mi risponde che ci vanno i figli. Per la legge italiana è reato, dico io. Per italiani, risponde, “bene se rubare, no bene se caritare”. Mi chiede comunque di informarmi. Vado in pretura. Una donna allo sportello apre un grande registro e controlla: sì, due mesi, con la condizionale. Mi spiega che dopo due condizionali si va in galera. Chiedo perché una condanna così pesante rispetto alle altre, di solito di una decina di giorni. Secondo lei, dipende dal fatto che la persona non si è presentata all’udienza perché irreperibile. Ma come irreperibile se sta al Campo di Zelarino? Lo sa anche il cronista del giornale su cui ho letto la notizia. Lei allora mi dice che forse dipende dal fatto che l’invito normalmente viene mandato molti mesi prima. Aggiunge che molti dei Campi vengono da lei a chiedere informazioni delle loro condanne per averlo saputo dai giornali. Quando ho riferito la cosa, l’uomo mi ha risposto che per queste cose in Italia non si va in galera, tutti accumulano condanne senza conseguenze: e comunque in galera gli daranno da mangiare.
Sempre a proposito di bambini ai semafori, nel settembre 1994 sono a cena in una pizzeria con due ragazzi del campo di Zelarino. Il ragazzo A dice che noi siamo molto ricchi. Io so che qualche giorno prima, parlando con B, aveva aggiunto che per questo era giusto rubare nelle nostre case. Io rispondo che dietro una casa come la mia ci sono almeno 40 anni di lavoro in fabbrica di mio papà, con turni 6-14, 14-20, notte. Il ragazzo A non sembra colpito dall’argomento. Allora il ragazzo B, per convincerlo, dice che noi per avere questo abbandoniamo i figli tutto il giorno e non li vediamo mai se non di sfuggita alla sera, mentre loro con i figli ci stanno sempre.
2. Ho trascritto il primo testo di un cartello il 26 maggio 1993 in Calle Larga a Venezia. Da allora, fino alla metà di settembre 1995, quando termino di scrivere queste brevi annotazioni, ho ricopiato 104 testi diversi, raccolti sia a Mestre che a Venezia.
Quando vedo un cartello rallento il passo o la macchina, faccio la carità, mi imprimo il testo a memoria, lo scrivo su di un qualsiasi pezzo di carta, e se serve torno indietro a controllare (a Venezia non è difficile passare inosservato). Le prime volte passavo e ripassavo su e giù fingendo un impegno di qualche tipo; col tempo mi sono fatto l’occhio e il compito è divenuto più facile, anche perché i cartelli sono diventati via via più brevi e più stereotipati. Oltre al testo riporto luogo, data, ora; spesso faccio qualche rapida annotazione sull’atteggiamento del questuante e dei passanti.
Imbattendomi in un cartello mi chiedo: questo testo ce l’ho già? Se lo vedo per la prima volta lo trascrivo, se no lascio perdere. Perciò la mia raccolta segnala non la compresenza nello stesso periodo di diversi modelli di testo, bensì la comparsa di modelli nuovi. Dal momento che il modo di presentarsi dei questuanti risponde a un’idea che essi hanno della società in cui vivono e di quello che può fare effetto, la modificazione dei cartelli segnala il modificarsi dei rapporti tra chi chiede e chi fa la carità.
La prima cosa che ho notato all’inizio è che i cartelli (di solito pezzi di scatoloni da supermercato, altre volte coperchi di scatola da scarpe) erano scritti con grande cura: caratteri stampatello maiuscoli, segni a pennarello ben tracciati e senza sbavature, righe diritte, simmetria nella composizione. Mi sembravano tutti della stessa mano, e questo potrebbe essere vero perché nell’estate del 1994 nella discarica di San Giuliano, dove si erano accampate circa duecento rom tra serbi di Bogatić-Šabac in Serbia e musulmani di Obilić-Priština in Kosovo, ho conosciuto un ragazzo che aveva studiato alle superiori e scriveva cartelli a pagamento. Aveva comprato un dizionario tascabile italiano-serbocroato e scriveva un cartello per cinquemila lire. Li scriveva con scrupolo, ci metteva tra una e due ore per farne uno. Aiutandosi con un cartone tirava delle righe sottilissime con la biro e poi scriveva con un pennarello nero. Si lamentava di non avere strumenti migliori e che il cartone non fosse tanto buono come righello. Ci teneva a non fare errori di ortografia, e mi chiedeva ad esempio se fosse giusto “profugo” per l’uomo e “profuga” per la donna.
Tuttavia qualche errore di italiano non solo è accettato, ma pure voluto. Un giovane uomo del Campo Profughi di Zelarino che il cartello se lo scrive da solo, e che all’inizio del 1994 parlava un buon italiano, mi ha detto che qualche sbaglio di ortografia ci vuole: funziona per chiedere la carità, mostrare che si è stranieri, veri profughi, poco pratici della lingua e del luogo, in altre parole per impietosire.
Via via la scrittura dei cartelli è divenuta meno curata, finché, a partire dalla primavera del ’95, le scritte mi sono parse tracciate sempre più frettolosamente. La sciatteria nella scrittura è andata di pari passo col crescere della disattenzione dei passanti per le parole dei cartelli: alla curiosità iniziale dei passanti si accompagna l’accuratezza nella scrittura, mentre il minor interesse a leggere i cartelli ha comportato un loro impoverimento per così dire estetico. Negli ultimi mesi il cartello serve semplicemente a segnalare la presenza di un mendicante proveniente dalla ex Jugoslavia, e infatti le donne ai semafori, che qualche mese fa passavano esibendo il cartello davanti al finestrino delle macchine, oggi, le poche volte che ne hanno uno, lo tengono seminascosto in una mano, senza preoccuparsi troppo di far leggere il testo.
3. Lo schema tipico del cartello è il seguente: “IO SONO PROFUGO / DELLA YUGOSLAVIA / VI PREGO UNA OFERTA / GRAZIE”.
Chi chiede la carità si presenta come “profugo” della ex Jugoslavia. Quando la provenienza è meglio specificata, si parla di Bosnia o di Sarajevo, zone che richiamano la guerra. A volte la guerra è nominata espressamente: “IO SONO PROFUGA / DELA QVERA JUGOSLAVIA”; oppure: “IO SONO PROFUGO / DI JUGOSLAVIA / GRANDE PROBLEMI GVERE”.
Nei Campi Profughi di Mestre o di Padova (da quest’ultima città vengono i mendicanti di Venezia) non ci sono bosniaci, e nessuno viene da Sarajevo. Il richiamo alla guerra nasce dal fatto che fin dall’inizio il messaggio nei loro confronti è stato esplicito: se siete profughi vi aiutiamo, se siete zingari andate via o vi mandiamo via noi.
Nel marzo del 1992 il parroco del quartiere Cita, a Marghera, raccoglie vestiti, coperte, oggetti da cucina eccetera per un gruppo appena giunto dal Kosovo, che si era sistemato tra i vicini ruderi di una ex falegnameria: dopo aver chiesto l’intervento del comune, li accompagna in questura perché venga loro rilasciato il permesso di soggiorno in quanto “profughi”, e la questura, dal canto suo, consegna a tutti il foglio di espulsione dall’Italia in quanto “nomadi”. Questa è una situazione esemplare e, pur con qualche variante, si ripete. Alcuni volontari hanno sentito venir meno le ragioni del proprio impegno dopo aver scoperto che questi gruppi vengono dalla Serbia e dal Kosovo, quando non sono in Italia da parecchi anni. Ricordo nell’ottobre del 1992 un ragazzo di Marghera che va sotto il cavalcavia di Mestre, vicino alla stazione ferroviaria, a conoscere le persone accampate sotto i piloni. Fa amicizia con una coppia giovane con due figli. Il ragazzo di Marghera mostra la carta geografica e indica Sarajevo. L’altro dice di no e mostra un’altra città, in Serbia. Il ragazzo di Marghera nota la distanza di quella cittadina da Sarajevo, e sembra come deluso.
Una seconda indicazione, oltre alla guerra, riguarda spesso il numero di figli. In questo caso i cartelli specificano con cura: “HO 2 BAMBINI”, “CELAM 2 BAMBINE”, “ABIAMO 4. BAMBINI”, “SI – 5 – BAMBINI – SI – 6 – NEPOTI”, “3 BAMBINI”, “A CASA HO 2 BAMBINI”, “AM 3. PICULI BAMBINI”, “4 BAMBINI – UNO INVALIDO”, “INSIJAMO SKAPATI CON 4 BAMBINI” e così via. Come ho già accennato, talvolta una foto rafforza il richiamo ai figli, mostrando una famiglia numerosa oppure una situazione famigliare felice, si suppone precedente alla guerra. Un cartello esibito nel giugno del 1993 da un uomo lungo i binari della stazione di Mestre mostrava incollata all’angolo destro, in basso, una foto a colori di una casa che in Italia sarebbe una modesta casa di campagna. Il testo, con un brutale contrasto, ricordava la morte di moglie, figli, sorella bruciati con la casa, e concludeva: “SIETE GENITORI POTETE KAPIRE LA MIA SITUAZIONE”.
Altra condizione ricordata molte volte nei cartelli riguarda la mancanza di soldi per mangiare: “POKO SOLDI PER MANDARE”, “NON CELO SOLDI PER MANDARE”, “NIENTE – SOLDI – PER – MANDVARE”, “NONCE SOLDI PER MANDARE” e varianti molto simili. Questa precisazione tende a impietosire ma soprattutto rassicurare chi dà l’elemosina, il quale è disposto a farlo solo se i soldi saranno usati per dar da mangiare, soprattutto ai bambini. Una donna musulmana del Kosovo che era venuta da Bologna per festeggiare con parenti la festa di San Giorgio nel maggio del 1994 nella discarica di San Giuliano, mi raccontava ridendo di come una volta, un giorno di inverno molto freddo, avesse ricevuto l’elemosina di 50.000 lire da uno a cui aveva raccontato di aver fame; dandole i soldi, l’uomo le aveva raccomandato di comperarsi da mangiare, mentre lei era subito corsa in un bar a bere una Vecchia Romagna, incontrandovi però quello che le aveva fatto l’elemosina. Non ricordo come abbia risolto la situazione, anche perché parlava l’italiano molto male e io niente della sua lingua, ma mi è sembrato un buon esempio del fatto che il mendicante è consapevole delle aspettative di chi fa l’elemosina, e vi si adatta, tentando di utilizzarle a proprio vantaggio: il fatto che lei raccontasse l’aneddoto ridendo, mi parve anche significare che la bravura del mendicante consiste nel conoscere gli argomenti giusti cui fare appello e nel saper mantenere il contegno appropriato.
In qualche caso il richiamo a Sarajevo o comunque alla guerra è accompagnato, e più spesso sostituito, dal richiamo alle malattie, soprattutto quando il cartello è esibito da una donna. L’indicazione di solito è generica: “MI MARITO MALATO”, “STOMALO”, “IYO MALATI”, “SONO MALATA”, “IJO UNA DONA MALATO”. Nel caso la malattia sia indicata, si tratta di diabete: “MALATIA DI ZUKERO”, “MALATA DI ZUKERO”, “IO SONO MALATA / PER ZUHERO”, “ SONO MALATA / DI ZUCERO”.
Il cartello chiede soldi: “PREGO POKO SOLDI”, “VI PREGO PER UNA OFERTA”, “PREGO UNA OFFERTA”, “ASPETAMO UNA PICOLA OFERTA” e così via. La richiesta è generica. In un solo caso, nell’ottobre 1993, un cartello esibito da un bambino che passava di negozio in negozio a Venezia precisava la cifra richiesta: “GRAZIJE – L. 2000 / L. 3000 – L. 4000 – L. 5000”. Quel cartello l’ho rivisto solo in un’altra occasione. Una coppia giovane del Campo di Zelarino mi ha detto di aver visto un cartello simile a Verona, dove si erano recati a chiedere l’elemosina, e di aver litigato con la persona che lo esibiva perché, mi hanno detto, chi fa così è un mendicante di mestiere venuto in Italia non per evitare la guerra ma per chiedere la carità, fa fare una brutta figura a tutti, ed inoltre è “vergogna” indicare la cifra.
In soli due casi la richiesta non è di soldi ma di lavoro. Il primo caso riguarda uno studente di chimica che si dice scappato dalla guerra: “FINITO SKOLA PER HIMIKA / VI PREGO AIUTATEMI PER / LAVORO”. Il secondo riguarda una donna con due bambini il cui cartello termina con le parole “CERCO LAVORO”.
Il cartello termina infine con un ringraziamento: “GRAZIE”, “GRACI”, “GRAZZIJO”, “MOLTO GRAZIE”, “MOLTO GRACIE”, “MOLTO – GRAZZIA”, “MOLTO GRACIJE”, “MOLTO GRAZZIJE”, “MOLTO GRZIE”, “MOLTO / GRAZIE SINJORE”, “TANTE GRAZZIE”, “MILE GRAZZIE”. Qualche volta, dopo la formula di ringraziamento, il cartello aggiunge l’augurio “DIO VI BENEDICA”, “DIO VI BENEDIKA” “DIO VI BENETIKA”, “DI VI BENDEICA”, “DIO VI BEDENICA”. In un caso la formula beneaugurante di chiusura è “SALUTE”.
4. Uno schema differente di cartello, molto meno consueto, comparso per la prima volta nel marzo 1994, ricorda che il mendicante chiede la carità perché ha fame. Lo schema tipico è il seguente: “VI PREGO / HO / FAME / GRAZIE”, con la variante “VI PREGO / MI / FAME / GRAZIE”, oppure “VI PREGO / HO FAME / DIO VI BENEDIKA”.
5. In occasione di ricorrenze e di feste della società italiana, le stesse persone che di solito mostrano il cartello del profugo, ricorrono a scritte di auguri. Per esempio, pochi giorni prima di Natale del 1993, un bambino che chiedeva la carità a un semaforo di Mestre con un cartello consueto, si presentò con questa scritta: “SONO UN BAMBINO POVERO / NON HO SOLDI PER MANGIARE / AUGURI BUON NATALE / AIUTATEMI VOI / GRAZIE”. La solita donna che chiede la carità davanti a una chiesa di Venezia con un cartello che ricorda la guerra accompagnato da fotografie dei figli, la mattina dell’otto marzo 1995 teneva un cartello con la scritta “BUONA FESTA / PER TUTI DONE / GRAZIE”. Un’altra donna seduta sugli scalini di un ponte a Venezia, il mercoledì prima della domenica di Pasqua del 1995, mostrava un cartello con la scritta “VI PREGO / UNA OFFERTA / PER VIVERE / BUONA PASCVA / GRAZIE”. Chiedere la carità durante feste importanti è diverso che farlo nei giorni normali, e non solo perché si prendono più soldi. Un ragazzino che stava nella discarica di San Giuliano, a Mestre, un giorno mi raccontò di essersi recato a chiedere la carità davanti a una chiesa di Vicenza qualche giorno prima di Pasqua, e di essere stato portato nella Caserma dei carabinieri dove gli avevano sequestrato i soldi. Mi disse anche di essere stato picchiato. Il ragazzino trovava la cosa più incomprensibile del solito perché, mi diceva, era andato non a fare del male, ma ad augurare “la buona pasqua”.
6. I testi dei cartelli che ho trascritto tra il 1993 e il 1995, , e che qui presento, hanno subito una evoluzione. Lo schema rimane persistente per tutto il periodo, ma mentre all’inizio i cartelli fanno riferimento in modo esclusivo a Sarajevo e alla guerra, a partire dalla primavera del 1994 l’enfasi è posta sulla fame e sulle malattie. Nel primo caso il mendicante si presenta come un profugo, anche se con famiglia numerosa e senza soldi, nel secondo invece, come un povero della ex Jugoslavia, malato, o come una donna sola con bambini.
In un primo periodo, fino appunto alla primavera del 1994, era consueto leggere cartelli come il seguente: “SIGNORI SIGNORE / IO SONO PROFUGA / DELA QUERA JUGOSLAVIA / CELAM 2 BAMBINE / PREGO POKO SOLDI PER MANDARE / MOLTO GRAZIE”, oppure “JO SONO PROGUGI / NONCE SOLDI PER / MANCARE DUJE / BAMBINI MIJA / MARITO MORTO / SARAJEVO GRACI”. Successivamente, dalla primavera del 1994 a oggi, compaiono cartelli di questo tipo: “IO SONO POVERO / CON 2. BAMBINI / AIUTATE PER NOI / POVERI!”; “VI PREGO HO FAME / AJUTATE UNA OFERTA / POKO SOLDI PER MANDARE / IYO MALATI POVERI 4 / NEPOTI MOLTO GRAZZIJE”; “AIUTATEMI / SONO MALATA / DI ZUCERO. / CELO 3. BAMBI”.
Il “grande problema” di cui parlano i cartelli, che nella prima fase è la guerra, nella seconda sono la malattia, i bambini, la povertà. Mestre, 21, luglio 1993: “IO SONO PROFUGO / DI JUGOSLAVIA / GRANDE PROBLEMI GVERE / DUE BAMBINI NON SOLDI / PER MANGIARE / VI PREGO PER UNA OFERTA / GRAZIE”. Venezia, 30 marzo 1995: “VI PREGO HO FAME / AJUTATE UNA OFERTA POKO / SOLDI PER MANDARE IO MALATI / KVATRO NEPOTI POVERI / GRANDE PROBMEMA / GRAZZIE SALVE”.
L’evoluzione dei cartelli sembra riflettere o accompagnare anche in questo caso il mutamento della società dei non zingari. In un primo tempo infatti chi faceva la carità lo faceva solo perché si trattava di aiutare dei profughi di guerra. In un secondo momento l’appello alla condizione di sfollati di guerra viene respinto con l’affermazione che “sono zingari, non sono profughi”, e di conseguenza anche la richiesta di elemosina si è modificata.
Chi ha conoscenze linguistiche osserverà prestiti lessicali, calchi, interferenze con il cirillico e così via, e potrà forse ricostruire famiglie di cartelli con interpolazioni, omissioni eccetera: la trascrizione scrupolosa dei testi che ho eseguito e che qui riporto spero possa essere di qualche utilità a chi volesse farlo. Quanto a me, vorrei sapere qualcosa di più sugli atteggiamenti e sulle risposte della società italiana, dagli automobilisti alla polizia e alle istituzioni, nei confronti della mendicità.
Bibliografia: P. Brunello, “Vado di caritare”, “Altrochemestre. Documentazione e storia del tempo presente”, 2 (1994), pp. 38-39; V. Padiglione, Andare a mangel. Osservazioni sull’identità zingara, “Ossimori”, 4 (1994), pp. 43-48; L. Piasere, L’organizzazione produttiva di un gruppo di Xoraxané Romá, in Id., Comunità girovaghe, comunità zingare, Liguori, Napoli 1995, pp. 345-365.